venerdì 3 ottobre 2008

Il grande Torino, 60 anni dopo (di Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia di venerdì 3 ottobre 2008
Il campionato di calcio è appena iniziato e siamo alle solite scene di follia: pubblico civilissimo all’interno del quale si nascondono gruppetti di scalmanati, intolleranti e violenti; giocatori bravi e buoni (per carità) ma “costretti” a sostenere il peso di una gloria divenuta oramai insostenibile. Sponsor, televisioni e impegni extracalcistici rendono più ricchi gli uomini ma logorano e di molto gli sportivi. Ma non è di questo che vorremmo parlare. Quando questo campionato finirà, la prossima primavera, saranno passati sessant’anni da quel tragico 4 maggio 1949, una data che ogni sportivo se vero sportivo non dovrebbe mai dimenticare, qualunque sia la sua fede calcistica. Il Grande Torino probabilmente la squadra italiana di club più forte e vincente di ogni tempo, periva in quella che è passata alla storia come la sciagura di Superga. Dalla collina torinese dove sorge una chiesa settecentesca già cappella dei Savoia, da quel luogo ove il Fiat g-212 sul quale sia erano imbarcati 31 uomini si schiantò contro i muri in pietra del giardino presso la basilica.
Fu una sciagura sportiva e umana di impressionante entità. Fu una scena d’incredibile realismo nel cuore di un’Italia neo-realista, un’Italia che viveva sulla propria pelle le ferite del recentissimo conflitto mondiale. Fu un film che nessuno avrebbe mai voluto vedere.
Nel ’40 l’Italia aveva cominciato la guerra in un modo e nel ’45 l’aveva finita in un altro. In cinque anni l’unica cosa che non era sparita era stata la primavera: 10 giugno nel primo caso, 25 aprile nel secondo. Come in un romanzo di Dostoevskij, il re (anzi l’imperatore), i partiti e i ministri si erano giocati tutto e del Paese restavano solo lacrime, sangue e macerie.
«Italiani? Bleah!!», agli albori della seconda metà dei Quaranta i commenti sui nostri connazionali erano di questo genere. Non ci illudiamo però, provenivano dagli ex e dai nuovi alleati come a marcare l’inaffidabilità di un Paese. L’incapacità di un popolo di essere anche una squadra. Ai più colti avrebbero ricordato la storica sentenza di Metternich: “Italia espressione geografica”. Eccola dunque la parola magica: “squadra”. Ce n’era una che nel primissimo dopoguerra malgré tout aveva ripreso ad incantare il mondo: il Grande Torino. D’accordo era soltanto una squadra di calcio, ma era fortissima e soprattutto era italiana. Che i più anziani lo raccontino ai più giovani, al giro di boa del Novecento quell’undici in maglia granata e pantaloncini bianchi vincitore di 5 scudetti consecutivi (se non ci fosse stata la guerra di mezzo chissà…), si spartiva assieme a Fausto Coppi e Gino Bartali, l’orgoglio di un Paese intero.
Lisbona 1° maggio, tre giorni prima della sciagura. La squadra imbattibile, già probabile vincitrice dello scudetto ’48-’49, terzo consecutivo, che macina un record dietro l’altro (non perdeva in casa da più di 90 incontri!), è in trasferta per un’amichevole contro il Benefica.
È una partita strana, nata per una promessa di Valentino Mazzola peraltro non in buone condizioni di salute, al capitano portoghese Ferreira, che qualcuno giudica inopportuna posta lì a poche settimane dalla fine del campionato. Ma il Toro vola ugualmente verso la Nazione posta al confine con l’oceano Atlantico. Sarà una sconfitta (4-3), nulla però rispetto a quel che attende in Italia i giocatori più forti del mondo.
Il Grande Torino è una squadra moderna che studia con attenzione il calcio inglese, ed è fra le poche società a viaggiare in aereo. Con la squadra anche i tecnici, i giornalisti e i dirigenti. Quel giorno di maggio di ritorno dal Portogallo le condizioni atmosferiche sono tremende, la visibilità è pressoché nulla. Un improvviso temporale si è abbattuto sul Piemonte, alle 17.03 l’ultima comunicazione radio del comandante: «stiamo arrivando», forse per un guasto all’altimetro, forse per un errore del pur espertissimo pilota, pochi minuti dopo quel tranquillo messaggio l’aereo è già al suolo, ma non come e dove si vorrebbe. È la fine.
Disastro e immagini del disastro innescano cattivi ricordi mai del tutto spenti. Terribili le foto-testimonianza come quella del bambino coi calzoni corti, di spalle, a pochi passi dal rottame, terribili le immagini del funerale per il centro di Torino. Il 6 maggio a piazza San Carlo fra 500 mila italiani e fra Carabinieri in alta uniforme le bare dei campionissimi sfilano una ad una portate a spalla da amici, tifosi e parenti. Terribili anche le parole degli speaker che chiamano per nome, e lo avrebbero fatto in seguito ogni anno per il 4 maggio, ancora uno ad uno, le glorie di un’intera nazione: Valentino Mazzola, il capitano o semplicemente Valentino, Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Bongiorni, Castigliano, Fadini, Gabetto, Grava, Grezar, Loik, Maroso, Martelli, Menti, Operto, Ossola, Rigamonti, Shubert.
Quel dì nel cuore della città della Mole si rinnovava una processione di tifosi e gente comune cominciata già pochi minuti dopo la divulgazione della notizia del disastro sulle colline di Superga. C’era tanta angoscia e c’erano commozione e soprattutto incredulità. Destra e sinistra, torinisti e juventini, fiorentini e bolognesi, tutti uniti nel silenzio e nel dolore. Fu una delle prime vere prove di fratellanza del popolo italiano nel dopoguerra. Oggi a ricordare quei giorni, uomini, cose ed eventi c’è una museo, il bellissimo museo del Grande Torino appunto, che non si trova più a Superga ma nel sobrio comune di Grugliasco, nella secentesca Villa Claretta Assandri.
La sciagura di Superga è stato l’ultimo atto di un decennio – gli anni Quaranta – che ha segnato in maniera indelebile la storia dell’Italia contemporanea. In quella primavera del ’49 (un’altra primavera...), è scomparso il simbolo vincente di un’intera generazione di giovani, quel che non si era portato via la guerra se l’è portato via il destino.
Dal punto di vista sportivo, poi, se possibile il disastro di Superga fu un evento ancora peggiore. E non solo per il Torino ché la squadra di Valentino era insieme orgoglio e forza di un intero Paese (tuttavia è rimasto celebre il “quarto d’ora granata”, il lasso di tempo in cui Valentino e gli altri spronati dagli squilli di tromba provenienti dalle tribune dello stadio Filadelfia, “distruggevano” gli avversari).
Passeranno vent’anni, verrà su un’altra generazione di sportivi, e solo allora il nostro calcio a livello di squadre nazionali riuscirà a riprendersi da uno shock non solo sportivo ma soprattutto emotivo. Ai mondiali del 1950, disputatisi in Brasile, l’Italia non andrà in aereo bensì in nave! Dovrà arrivare l’epoca dei Riva e dei Facchetti, dei Rivera e dei Sandro Mazzola, figlio appunto di Valentino; dovrà insomma arrivare la fine degli anni Sessanta e la vittoria agli europei. E poi dovranno arrivare gli anni Settanta per rivedere un’Italia non tanto vincente quanto e solo a tratti con-vincente.
Dopo anni e anni di vacche magre l’Italia del triestino Valcareggi conquisterà un trofeo continentale non senza i favori della dea bendata (uno spareggio con la monetina in semifinale). Era il 1968 (ancora lui…) e a fine anno se ne andava per sempre anche l’ottantaduenne e mito dello sport italiano Vittorio Pozzo. Praticamente era ad un tempo l’inizio e la fine di un’epoca. A Superga a riconoscere i corpi dei campioni del Torino molti dei quali completamente carbonizzati c’era proprio il torinese Vittorio Pozzo ex tenente degli alpini, ex allenatore, ed anche giornalista presso il capoluogo piemontese. Uomo dei record, storico tecnico della nazionale italiana – due coppe Rimet e un oro alle olimpiadi di Berlino – due anni prima della sciagura aveva schierato ben dieci granata con la maglia della nazionale. L’unico non granata era il portiere della Juventus Sentimenti IV. La partita si giocava a Torino ed era contro l’Ungheria del giovane Puskas. Quell’incontro di calcio finì 3-2 per l’Italia, le cronache dicono che non sia stata una gran bella partita.
Calendario alla mano come il tremendo 4 maggio del ’49 anche quell’11 maggio 1947 - passato alla storia come il momento di massima gloria del Grande Torino – era un giorno di primavera. Sulle tribune del vecchio Filadelfia però era comparso un pallido sole. Dopo la partita tutti i giocatori sarebbero andati ad abbracciare il loro tecnico.
Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).

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