domenica 21 dicembre 2008

Il vero Johnny Cash, l'autenticità come destino (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 21 dicembre 2008

Molte cose le sappiamo già, mentre leggiamo la biografia di Steve Turner su Johnny Cash. Da bravi appassionati di musica americana, sappiamo che cominciò a Memphis intorno alla metà degli anni Cinquanta e che, muovendo i primi passi nella stessa Sun Records che andava scritturando i vari Carl Perkins ed Elvis Presley, iniziò a segnalarsi per le doti artistiche e morali che lo accompagnarono sempre: la voce profonda, il suono scarno, la capacità di infondere credibilità a ogni singola parola delle canzoni che interpretava, la determinazione a non fare nulla, o quasi nulla, su cui non era d’accordo e che gli veniva proposto/imposto dai “sapientoni” del business.
Sappiamo che il successo arrivò quasi subito ma che, come avveniva allora, rimase a lungo circoscritto al suo territorio di provenienza, il Sud degli Stati Uniti, e a un genere musicale ben preciso, quel “country” che si situava a metà strada fra la solida schiettezza del folk e la cordialità ruffianella del pop. Sappiamo dei guai che ebbe con le droghe, o piuttosto con gli psicofarmaci, e delle ambivalenze della sua personalità complessa, che oscillava tra gli slanci di una grande generosità e le chiusure di un egocentrismo così perentorio da diventare ingovernabile. E che poteva mutare direzione in un attimo, lasciando confusi e addolorati (e impotenti) quelli che gli stavano più vicini e che più lo amavano.
E infine, ovviamente, conosciamo l’epilogo. Johnny Cash è morto il 12 settembre 2003, a nemmeno quattro mesi di distanza dalla sua adorata June. Morto a poco più di 71 anni, quando ormai il suo fisico era afflitto da una lunga serie di acciacchi, di disturbi, di vere e proprie malattie. Morto al termine di una vita inquieta, piena di alti e bassi, che solo nella sua ultima fase lo aveva portato ad avere tutto ciò cui ambiva: da un lato i riconoscimenti che era convinto di meritare da parte degli uomini, con la definitiva consacrazione a «artista country più importante dell’era moderna», come scrisse nel necrologio il Village Voice; dall’altro i doni che si augurava di ricevere da parte di Dio, con l’approdo a una fede in cui la disciplina si fondesse stabilmente alla gioia, senza più contrapporre l’eccitazione dei desideri alla serenità di una condotta immacolata.
Ma una buona biografia è una via di mezzo tra una squadra di pulizie (o di disinfestazione…) e un arredatore onnisciente: tanto per cominciare mette ordine nella memoria, eliminando il ciarpame che si era accumulato a forza di affastellare informazioni tratte dalle fonti più disparate; poi, già che c’è, ci indica le cose che proprio non vanno – una tinta da rinfrescare, un tramezzo da rimuovere, qualche mobile fuori posto – e ci mostra come dovrebbe essere, invece, se fossimo un po’ meno disattenti. Un po’ meno pasticcioni.
Steve Turner, l’autore di questo libro che nell’originale del 2004 si intitola The Man Called Cash e che invece, nella traduzione italiana, si riduce a un lapidario Johnny Cash (Kowalski, pagg. 447, 24 euro), srotola l’intera storia nel segno della sobrietà. Nessuna enfasi e nessuna ambizione letteraria: la chiarezza – se fossimo ingenui diremmo “l’obiettività” – come scopo fondamentale. Naufragata la possibilità di lavorare a stretto contatto con lo stesso Cash, che peraltro si era già raccontato in due autobiografie apparse a distanza di quasi vent’anni l’una dall’altra (la prima, The Man in Black, nel 1975; la seconda, Cash: The Autobiography, nel 1993), Turner se ne rammarica per un verso e se ne conforta per un altro. «Avremmo dovuto iniziare il lavoro alla fine di ottobre del 2003. John è morto il 12 settembre. […] La mia unica consolazione è che la sua assenza mi ha spinto a scavare più a fondo per cercare la verità. Se lui mi avesse imboccato le informazioni, avrei potuto prenderle tutte per buone senza sottoporle alle necessarie e rigorose verifiche».
Non è questione di alterazioni deliberate, visto che la parola d’ordine dell’ultimo Johnny Cash era la sincerità, ma di cattiva memoria. E di percezioni fatalmente offuscate, nel momento in cui certi avvenimenti si svolgevano, dall’abuso di alcol e di anfetamine. Le quali ultime, ci ricorda assai opportunamente Turner, nel secondo dopoguerra «si potevano ottenere legalmente con una ricetta. […] Se si accennava al proprio medico di una leggera ansia, spossatezza od obesità, il medico in genere prescriveva anfetamine».
Proprio la sincerità, intesa come esigenza interiore di autenticità prima ancora che come obbligo morale verso gli altri, emerge a poco a poco come il vero e imprescindibile filo conduttore dell’intera vita di Johnny. In una maniera o nell’altra c’era sincerità in tutto quel che faceva: nel suo afflato mistico, che lo rese un cristiano tutt’altro che irreprensibile ma a suo modo incrollabile, sorretto com’era dalla convinzione che Dio avesse per lui dei progetti speciali e che, per conquistare la grazia, bisognasse comunque andare al fondo di se stessi e dei propri peccati; e nella sua ansia di liberare l’energia, a tratti luminosa e a tratti oscura, che si portava dentro, nel nodo troppo stretto di un’infanzia povera e di un padre esigente e per nulla espansivo.
Johnny Cash fece moltissimo di testa sua, e non c’è dubbio che nel farlo calpestò le aspettative di molte persone e dei suoi stessi famigliari, ma pagò il prezzo della verità senza esitare, e senza mai lamentarsene. Tutto ciò che aveva sofferto, e che continuava a soffrire nello scorcio finale della sua vita di vecchio malandato e semicieco, era pur sempre il frutto di quella meravigliosa avventura che era la vita. Lui la aveva vissuta intensamente e aveva ricevuto tanto. E ora che stava per perderla provava innanzitutto un sentimento di riconoscenza. Persino di tenerezza.

Lo si vede perfettamente nell’inquadratura conclusiva della commovente videoclip di Hurt, realizzata nell’ottobre 2002: il vecchio, segnato, esausto J.R. Cash finisce di suonare il piano e chiude la tastiera, poi le sue dita indugiano un attimo su quella superficie liscia, e impenetrabile, che per proteggere i tasti li rende inaccessibili. È una carezza leggerissima, quasi involontaria. È un arrivederci che ormai, per l’età e le malattie e la consapevolezza del poco tempo rimasto, sta diventando un addio.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

2 commenti:

Claudio Ughetto ha detto...

Bravo Federico!
Questa versione di Hurt è davvero splendida, migliore (a mio avviso) di quella di Reznor che l'ha scritta. E' talmente vera e straziante da farmi tollerare il pezzo più fondamentalista e kitsch della crocifissione.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

:-)))