Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 5 ottobre 2008
Che per la classe operaia le porte del cielo fossero sbarrate era cosa nota sin dai tempi in cui il povero Lulù, interpretato da Gian Maria Volonté, impazziva sotto il peso insostenibile dei ritmi della catena di montaggio. Che le fosse precluso anche l’accesso al paradiso più ambito dei giorni nostri, la televisione, invece, lo si è saputo solamente nel 2003, anno in cui terminavano le riprese de L’avvocato De Gregorio, la prima pellicola italiana a parlare esplicitamente di morti bianche. Sebbene prodotto da Rai Cinema, il film non è mai giunto sul piccolo schermo e non è riuscito a conquistarsi uno spazio nei palinsesti dei media del Belpaese, più interessati ad occuparsi di isterici naufraghi vip, contadini improvvisati, talpe e aspiranti artisti. Perché piangere per una fiction o un reality va bene, ma guai a distogliere il guardonismo-tv dalle (false) storie strappalacrime per indirizzarlo verso un fenomeno che ci vede in testa, tra le nazioni europee, nella non invidiabile classifica dei caduti sul lavoro.
Tanto più se il film in questione è opera di un regista dichiaratamente di destra come il napoletano Pasquale Squitieri, uno dei grandi protagonisti del nostro cinema, personaggio carismatico e controcorrente, sposato con la raffinata e sempre affascinante Claudia Cardinale, un’altra che dello stile patinato – e plastificato – attualmente in voga se ne frega: «No al lifting: è bello mostrare i segni del tempo. Rifarsi è un segno di fragilità, se non sei forte e non accetti i tuoi anni, meglio che lasci stare». Boicottato dal circuito cinematografico che conta – solo una fugace apparizione nelle sale durata meno di una settimana – finalmente L’avvocato De Gregorio sarà nuovamente proiettato il prossimo 10 ottobre presso il Cinema Trevi di Roma, sede della prestigiosa Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, cui seguirà un incontro con lo stesso regista. L’appuntamento capitolino rappresenterà anche un’ottima occasione per vedere in azione uno dei mostri sacri della recitazione, Giorgio Albertazzi, nelle vesti del protagonista, che dà vita ad una prova magistrale, sottolineata dal consenso unanime della critica: per il Morandini l’attore toscano è «all’apice del suo istrionismo scenico», per Repubblica siamo in presenza di «una grande interpretazione», per Il Giorno «Albertazzi, incanutito e altero, shakesperiano e sozzo, vale il biglietto», per Il Messaggero si tratta di «un ruolo maiuscolo». Per i molti che non avranno la fortuna di sedere sulle poltroncine del cinema romano – la serata è ad inviti – è bene riassumere brevemente la trama (gli altri, che invidia!, è meglio che saltino le prossime righe). L’avvocato De Gregorio è un uomo finito: la moglie lo ha abbandonato e il suo unico figlio Vincenzino è morto, nonostante per garantirgli le costose cure necessarie sia ricorso a tutti gli espedienti, compreso quello che gli è valso una pesante accusa di truffa. Consuma la sua solitudine in un decrepito monolocale di Spaccanapoli, dove una sera, per caso, inseguita dai carabinieri, si rifugia una prostituta.
Nunziatina, questo il nome della donna, è costretta a sbarcare il lunario vendendosi per strada da quando il marito, capomastro presso un cantiere, è rimasto vittima di un incidente sul lavoro che la società di costruzioni ha spacciato per una sfortunata caduta dal motorino. De Gregorio promette il suo interessamento ed inizia ad indagare a modo suo, preoccupato solo di trovare il modo di spillare quattrini alla poveretta. Finché non incontra sulla sua strada un giovane e brillante magistrato, il pubblico ministero Foloni, che – incurante dell’aspetto dimesso del vecchio legale – lo sta ad ascoltare e si mostra interessato alla vicenda. Il colloquio con il Pm risveglia il carattere battagliero dell’avvocato, che ritrova l’antico orgoglio e si mette a fare sul serio. Dietro l’angolo, però, la delusione: Nunziatina gli ha revocato il mandato, allettata dalle offerte dell’impresa edile, che ha acquistato il suo silenzio. Ma il comune di Napoli ha deciso di costituirsi parte civile e nel dibattimento sarà rappresentato da De Gregorio: l’arringa può avere inizio. Sembra una scena alla Al Pacino in Scent of a woman, ma in questo caso ad essere messa in discussione non è la dignità di uno studento di un college americano bensì quella di una città ferita e violata dallo sfruttamento del lavoro dei suoi figli, costretti a guadagnarsi il pane in condizioni disumane.
Storie che quotidianamente, purtroppo, riempiono le cronache nere dei giornali e su cui Squitieri ha girato anche uno spot, Morire sul lavoro, del 2007, commissionato dalla Edilsicur e da Cgil, Cisl e Uil. Presentato alla 65ma edizione della Mostra di Venezia, lo spot ha ottenuto il plauso di Fausto Bertinotti e di Giorgio Napolitano. In particolare, il Presidente della Repubblica ha formalmente ringraziato Squitieri con una lettera in cui ha espresso il suo «sincero apprezzamento» per l’iniziativa. Il consenso di due personalità autorevoli della sinistra italiana, tuttavia, non è stato un viatico sufficiente affinché almeno quei novanta secondi potessero scorrere sui teleschermi. Il motivo? Lo rivela Squitieri: «Non passa in tv perché la sinistra lo impedisce. Si saranno chiesti: i registi di sinistra sono tanti e non ci hanno pensato? Eppure stanno sempre da tutte le parti. Sono gli stessi che prima parlano di odio di classe e poi vanno al festival di Sanremo». Ancora: «quelli di sinistra continuano a presentare il mulino bianco invece della realtà. E poi vanno a fare i discorsi sulla socializzazione». A maggiore testimonianza che non si tratta di fantasie dietrologiche, c’è un ulteriore episodio, riferito al film Hotel Meina: il progetto originariamente era stato affidato a Squitieri e successivamente passato a Carlo Lizzani, in quanto il regista partenopeo sarebbe stato «incapace di equità storica» semplicemente per il fatto di essere di destra, quindi fazioso per costituzione. Il problema è sempre il solito: i custodi del politicamente corretto pretendono, per pregiudizio o malafede, di contenere la destra nel vestito caricaturale che le hanno cucito addosso, e ogni intromissione in settori che reputano di loro esclusiva competenza – vedi la questione sociale o la tutela dei diritti dei lavoratori – viene letta come uno sconfinamento di campo, un’ingerenza in faccende che non dovrebbero riguardarla.
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, collaboratore dell'ufficio stampa del Consiglio Regionale d'Abruzzo, scrive per le pagine culturali del quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. E' coautore, con Roberto Alfatti Appetiti, de L'ABC di un Sessantotto postideologico (Charta Minuta n. 4/2008) e ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).
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