Paolo Conte accumula musica: ed è legna di un bosco che gli appartiene e nel quale entra ed esce a piacimento, con invidiabile facilità. E poi accumula parole: legna che trova all’improvviso e che mette da parte; non grandi tronchi ma pezzi piccoli o piccolissimi: inutili per un mobile intero, ottimi per un intarsio.
«Non parto mai da un argomento. I testi nascono sempre dalla frizione di due o tre parole, una frizione che attrae altre parole disegnando così un inizio di storia o provocando anche soltanto la voglia di raccontare. Io, da buon nordico della Padania, non riesco a vedermi nelle vesti di madrigalista. Tendo sempre a raccontare.»
Ci vuole niente a immaginarselo, in un’incarnazione di cento o centocinquanta anni fa. Paolo Conte, avvocato o notaro dell’Astigiano (o semplice contadino autodidatta, perché no?), che inventa qualcosa e poi lo racconta ai familiari e agli amici. Che magari fa finta di inventare all’impronta, e invece ci ha pensato tanto per conto suo: camminando da solo per i campi, mostrandosi paziente solo per essere lasciato in pace, trasformando ogni tragitto e ogni attesa in altrettante occasioni di riflessione su di sé e sugli altri. Sulla vita, insomma.
Paolo Conte che (fedele o incorreggibile) si reincarna sempre lì. Sempre dalle parti di Asti. E che questa volta, l’ultima per ora, viene al mondo il 6 gennaio del 1937. Il padre che fa il notaio, lui che è destinato a subentrargli nella professione. Il padre che suona il pianoforte, lui che ama la musica quanto basta per sentirne il richiamo, ma non al punto di mettersi a studiarla a fondo. Attraversa la guerra che è solo un bambino. Cresce nell’Italia degli anni Cinquanta. Studia legge, come da copione. Si appassiona al jazz, come da destino. E quando si affaccia sul mondo della canzone lo fa nelle vesti di compositore, da solo o in coppia: i testi li aggiunge qualcun altro. E meno male che c’è un Vito Pallavicini, a scrivere le parole di Azzurro, di Insieme a te non ci sto più, di Messico e nuvole, di Tripoli ’69.
L’esordio da solista arriva solo nel 1974. Siamo appena agli inizi, e si sente. La voce è incerta, conscia delle imperfezioni e inconsapevole del fascino. La scrittura è promettente e originalissima, ma ancora lontana dai vertici ai quali si innalzerà in seguito. L’impressione è netta: il musicista la sa più lunga dell’autore dei testi, e tutti e due la sanno (molto) più lunga del cantante. L’impressione è fuorviante: il musicista ha cominciato per primo, l’autore dei testi parecchio dopo, il cantante sta iniziando adesso. Ci vuole pazienza. Dategli tempo e vedrete che si ritroveranno allineati. Al porto di arrivo. All’imbarco di una nuova avventura.
Oggi, 34 anni dopo, conosciamo tutta quanta la storia. Tutti quanti i viaggi. Le rotte, gli scali, i tempi delle traversate. L’equipaggio. I passeggeri. Abbiamo la sensazione che il capitano continui a tenersi delle cose per sé, ma gli siamo comunque grati di tutto quello che ci ha mostrato finora. Di quello che continua a raccontarci, nel suo modo spezzato e allusivo. Frammentario e illuminante.
«Psiche sa leggere. Scrivere. Pallida lampada araba.»
Inizia così, il nuovo viaggio. Il nuovo album che si intitola appunto Psiche. Comincia con quelle poche parole che proiettano l’ombra di un personaggio, o di una storia, ma si guardano bene dal proseguire. Ed è magia vera, non gioco di prestigio. Ora che nulla è più in bilico tra il talento e l’inesperienza. Ora che il controllo è totale e sapiente, in ogni singola fase dell’ideazione e della realizzazione. Non è più teatro di piazza o musica da balera, se mai lo è stato in precedenza. Prima, però, un ascoltatore distratto poteva incorrere nell’equivoco. Oggi sarebbe impossibile. L’allestimento è quello di una grande, accuratissima produzione teatrale. La musica e la voce sono fuse in un amalgama solido e leggero che risplende come bronzo. Gli strumenti cantano, la voce recita. La voce è il prim’attore che potrebbe tenere la scena anche da solo, con l’unico sostegno del pianoforte a fare da spalla; ma gli strumenti, misurati e perentori allo stesso tempo, trasformano il monologo in un lavoro corale. Il bozzetto in dipinto. La novella in romanzo.
Ancora una volta, e non si vede proprio come potrebbe essere diversamente, a 71 anni compiuti, Paolo Conte si allontana dal presente e si rifugia nel suo universo parallelo di figure suggestive e di vicende irrisolte. Personaggi che oscillano tra l’uomo comune e l’avventuriero, che sbandano tra il fallimento e la grande impresa. Che vivono come possono, ma pure, in un modo o nell’altro, accarezzano un’idea migliore e più intensa di se stessi e della propria vita. La forza della fantasia li fa alzare da terra. La debolezza delle chimere li ributta giù.
Dietro tutte le possibili differenze, dietro tutte le possibili invenzioni, il prototipo umano resta «l'uomo del dopoguerra italiano, il quale uscendo dai disastri della guerra aveva un ruolo di eroe solitario e perdente. Quell'uomo aveva bisogno di reimparare a sorridere, a parlare, aveva bisogno di avventurarsi di nuovo nella vita, era destinato a viaggiare in qualunque modo, direttamente o con la testa.» È l’uomo che Paolo Conte ha conosciuto da ragazzo e che gli è rimasto dentro come l’archetipo dell’essere umano stretto tra gli obblighi e i desideri. Quello che si dà tanto da fare e che raccoglie poco. Che non si può riscattare dai suoi stessi limiti, ma al quale si può rendere l’omaggio di un ritratto, di un ricordo, di un lampo di comprensione.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
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