giovedì 6 novembre 2008

Quegli anni di rivolta cartacea (di Riccardo Notte)

Una mostra a Milano sulle forme e i segni della contestazione 1968-77
Articolo di Riccardo Notte
Dal Secolo d'Italia di giovedì 6 novembre 2008
La prima domanda che sorge dopo aver visitato l’intrigante mostra di documenti, libri, stampati, riviste e fotografie intitolata «Passare il segno - La forma della contestazione 1968-1977», presso la Fondazione Biblioteca di Via Senato 14 a Milano (fino al 17 gennaio 2009), è che cosa sia rimasto e cosa invece sia irrimediabilmente tramontato di quella vulcanica stagione creativa che va dalla metà dei Sessanta fino agli “anni di piombo”.
L’inevitabile amarcord della prima giovinezza non c’entra. La questione è al contrario giustificata dalla cronaca, che racconta anche oggi un universo giovanile in fermento, nelle scuole, nelle piazze, nel web: luoghi e non-luoghi dove apparente mente certi gesti e certi modi di comunicare che furono dei padri e della madri sembrano ripetersi come riti. E invece, per pura causalità (ma evviva l’eterogenesi dei fini) interviene una mostra invero assai particolare, a ridimensionare le discutibili tesi “continuiste” proposte in questi convulsi giorni.
La mostra, curata da Giovanni Baule, Mara Campana e da Matteo Noja, arricchita dal catalogo ragionato con testi di Edmondo Berselli e dei curatori e completato da accuratissime schede compilate da Laura Mariani Conti e da Matteo Noja, presenta per la prima volta al pubblico parte del patrimonio archivistico della Fondazione Biblioteca. Il Fondo relativo agli anni della contestazione comprende circa 2500 “pezzi” tra libri, testate di giornali, riviste, ciclostilati, volantini e manifesti sottratti all’oblio, ma anche alla dispersione e alle breve vita cui in origine erano destinati molti di questi materiali intrinsecamente effimeri. Ebbene, visitando la mostra, si può facilmente percepire la prossimità temporale, ma anche l’impressionante distanza, fra l’attuale universo della comunicazione politica giovanile e quanto avveniva in quegli anni.
Una selezione dei testi politici del tempo apre l’esposizione. Si passa da Fate l’amore non la guerra di Piero Novelli alla racconta di citazioni di Mao, da L’anno degli studenti di Rossana Rossanda a Professione editorialista. “Konkret” 1959-1969 della Ulrike Meinhof, dai testi di Toni Negri e Oreste Scalzone alla Tesi sulla questione agraria socialista nel nostro paese di Kim Il Sung. Ma figurano anche Cavalcare la tigre di Julius Evola, per le preziose edizioni Scheiwiller, o la Storia del movimento studentesco e dei Marxisti-Leninisti in Italia di Walter Tobagi. Ciò che colpisce di queste prime prove per instaurare un clima da rivoluzione permanente è l’incompatibilità tra le forme e i contenuti, perché è di meridiana evidenza che questi ultimi, il più delle volte esplosivi, soffocavano nei recinti di una rigidità tipografica erede della prima metà del secolo.
Poi arrivano i graffiti. Il segno diventa di-segno, si scoprono insospettabili risorse comunicazionali che sostengono le logiche della propaganda politica, ma che lasciando profonde tracce nella sensibilità diffusa. Un esempio è il mensile Quindici, diretto da Nanni Balestrini, che è fatto in modo tale da poter essere in parte dispiegato come un manifesto, affinché forma e contenuto coin cidano, soluzione semplice quanto geniale. E proprio su Quindici apparirà la foto-poster su “La battaglia di Valle Giulia” che ancora continua a far discutere per la presenza dei sessantottini “di destra”. Una formula, quella di Quindici, che sarà copiata all’infinito. In realtà, la distanza storica evidenzia che l’esplosione creativa e comunicativa fu incendiaria e generalizzata. Nel volgere di qualche anno nascono riviste come Linus e Re Nudo, che trasformano il fumetto in strumento critico. Sulla rivista Hit il situazionista Gianni Emilio Simonetti inventa effetti cromatici psichedelici poveri ma efficaci, su A/traverso si importano soluzioni della grafica undergroud anglo-sassone. E poi si inventano i gadget allegati gratuitamente alle pubblicazioni, fioriscono piccole ma vitali case editrici come Arcana, Stampa Alternativa, Samonà e Savelli. Del pari testate strettamente politico-militanti come Rosso, Lotta Continua o Avanguardia Operaia sperimentano formati e soluzioni che stimolano riconoscibilità e identificazione. È anche il periodo di incubazione del quotidiano la Repubblica, da alcuni “esperti” del tempo salutato a torto con scetticismo proprio per l’insolito formato e per la grafica.
Le scoperte sono sovente riscoperte, poiché tanta creatività come è noto annovera illustri precedenti, che vanno dal paroliberismo dei futuristi agli esperimenti dei poeti visivi degli anni ’50, discendenti più o meno diretti dei primi. Però l’inedito è dietro l’angolo, si intuisce ad esempio l’infinito potenziale della fotografia, si sviluppa la fotocomposizione, si comprende che l’immagine scontornata, scomposta, ricomposta, solarizzata, deformata è un medium tutto da indagare. Insomma, si fa tesoro di un’estetica incubata dalle avanguardie e dalle neoavanguardie, la si aggiorna con le tecnologie dell’ultima ora e la si innesta nella comunicazione di massa, anticipando ciò che oggi chiunque può facilmente realizzare in casa, manipolando programmi come Photoshop, CorelDraw o Gimp. Ma lo scopo è sempre quello di piegare le potenzialità del medium alla comunicazione politica, con risultati sorprendenti.
Tra gli esempi i primi libri fotografici di Aldo Bonasia, Tano D’Amico, Mario Dondero, Uliano Lucas, perché il reportage deve non solo informare ma soprattutto “controinformare”, innanzitutto con un linguaggio visivo efficace, apparentemente immediato. Come sosteneva Chaïm Perelman, era in gioco la costruzione di un nuovo tipo di retorica, ma strutturata non più soltanto sulla comunicazione verbale o scritta condizionata dai segni tipografici, bensì anche dalle immagini capaci di suscitare cortocircuiti mentali, agendo proprio nell’astratto campo di battaglia in cui può trasformarsi la copertina di un libro, la prima pagina di un giornale, il frontespizio di un periodico. Anche perché nel frattempo – e siamo già nei Settanta inoltrati – qualcuno coglie le prime avvisaglie delle nascenti televisioni private locali, emittenti che tentano di produrre palinsesti poveri e spesso intollerabilmente triviali, ma nondimeno emotivamente potenti, perché l’universo delle immagini non è quello delle voci e dei suoni. Se le radio libere operavano nel profondo dell’anima per effetto del fascino incorporeo della voce interiore e della musica, le nascenti televisioni private presero a irretire la superficie, agendo sulla “pelle”, influenzando il cuore, lo stomaco, l’intestino e le gonadi attraverso il canale spalancato e indifeso degli occhi.
Perciò, non è affatto chiaro chi abbia influenzato chi: se la rivoluzione televisiva degli anni Settanta abbia inconsapevolmente raccolto la sfida “verbovisiva” della stampa, specialmente se alternativa o impegnata, o se al contrario quest’ultima non abbia fatto altro che reagire alla maggiore apertura di un sistema mediatico che iniziava ad avvalersi di tecnologie televisive sempre più economiche. Al dunque, è certo che la carta stampata sembra da quel momento in poi comportarsi come un sismografo, che registra i sobbalzi di una società dai nervi sempre più scoperti, traducendoli in forme travolgenti. Un esempio è la copertina del best seller Porci con le ali (disegnata da Pablo Echaurren), che un’intera generazione riconosce a colpo d’occhio quanto se non più del contenuto del libro, perché quei disegni allusivi e fortemente inchiostrati, quella scansione a metà tra la strip e lo storyboard, si installeranno nella memoria individuale e collettiva come altrettanti software. Se a distanza di decenni si può ancora tornare nel passato e rivivere il sapore (perciò il significato profondo) di quei tempi, lo si deve più a questi affioramenti multiformi di una nuova estetica di massa che ai contenuti logici e lineari di tanti cervelli schierati a battaglia su opposte sponde. Anzi, è sorprendente rilevare quanto poco di quel biblico fiume di inchiostro a stampa sia sopravvissuto ad appena un quarto di secolo, e quanto poco esso abbia ancora da dire ai contemporanei, specialmente se giovani. Ma non così le forme estetiche.
Viene da chiedersi se mai sarà possibile fra trenta e più anni produrre una mostra documentaria analoga, incentrata sulle forme estetiche della comunicazione politica dei nostri tempi. Infatti, la fisicità dei materiali cartacei possiede non solo il fascino del reperto ma anche uno specifico peso psichico. La carta stampata è un testimone vivente, la comunicazione elettronica molto meno, sebbene i database siano apparentemente conservativi.

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