Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 dicembre 2008
Dal Secolo d'Italia di sabato 6 dicembre 2008
Gli scrittori creano. Creano personaggi, avvenimenti, dialoghi. Ostacoli e soluzioni. Storie lievi o inquietanti. Scenari realistici e universi paralleli. Gli scrittori si sostituiscono a Dio e fanno nascere e morire a loro piacimento. Disegnano – e di punto in bianco ridisegnano – il destino di un individuo o di una moltitudine. Se volessero, se vogliono, il mondo stesso potrebbe avere termine. BANG! Game over. E ancora, ciononostante, in un punto imprecisato del Cosmo la voce narrante tesserebbe la sua rete di parole. L’Uomo è scomparso dalla Terra, la Terra è scomparsa dal Sistema solare; eppure, lo scrittore sopravvive all’Uomo e alla Terra e continua ad esistere. Come Dio, come avevamo già detto.
Gli scrittori, a volte, rendono omaggio a se stessi. Non alla propria categoria, in cui l’individualismo è un istinto e la competizione una necessità, ma alla loro arte. Alla loro sincerità costellata di trucchi. Alla loro generosità impregnata di egoismo. Alla loro magia segreta e sputtanata. Che è così esigente. Che è così accessibile. Basta una penna (più o meno la stessa forma di una bacchetta magica, non vi pare?), un bel po’ di carta, e un sacco di tempo libero. Per fare esperienze e per pensarci su; per scrivere e per rileggere; per cancellare e per riscrivere. Per aspettare l’ispirazione che chissà dov’è finita. Per starle dietro quando finalmente arriva e ti fa un cenno d’intesa come per dire “occhio, se ci tieni proprio eccomi; ma c’è da correre a perdifiato, e se non sei ben pronto…”
Il suo omaggio alla scrittura Carlos Ruiz Zafón lo aveva già reso col romanzo d’esordio, il robusto e suggestivo L’ombra del vento. Un successo mondiale che cominciava con un colpo di genio (il “Cimitero dei Libri Dimenticati”) e che di lì in avanti si prendeva tutti i rischi possibili e immaginabili, dipanando per oltre quattrocento pagine un intricatissimo melodramma da romanzo d’appendice, con tanto di presenze in odore di sovrannaturale ad accrescere il pathos – e a mettere a repentaglio la credibilità dell’insieme. Un gioco nel senso migliore del termine. Di quelli che se ti siedi per cominciare significa che ne hai accettato fino in fondo le regole. E che non farai mai un sorrisetto di sufficienza per mitigare, ai tuoi occhi e a quelli degli altri, la portata dell’eventuale sconfitta.
L’ombra del vento non aveva nulla di parodistico. Non mirava a utilizzare la forma del feuilleton per sorriderne con compiaciuta e ammiccante superiorità. Ruiz Zafón, che in precedenza aveva pubblicato solo libri per bambini, raccontava la sua prima “fiaba per adulti” con l’assoluta serietà, e il totale coinvolgimento, di un narratore vecchio stampo, che nonostante tutte le avanguardie e le sperimentazioni (e le dettagliate autopsie che hanno certificato la morte del romanzo) crede ancora negli incantesimi di una storia di ampio respiro congegnata a puntino e messa in scena come si deve.
Mica facile. Un po’ come avventurarsi, con l’unico supporto di una scatola di cerini e di un martelletto da geologo, in una miniera d’oro che sia stata chiusa da un pezzo per il conclamato esaurimento dei filoni originari. Le gallerie sono buie e abbandonate. Più ti inoltri e più corri il rischio che ti crolli tutto quanto in testa. Detto con franchezza: devi essere matto. A meno che… A meno che tu sia qualcosa di meglio di un cercatore ordinario, di un minatore qualunque che in cambio di ciò che cerca ha da offrire soltanto la sua fatica, degnissima sul piano morale ma insufficiente allo scopo. A meno che tu sia così bravo, così speciale, da vedere quello che in precedenza era sfuggito. Esatto. La miniera era stata sfruttata a lungo – con insistenza, con metodo, con cupidigia – ma non era del tutto esaurita. Nelle sue viscere c’era nascosto altro oro. In attesa che arrivasse qualcuno capace di trovarlo.
Ruiz Zafón lo ha fatto. È sceso fin laggiù, dove gli scrittori-letterati si guardano bene dallo spingersi (non sia mai che si sgualciscano i loro abitini trendy…), e ci è rimasto per tutto il tempo necessario. Anni, e non è un’esagerazione. Ma quando infine è tornato in superficie, stanco del lavoro e felice dell’impresa, aveva con sé ciò che desiderava. Non solo. Oltre a mettere insieme quel suo primo, ottimo carico, aveva acquisito qualcosa di ancora più importante: la certezza di essere capace di farlo di nuovo, la consapevolezza di poter ripetere il tentativo in seguito e di non tornare comunque a mani vuote. Ingegnere e minatore allo stesso tempo. E anche un po’ rabdomante. La sapienza tecnica dell’ingegnere. La tenacia e la manualità del minatore. La sensibilità inspiegabile, misteriosa e benedetta, del rabdomante.
Questo nuovo Il gioco dell’angelo (Mondadori, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 676, € 22,00) è il frutto del secondo viaggio. Della seconda spedizione. Ruiz Zafón ripercorre in larghissima parte il medesimo tragitto e, quasi inevitabilmente, l’esito è molto simile. Non cambia l’ambientazione, che è ancora la Barcellona dei primi decenni del Novecento, sia pure portata indietro di una trentina d’anni, e non cambia più di tanto la tipologia dei personaggi e delle loro peripezie. Anche questa volta, come ne L’ombra del vento, ci sono oscure vicende del passato che incombono sul presente e lo attirano (lo risucchiano) nei loro vortici di perdizione. Anche questa volta c’è un giovane scrittore baciato dal talento e braccato dalla malasorte. E un amore sfortunato. E i tanti comprimari che servono a un intreccio complesso, alcuni dei quali sono gli stessi che abbiamo conosciuto a suo tempo: i generosi Sempere, proprietari dell’omonima libreria e fervidi servitori della Santa Causa della Lettura; don Gustavo Barcelò, decano dei librai barcellonesi e riconosciuta autorità del settore, interlocutore obbligato per valutare un testo raro e per cercare lumi su un autore misconosciuto o un editore di cui si sono perse le tracce; Isaac Monfort, guardiano e custode, già anziano e rinsecchito e severo, ma a suo modo benevolo, del fiabesco e sterminato Cimitero dei Libri Dimenticati.
Rispetto a L’ombra del vento – che inizialmente venne stroncato dai critici e che si affermò a poco a poco grazie a un inarrestabile tam-tam tra i lettori, fino a diventare, come scrisse El Paìs e come riportava orgogliosamente la fascetta dell’edizione italiana, “la rivelazione editoriale degli ultimi due anni” – Il gioco dell’angelo sconta i limiti intrinseci di qualsiasi libro che giunga dopo un successo clamoroso e che per di più, come abbiamo visto, ne replichi le atmosfere e si dipani all’incirca nello stesso contesto. Un certo grado di delusione è naturale. Per quanto l’autore si destreggi con la stessa perizia, o quasi, quella che viene a mancare giocoforza è la sorpresa. La sensazione inebriante di scoprire allo stesso tempo una grande storia e un grande narratore. Il gioco dell’angelo risente innanzitutto di questo. Molti bei momenti e nessuna novità. Ampi squarci di scrittura non solo accattivante ma intelligente, soprattutto nei dialoghi tra il protagonista David Martín e il suo mefistofelico editore Andreas Corelli, affondati però in una trama talmente intricata da diventare artificiosa. Con un’aggravante: Ruiz Zafón, che vive a Los Angeles da ben quindici anni, sembra strizzare deliberatamente, e pericolosamente, l’occhio a Hollywood, e al suo cinema “d’azione” fragoroso e debordante.
Martín, che all’origine è poco più di un adolescente spaurito, si trasforma un po’ troppo in fretta in una sorta di investigatore privato dalle mille risorse, capace di battersi con qualsiasi aggressore e di superare senza troppi danni ogni genere di agguati. Il che, ben lungi dall’accrescere la drammaticità degli eventi, mina l’attendibilità della vicenda e attenua il fascino del racconto, quanto meno per noi che crediamo fermamente negli uomini capaci di eroismo ma che non sappiamo cosa farcene di supereroi sotto mentite spoglie, che sopravvivono a tutto nelle maniere più inverosimili. E senza nemmeno ammettere di appartenere alla stessa genia, sovrumana e distante, di Nembo Kid e dell’Uomo Ragno.
Gli scrittori, a volte, rendono omaggio a se stessi. Non alla propria categoria, in cui l’individualismo è un istinto e la competizione una necessità, ma alla loro arte. Alla loro sincerità costellata di trucchi. Alla loro generosità impregnata di egoismo. Alla loro magia segreta e sputtanata. Che è così esigente. Che è così accessibile. Basta una penna (più o meno la stessa forma di una bacchetta magica, non vi pare?), un bel po’ di carta, e un sacco di tempo libero. Per fare esperienze e per pensarci su; per scrivere e per rileggere; per cancellare e per riscrivere. Per aspettare l’ispirazione che chissà dov’è finita. Per starle dietro quando finalmente arriva e ti fa un cenno d’intesa come per dire “occhio, se ci tieni proprio eccomi; ma c’è da correre a perdifiato, e se non sei ben pronto…”
Il suo omaggio alla scrittura Carlos Ruiz Zafón lo aveva già reso col romanzo d’esordio, il robusto e suggestivo L’ombra del vento. Un successo mondiale che cominciava con un colpo di genio (il “Cimitero dei Libri Dimenticati”) e che di lì in avanti si prendeva tutti i rischi possibili e immaginabili, dipanando per oltre quattrocento pagine un intricatissimo melodramma da romanzo d’appendice, con tanto di presenze in odore di sovrannaturale ad accrescere il pathos – e a mettere a repentaglio la credibilità dell’insieme. Un gioco nel senso migliore del termine. Di quelli che se ti siedi per cominciare significa che ne hai accettato fino in fondo le regole. E che non farai mai un sorrisetto di sufficienza per mitigare, ai tuoi occhi e a quelli degli altri, la portata dell’eventuale sconfitta.
L’ombra del vento non aveva nulla di parodistico. Non mirava a utilizzare la forma del feuilleton per sorriderne con compiaciuta e ammiccante superiorità. Ruiz Zafón, che in precedenza aveva pubblicato solo libri per bambini, raccontava la sua prima “fiaba per adulti” con l’assoluta serietà, e il totale coinvolgimento, di un narratore vecchio stampo, che nonostante tutte le avanguardie e le sperimentazioni (e le dettagliate autopsie che hanno certificato la morte del romanzo) crede ancora negli incantesimi di una storia di ampio respiro congegnata a puntino e messa in scena come si deve.
Mica facile. Un po’ come avventurarsi, con l’unico supporto di una scatola di cerini e di un martelletto da geologo, in una miniera d’oro che sia stata chiusa da un pezzo per il conclamato esaurimento dei filoni originari. Le gallerie sono buie e abbandonate. Più ti inoltri e più corri il rischio che ti crolli tutto quanto in testa. Detto con franchezza: devi essere matto. A meno che… A meno che tu sia qualcosa di meglio di un cercatore ordinario, di un minatore qualunque che in cambio di ciò che cerca ha da offrire soltanto la sua fatica, degnissima sul piano morale ma insufficiente allo scopo. A meno che tu sia così bravo, così speciale, da vedere quello che in precedenza era sfuggito. Esatto. La miniera era stata sfruttata a lungo – con insistenza, con metodo, con cupidigia – ma non era del tutto esaurita. Nelle sue viscere c’era nascosto altro oro. In attesa che arrivasse qualcuno capace di trovarlo.
Ruiz Zafón lo ha fatto. È sceso fin laggiù, dove gli scrittori-letterati si guardano bene dallo spingersi (non sia mai che si sgualciscano i loro abitini trendy…), e ci è rimasto per tutto il tempo necessario. Anni, e non è un’esagerazione. Ma quando infine è tornato in superficie, stanco del lavoro e felice dell’impresa, aveva con sé ciò che desiderava. Non solo. Oltre a mettere insieme quel suo primo, ottimo carico, aveva acquisito qualcosa di ancora più importante: la certezza di essere capace di farlo di nuovo, la consapevolezza di poter ripetere il tentativo in seguito e di non tornare comunque a mani vuote. Ingegnere e minatore allo stesso tempo. E anche un po’ rabdomante. La sapienza tecnica dell’ingegnere. La tenacia e la manualità del minatore. La sensibilità inspiegabile, misteriosa e benedetta, del rabdomante.
Questo nuovo Il gioco dell’angelo (Mondadori, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 676, € 22,00) è il frutto del secondo viaggio. Della seconda spedizione. Ruiz Zafón ripercorre in larghissima parte il medesimo tragitto e, quasi inevitabilmente, l’esito è molto simile. Non cambia l’ambientazione, che è ancora la Barcellona dei primi decenni del Novecento, sia pure portata indietro di una trentina d’anni, e non cambia più di tanto la tipologia dei personaggi e delle loro peripezie. Anche questa volta, come ne L’ombra del vento, ci sono oscure vicende del passato che incombono sul presente e lo attirano (lo risucchiano) nei loro vortici di perdizione. Anche questa volta c’è un giovane scrittore baciato dal talento e braccato dalla malasorte. E un amore sfortunato. E i tanti comprimari che servono a un intreccio complesso, alcuni dei quali sono gli stessi che abbiamo conosciuto a suo tempo: i generosi Sempere, proprietari dell’omonima libreria e fervidi servitori della Santa Causa della Lettura; don Gustavo Barcelò, decano dei librai barcellonesi e riconosciuta autorità del settore, interlocutore obbligato per valutare un testo raro e per cercare lumi su un autore misconosciuto o un editore di cui si sono perse le tracce; Isaac Monfort, guardiano e custode, già anziano e rinsecchito e severo, ma a suo modo benevolo, del fiabesco e sterminato Cimitero dei Libri Dimenticati.
Rispetto a L’ombra del vento – che inizialmente venne stroncato dai critici e che si affermò a poco a poco grazie a un inarrestabile tam-tam tra i lettori, fino a diventare, come scrisse El Paìs e come riportava orgogliosamente la fascetta dell’edizione italiana, “la rivelazione editoriale degli ultimi due anni” – Il gioco dell’angelo sconta i limiti intrinseci di qualsiasi libro che giunga dopo un successo clamoroso e che per di più, come abbiamo visto, ne replichi le atmosfere e si dipani all’incirca nello stesso contesto. Un certo grado di delusione è naturale. Per quanto l’autore si destreggi con la stessa perizia, o quasi, quella che viene a mancare giocoforza è la sorpresa. La sensazione inebriante di scoprire allo stesso tempo una grande storia e un grande narratore. Il gioco dell’angelo risente innanzitutto di questo. Molti bei momenti e nessuna novità. Ampi squarci di scrittura non solo accattivante ma intelligente, soprattutto nei dialoghi tra il protagonista David Martín e il suo mefistofelico editore Andreas Corelli, affondati però in una trama talmente intricata da diventare artificiosa. Con un’aggravante: Ruiz Zafón, che vive a Los Angeles da ben quindici anni, sembra strizzare deliberatamente, e pericolosamente, l’occhio a Hollywood, e al suo cinema “d’azione” fragoroso e debordante.
Martín, che all’origine è poco più di un adolescente spaurito, si trasforma un po’ troppo in fretta in una sorta di investigatore privato dalle mille risorse, capace di battersi con qualsiasi aggressore e di superare senza troppi danni ogni genere di agguati. Il che, ben lungi dall’accrescere la drammaticità degli eventi, mina l’attendibilità della vicenda e attenua il fascino del racconto, quanto meno per noi che crediamo fermamente negli uomini capaci di eroismo ma che non sappiamo cosa farcene di supereroi sotto mentite spoglie, che sopravvivono a tutto nelle maniere più inverosimili. E senza nemmeno ammettere di appartenere alla stessa genia, sovrumana e distante, di Nembo Kid e dell’Uomo Ragno.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
1 commento:
Sostanzialmente d'accordo con Zamboni, con un'aggravante in più per Zafon: la trama. Nell'ombra del vento la storia era complessa ma alla fine accettabile. Nel gioco dell'angelo si coglie chiaramente una difficoltà a far quadrare ogni aspetto. Le ultime 80 pagine sono una delusione e non solo per la trasformazione del protagonista in supereroe.
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