martedì 9 dicembre 2008

Seguendo Capossela, oltre lo specchio del pensiero ordinario (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 dicembre 2008

Dannati paragoni. Tentazione permanente che fa credere di aver scoperto chissà cosa. Trappola sottovalutata in cui si entra in fretta (e tutti contenti) e dalla quale si rischia di non uscire più. Dannati paragoni che vengono spontanei. E che sono la via d’uscita più facile per gli osservatori mediocri, e per gli stessi critici a corto di idee – o di tempo: uno scoppio di intelligenza apparente, uno sfoggio di conoscenza pseudo enciclopedica, un trucchetto da quattro soldi che schiva il problema della comprensione approfondita e lo sostituisce col parallelo superficiale. Succede fin troppo spesso, a partire da assonanze che balzano all’occhio ma da cui non c’è nessuna ragione di lasciarsi ingannare. È successo anche a Vinicio Capossela: di cui dapprima si parlò come di un novello Paolo Conte, ancorché spostato dalle langhe piemontesi all’entroterra meridionale, e che in seguito è stato accostato a Tom Waits, fino a dare la connessione tra i due per evidente. Per acquisita.
«Tom Waits – replica lui – non è un archetipo, ma un grandissimo filtro di suggestione. Un mezzo attraverso il quale la musica passa e filtra a suo modo. Questo mi piace molto. Non tanto il risultato, quanto l’attitudine.»
Si può ribadire, se serve. Un’amicizia non è una parentela. L’ammirazione per l’approccio non implica una condivisione dei linguaggi: si assorbe di tutto, e di tanto in tanto ci si entusiasma, e a volte ci si innamora a tal punto da desiderare di averle scritte noi determinate cose, ma le differenze rimangono. Le distanze sono tutt’altro che annullate. Come ha spiegato benissimo Stephen King, parlando della sua passione per Il Signore degli Anelli e del conseguente desiderio di scrivere a sua volta una saga fantasy (quella che poi sarebbe diventata La torre nera), la spinta all’emulazione è un bene. Quella all’imitazione è un male.
«Gli hobbit andavano forte quando io avevo 19 anni. Ma sebbene avessi letto Tolkien già tra il 1966 e il 1967, non mi misi subito a scrivere. Mi ero lasciato catturare (e con totalità commovente) dalla sua straordinaria immaginazione e dall’ambizione del suo narrare, ma volevo scrivere una storia mia mentre, se mi ci fossi messo allora, avrei scritto la sua. La qual cosa, come piaceva dire al compianto “Tricky Dick” Nixon, sarebbe stata sbagliata. Grazie al signor Tolkien, il ventesimo secolo aveva tutti gli elfi e i maghi di cui aveva bisogno.»
Discorso chiuso. King non è il nuovo Tolkien. Capossela non è il nuovo Paolo Conte. O il Tom Waits “made in Italy”. Vinicio Capossela, che è nato ad Hannover il 14 dicembre 1965 e che perciò ha ormai varcato la soglia dei quarant’anni, è un artista che sta tuttora scoprendo se stesso. E che, a giudicare soprattutto dal penultimo album, Ovunque proteggi, potrebbe prendere direzioni espressive ancora più imprevedibili, e bizzarre, di quanto abbia fatto finora. Come chiunque altro, Capossela è dovuto partire dalla “forma canzone”, coi suoi obblighi impliciti di immediatezza e cantabilità. Per farsi accettare dal mondo discografico bisogna essere, o apparire, comprensibili a tutti. L’originalità, se c’è, deve essere più istintiva che consapevole, più ammiccante che rivendicata. Il dogma del marketing è che al grosso del pubblico piacciono essenzialmente due cose: divertirsi e commuoversi. Che, a ben vedere, sono due varianti dello stesso “non pensare”. Dello stesso “non approfondire”. Dello stesso timore di affacciarsi su quelle aree di se stessi, e dell’inconscio collettivo, che hanno il potere di disorientare e persino di atterrire, avvicinandoci a suggestioni ancestrali che abbiamo negato a colpi di raziocinio ma che in qualche modo sopravvivono. Che in qualche modo urlano.


«Bob Dylan della musica tradizionale diceva che non ha nulla di rassicurante ed è fatta di spine, di creature notturne, di sangue, di cose misteriose. La penso allo stesso modo e scelsi quel titolo (l’inedito Canzoni della Cupa – Ndr) pensando alla parte del Meridione dove il sole non batte quasi mai: spesso è lì che si verificano le apparizioni più misteriose, frutto anche dell’immaginario popolare.»
La superficie può essere accattivante. Quello che si trova al di sotto, quello su cui poggia un ritmo scandito da ballo popolare o un’orchestrazione di sapore bandistico, può non esserlo affatto. Cosa vedete in una processione seguita dai penitenti? Cosa vedete nella tradizione dei facchini viterbesi che ogni anno, il 3 settembre, si caricano sulle spalle l’enorme peso della “macchina di Santa Rosa”?
Capossela, che all’inizio poteva essere scambiato per un intrattenitore divertente (e divertito), ha intrapreso da tempo un cammino che lo allontana dall’ordinario, nel presupposto che è molto meglio una sincerità sghemba di un inganno tirato a lucido. Vedi Il gigante e il mago, il brano di apertura di questo suo ultimo lavoro che si intitola Da solo a sintetizzare non già una dimensione musicale, visto che Vinicio è accompagnato (“malaccompagnato”, ironizza lui nelle note di copertina) da una nutrita schiera di musicisti, ma una condizione esistenziale.


«All’inferno voglio andare / con un gigante e un mago / in una sfera di meraviglia / rimbalzare / pieni di / magia magia magia / troppo v’loce».
Non è una fiaba. Il gigante e il mago non sono figure di un reame incantato, e astratto. Né tanto meno di una zuccherosa messinscena da Parco dei divertimenti a misura di bambino. Non siamo a Disneyland. Siamo sulle strade, e nelle pieghe, della provincia statunitense. In bilico su un passato che tarda a scomparire, perché a sostituirlo del tutto non bastano né gli show televisivi né gli effetti speciali del cinema né le emozioni “interattive” dei videogames. Il circo, sì, ma non «il circo di Fellini, che è italianissimo. C’è invece l’immaginario tutto americano del “side-show”, una branca del circo Barnum dove c’erano le esibizioni dei freaks, le stranezze… e poi l’illustrazione delle attrazioni è anche metaforica e rimanda ai mostri che abbiamo dentro e al voyeurismo che ci spinge a vederli.»
Non è come crediamo. Ciò che ci affascina è sempre uno specchio di quel che siamo, ma lo specchio, a volte, non serve per vedere quanto siamo carini, ma per ricordarci quanto siamo spaventosi. Sotto la patina rassicurante della nostra cura esteriore.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

Nessun commento: