Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 dicembre 2008
Ha ragione Yoko Ono: «Questo libro – scrive nella prefazione, breve e densa e intelligente – è Lennon del più classico. Non è una lettura alla “rilassati e accomodati”. Probabilmente a ogni paragrafo avvertirete l’esigenza di alzarvi a fare un giro della stanza. Io almeno ho fatto così. […] Le persone deboli di stomaco faranno meglio a chiudere la finestra prima di leggere. Potreste provare il desiderio di buttarvi di sotto».
Un’iperbole, ma tutt’altro che infondata. Nella versione completa, infatti, la celebre intervista che Lennon concesse a Rolling Stone alla fine del 1970, venendo poi presentata in due puntate nei numeri del 21 gennaio e del 4 febbraio 1971, ha davvero un impatto molto forte. E disturbante. Se quello pubblicato a suo tempo era già un cospicuo j’accuse ai miti del rock, e in particolare al modo falsato e «zuccheroso» con cui i Beatles erano stati dipinti, il testo integrale va molto oltre.
La prima versione, per così dire, restituiva un punto di vista. I motivi di risentimento si coglievano comunque, ma nell’insieme rimanevano avvolti (avviluppati) in una rete di concetti. Jann S. Wenner, direttore e co-fondatore del quindicinale nato poco più di tre anni prima, aveva lavorato sulle trascrizioni con un’attenzione che andava ben al di là delle mere necessità di una sintesi giornalistica e che, col senno di poi, mostra tutta la sua prudenza. Consciamente o inconsciamente, e benché all’epoca avesse solo 24 anni, aveva evitato di rovesciare sui lettori le parti più virulente, e tout court sgradevoli, delle dichiarazioni di Lennon. Che l’ormai ex Beatle prendesse le distanze dall’ingombrante esaltazione dei “Fab Four” era evidente, così come lo era la sua esigenza di regolare a proprio vantaggio i conti con parecchia gente (a cominciare da Paul McCartney), ma le sue potevano ancora sembrare delle semplici puntualizzazioni. L’aggressività era parecchio sfumata. La rabbia appariva già decantata in ironia, o tutt’al più in qualche lampo di sarcasmo.
Quello che leggiamo in questo volume – che in inglese è apparso già nel 2000 e che da noi viene proposto solo oggi col titolo John Lennon ricorda (pagg. 169, € 15,90), dalla stessa White Star che cura l’edizione italiana di Rolling Stone – ripristina la verità. Per dirla col James Bond di Goldfinger, che sintetizzava così la maggiore potenza del Ju-Jitsu rispetto al Judo, «c’è la differenza che passa tra una catapulta e una fionda». Lennon va all’attacco e non si ferma davanti a niente. Picchia duro dall’inizio alla fine. E picchia per fare male, come un pugile che abbia subito delle gravi scorrettezze e che abbia una gran voglia di rifarsi. Una gran voglia di vendicarsi.
Il filo conduttore è nitido: lui è un genio con un intimo bisogno di verità e di ricerca, mentre i Beatles, specie dopo essere stati risucchiati nelle innumerevoli forzature della Beatlemania, sono diventati un’immane finzione, condannata a replicare all’infinito la propria immagine pubblica. Lui si è stancato di avallare quella finzione. Lui ha altro da fare. La giostra non lo divertiva più, non lo interessava più, e quindi ha tirato il freno e ha bloccato d’un colpo i cavallucci al galoppo, le automobiline colorate, le astronavi con le lucette. Tutto. Tutti. Tutta quella merda che girava in tondo senza avanzare di un centimetro.
«Fottuti bastardi, ecco quello che erano i Beatles. Devi essere un bastardo se vuoi arrivare, amico, c’è poco da fare, e i Beatles sono i peggiori bastardi sulla faccia della terra. […] Non ci sono santi, se ce la fai sei un bastardo.»
Interviene Yoko: «Come siete riusciti a mantenere un’immagine così pulita? È incredibile».
«L’immagine vogliono salvarla tutti. Conviene alla stampa per via di feste, puttane gratis e divertimento; tutti vogliono restare sul carrozzone: è il Satyricon, dopotutto. Noi eravamo i Cesari: chi ci avrebbe smontato se c’era da fare un milione di sterline? Tutti i comunicati stampa, la corruzione, la polizia, la fottuta pubblicità, capisci? Conveniva a tutti, ecco perché alcuni stanno ancora cercando di rimanervi aggrappati.»
Jann S. Wenner cambia discorso. O quanto meno non approfondisce. Chiede «cosa vuoi dire ai beatlesiani di oggi?». Come ha fatto in precedenza, e come farà anche dopo, si limita a sollecitare qualche dettaglio sui fatti e qualche chiarimento sulle affermazioni, se non sono già perfettamente chiare di per se stesse. Ma non importa, ai fini dell’intervista. Le domande sono quasi superflue, vista la foga con cui si succedono le risposte. Le domande servono più che altro ad assecondarne il flusso, a confermare la “legittimità” psicologica e mediatica di una tale quantità di violenza verbale, a far sembrare un dialogo quello che fondamentalmente, come tutti gli sfoghi, è invece un monologo. Lennon è inarrestabile. Sente di essere stato sminuito sul piano artistico, venendo osannato “solo” come membro dei Beatles, e umiliato su quello umano, per l’ostracismo ricevuto da Yoko Ono.
Chiede Jann S. Wenner (e di tutto questo non resterà traccia nella versione del 1971): «Quali furono le reazioni del Beatles quando presentasti loro Yoko?».
«La disprezzarono.»
«Fin dall’inizio?»
«La insultarono, e continuarono a farlo. Proprio così, e non si rendono nemmeno conto che io certe cose le noto. E persino quando questo apparirà nero su bianco, sembrerà che io e lei siamo paranoici. […] Ringo è stato corretto, ma gli altri due ci hanno proprio fatto a pezzi. Non li perdonerò mai per questo.»
Le ferite erano aperte. Facevano male. Sanguinavano. Lennon era innamoratissimo di Yoko, ma non era soltanto la reazione di un uomo che difende la donna che ama. È che lui, in quell’amore, aveva trovato il riscatto dalle frustrazioni precedenti. Dall’amarezza che gli era stata arrecata da tutti quelli che, dall’infanzia in poi, non gli avevano dato atto del suo essere, già a scuola, «il più intelligente di tutti». Lei riconosceva la sua genialità e, al tempo stesso, lo accettava completamente come persona. Passione, affetto e stima all’ennesima potenza, in una relazione che si annuncia definitiva: quanto basta per odiare chiunque si azzardi a turbare l’idillio. Quanto basta per reagire, contro Paul e contro George, uccidendo ciò che essi avevano di più caro. I Beatles.
Un’iperbole, ma tutt’altro che infondata. Nella versione completa, infatti, la celebre intervista che Lennon concesse a Rolling Stone alla fine del 1970, venendo poi presentata in due puntate nei numeri del 21 gennaio e del 4 febbraio 1971, ha davvero un impatto molto forte. E disturbante. Se quello pubblicato a suo tempo era già un cospicuo j’accuse ai miti del rock, e in particolare al modo falsato e «zuccheroso» con cui i Beatles erano stati dipinti, il testo integrale va molto oltre.
La prima versione, per così dire, restituiva un punto di vista. I motivi di risentimento si coglievano comunque, ma nell’insieme rimanevano avvolti (avviluppati) in una rete di concetti. Jann S. Wenner, direttore e co-fondatore del quindicinale nato poco più di tre anni prima, aveva lavorato sulle trascrizioni con un’attenzione che andava ben al di là delle mere necessità di una sintesi giornalistica e che, col senno di poi, mostra tutta la sua prudenza. Consciamente o inconsciamente, e benché all’epoca avesse solo 24 anni, aveva evitato di rovesciare sui lettori le parti più virulente, e tout court sgradevoli, delle dichiarazioni di Lennon. Che l’ormai ex Beatle prendesse le distanze dall’ingombrante esaltazione dei “Fab Four” era evidente, così come lo era la sua esigenza di regolare a proprio vantaggio i conti con parecchia gente (a cominciare da Paul McCartney), ma le sue potevano ancora sembrare delle semplici puntualizzazioni. L’aggressività era parecchio sfumata. La rabbia appariva già decantata in ironia, o tutt’al più in qualche lampo di sarcasmo.
Quello che leggiamo in questo volume – che in inglese è apparso già nel 2000 e che da noi viene proposto solo oggi col titolo John Lennon ricorda (pagg. 169, € 15,90), dalla stessa White Star che cura l’edizione italiana di Rolling Stone – ripristina la verità. Per dirla col James Bond di Goldfinger, che sintetizzava così la maggiore potenza del Ju-Jitsu rispetto al Judo, «c’è la differenza che passa tra una catapulta e una fionda». Lennon va all’attacco e non si ferma davanti a niente. Picchia duro dall’inizio alla fine. E picchia per fare male, come un pugile che abbia subito delle gravi scorrettezze e che abbia una gran voglia di rifarsi. Una gran voglia di vendicarsi.
Il filo conduttore è nitido: lui è un genio con un intimo bisogno di verità e di ricerca, mentre i Beatles, specie dopo essere stati risucchiati nelle innumerevoli forzature della Beatlemania, sono diventati un’immane finzione, condannata a replicare all’infinito la propria immagine pubblica. Lui si è stancato di avallare quella finzione. Lui ha altro da fare. La giostra non lo divertiva più, non lo interessava più, e quindi ha tirato il freno e ha bloccato d’un colpo i cavallucci al galoppo, le automobiline colorate, le astronavi con le lucette. Tutto. Tutti. Tutta quella merda che girava in tondo senza avanzare di un centimetro.
«Fottuti bastardi, ecco quello che erano i Beatles. Devi essere un bastardo se vuoi arrivare, amico, c’è poco da fare, e i Beatles sono i peggiori bastardi sulla faccia della terra. […] Non ci sono santi, se ce la fai sei un bastardo.»
Interviene Yoko: «Come siete riusciti a mantenere un’immagine così pulita? È incredibile».
«L’immagine vogliono salvarla tutti. Conviene alla stampa per via di feste, puttane gratis e divertimento; tutti vogliono restare sul carrozzone: è il Satyricon, dopotutto. Noi eravamo i Cesari: chi ci avrebbe smontato se c’era da fare un milione di sterline? Tutti i comunicati stampa, la corruzione, la polizia, la fottuta pubblicità, capisci? Conveniva a tutti, ecco perché alcuni stanno ancora cercando di rimanervi aggrappati.»
Jann S. Wenner cambia discorso. O quanto meno non approfondisce. Chiede «cosa vuoi dire ai beatlesiani di oggi?». Come ha fatto in precedenza, e come farà anche dopo, si limita a sollecitare qualche dettaglio sui fatti e qualche chiarimento sulle affermazioni, se non sono già perfettamente chiare di per se stesse. Ma non importa, ai fini dell’intervista. Le domande sono quasi superflue, vista la foga con cui si succedono le risposte. Le domande servono più che altro ad assecondarne il flusso, a confermare la “legittimità” psicologica e mediatica di una tale quantità di violenza verbale, a far sembrare un dialogo quello che fondamentalmente, come tutti gli sfoghi, è invece un monologo. Lennon è inarrestabile. Sente di essere stato sminuito sul piano artistico, venendo osannato “solo” come membro dei Beatles, e umiliato su quello umano, per l’ostracismo ricevuto da Yoko Ono.
Chiede Jann S. Wenner (e di tutto questo non resterà traccia nella versione del 1971): «Quali furono le reazioni del Beatles quando presentasti loro Yoko?».
«La disprezzarono.»
«Fin dall’inizio?»
«La insultarono, e continuarono a farlo. Proprio così, e non si rendono nemmeno conto che io certe cose le noto. E persino quando questo apparirà nero su bianco, sembrerà che io e lei siamo paranoici. […] Ringo è stato corretto, ma gli altri due ci hanno proprio fatto a pezzi. Non li perdonerò mai per questo.»
Le ferite erano aperte. Facevano male. Sanguinavano. Lennon era innamoratissimo di Yoko, ma non era soltanto la reazione di un uomo che difende la donna che ama. È che lui, in quell’amore, aveva trovato il riscatto dalle frustrazioni precedenti. Dall’amarezza che gli era stata arrecata da tutti quelli che, dall’infanzia in poi, non gli avevano dato atto del suo essere, già a scuola, «il più intelligente di tutti». Lei riconosceva la sua genialità e, al tempo stesso, lo accettava completamente come persona. Passione, affetto e stima all’ennesima potenza, in una relazione che si annuncia definitiva: quanto basta per odiare chiunque si azzardi a turbare l’idillio. Quanto basta per reagire, contro Paul e contro George, uccidendo ciò che essi avevano di più caro. I Beatles.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
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