Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 11 gennaio 2008
C’era il mondo che costruiva lui, fino a dieci anni fa. C’era la sua vita che si snodava assecondando i suoi tanti interessi, e di tanto in tanto – poiché scrivere canzoni e interpretarle era sì importante, ma non era tutto – c’erano alcuni riflessi che si riverberavano fino a noi, racchiusi in quella via di mezzo tra uno scrigno e uno specchio che sono i dischi. Come avviene di regola con gli artisti, era una conoscenza a distanza e a senso unico. Ci arrivavano i suoi messaggi, ed era evidente la cura con cui erano stati preparati e le speranze con cui ci venivano messi a disposizione, ma non c’era nessuna possibilità di contraccambiarli. Chi era in grado di offrire riflessioni altrettanto profonde e parole altrettanto suggestive? Chi era capace di esprimere qualcosa che andasse al di là dell’ammirazione, o persino dell’affetto, e che fosse così rilevante, per lui, da dare inizio a un dialogo?
Eppure, album dopo album, il rapporto sembrava consolidarsi e farsi più stretto, come in una vera e propria amicizia. Benché le nuove uscite discografiche si diradassero – passando dai tre anni che separano Rimini (1978) da Fabrizio De André (1981) e poi da Crêuza de mä (1984), ai sei che intercorrono tra quest’ultimo e Le nuvole (1990) e che precedono, infine, il grandioso epilogo di Anime salve (1996) – la sensazione era quella di un legame così forte da essere diventato permanente, e irrinunciabile. O prima o dopo, un nuovo lavoro sarebbe stato pronto. Mentre noi srotolavamo le nostre vite, costruendo o distruggendo secondo fortuna e talento, lui srotolava la sua: fino a quando, in fondo a qualcuna delle sue solite notti insonni, consumate tra chissà quali libri e chissà quali pensieri, avrebbe cominciato a prendere forma l’idea di un nuovo progetto. Non solo una singola canzone, in cui racchiudere lo stato d’animo di un momento, ma un insieme di storie che avessero qualcosa in comune: episodi distinti, ma pur sempre affini, di un particolare aspetto dell’avventura umana. Traiettorie individuali che si disegnano su uno stesso fondale, abbastanza grande da far sì che ognuna di esse abbia tutto lo spazio che le serve senza doverlo contendere alle altre. Ma non così vasto da tenerle troppo lontane e farle apparire del tutto estranee, impedendo che in qualche punto sembrino convergere fino a sfiorarsi, fino a dare l’impressione che siano lì lì per ricongiungersi e per intrecciarsi in un nodo potente. Forse fatale. Attori e attrici che non reciteranno insieme ma che prendono parte alla stessa audizione. Cittadini di una metropoli risucchiati nello stesso traffico, di cui sono per un verso gli artefici e per l’altro le vittime. Soldati che vanno alla stessa guerra e cantano le stesse canzoni. Reduci sulla via del ritorno che camminano in silenzio. Uomini e donne che non si incontreranno mai ma che condividono il destino di vivere in un determinato luogo e in un determinato momento storico.
De André li ritraeva per provare a capirli. Per poter dire a se stesso che aveva dato fondo alle proprie risorse e che, coi suoi pennelli e coi suoi colori, non sarebbe riuscito a fare di meglio. Guardateli. Guardatevi. Vi ho reso omaggio osservandovi e non dimenticandomi di ciò che ho visto. Vi ringrazio di ciò che mi avete mostrato mostrandolo ad altri. Non importa che voi lo sapeste oppure no. Io vi ho notati tra la folla e vi porto nel cuore. Come il suonatore Jones, nell’Antologia di Spoon River, ho imparato a suonare e ho imparato a guardare: «in un vortice di polvere gli altri vedevan siccità / a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa».
Ma il suonatore Jones, nell’originale di Edgar Lee Masters e nella splendida versione contenuta in Non all’amore, non al denaro né al cielo, arrivava dritto e filato ai suoi novant’anni; Fabrizio De André si è spento a poco meno di cinquantanove l’undici gennaio 1999. Fino all’ultimo momento era sembrato impossibile, così come lo sembra, a noi esseri umani, tutto ciò che è ingiusto. O che ci appare tale. Chi sapeva della malattia si ostinava a confidare in un recupero. Lui non faceva previsioni e si atteneva, o si appigliava, alle sensazioni del momento. «Giudico la realtà da come mi sento. Oggi (il 25 dicembre 1998 – ndr) mi sento bene e quindi va tutto bene, il resto non conta. Spero di uscirne presto.»
Diciassette giorni dopo era tutto finito. «Se n’è andato stringendoci le mani», disse il figlio Cristiano. E per noi che avevamo amato le sue canzoni – e che avevamo negli occhi le immagini della sua ultima tournée, accompagnato da entrambi i figli e specialmente da Luvi, la ragazzina che ormai stava diventando una donna e che, sotto i suoi occhi amorevoli, intonava con cura infinita (e con un commovente filo di paura di sbagliare e, Dio non voglia, di deluderlo) la bellissima Geordie – fu una goccia di conforto in un dolore attonito. Se proprio doveva succedere, e tanto presto, e senza avere avuto il tempo di fronteggiare l’idea abbastanza a lungo da dominarla, che almeno fosse accaduto in quel modo: coi suoi cari intorno a lui, a confermargli un’ultima volta che aveva dato tanto anche come uomo, oltre che come artista.
Cadeva di lunedì, quell’undici gennaio incolpevole e maledetto. Proprio all’inizio di una nuova settimana e, quasi, di un nuovo anno. Il decesso avvenne di notte. La notizia si diffuse la mattina, rimbalzata non solo dai media ma da un fitto tam-tam di comunicazioni private. Telefonate piene di stupore e di amarezza. Domande incredule di chi aveva sentito e non sentito. Di chi si aggrappava all’illusione di un errore, di un improbabile equivoco. Ma è vero che è morto De André? E come mai? E come è successo?
Risposte a mezza bocca, limitate all’essenziale. Coi semplici curiosi non c’era ragione di aggiungere nulla: conoscevano sì e no La canzone di Marinella e Bocca di Rosa, domandavano tanto per chiacchierare, che ne sapevano di Parlando del naufragio della London Valour o di Smisurata preghiera? Con quelli che invece sapevano, che erano stati nei tuoi stessi posti, che avrebbero potuto cantare a memoria una gran parte dei pezzi (intonati o stonati, ma affratellati nel desiderio), non ce n’era bisogno: il momento dei ricordi e delle riflessioni sarebbe tornato in seguito, spianando la strada a ogni tipo di commento o addirittura di confessione; per ora bastava un’occhiata rapida e consapevole, segnata dalla certezza di aver subìto la stessa perdita.
Niente più nuovi album, nemmeno a distanza non di sei anni – che erano già fin troppi, dannazione! – ma di otto o di dieci. Niente più collaborazioni a sorpresa, magari non facili a dipanarsi ma dagli esiti eccellenti, con artisti del valore di Francesco De Gregori, di Massimo Bubola, di Mauro Pagani e di Ivano Fossati: personalità forti e abituate a decidere tutto da sole, che per una volta dovevano accettare che l’ultima parola spettasse invece a qualcun altro e che però, in questo modo, riuscivano a catalizzare le migliori risorse di Fabrizio e a contribuire in modo determinante a creazioni sempre notevoli, e a volte indimenticabili come lo furono Rimini con Massimo Bubola, Crêuza de mä con Mauro Pagani e Anime salve con Ivano Fossati. Niente più concerti, infine, nei quali godersi un’ulteriore, imprevedibile escursione nel suo vasto repertorio e intanto rallegrarsi, senza dirlo a nessuno e senza darlo a vedere, che alla fine fosse venuto a capo della propria ritrosia e si fosse deciso a cantare dal vivo senza troppi patemi. Come ricorda Franz Di Cioccio, batterista di quella PFM che fu al suo fianco nella decisiva tournée a cavallo tra 1978 e 1979, all’inizio «era un uomo di penna, non da palcoscenico. Anche se poi lo è diventato, uomo di palco; se vedi l’ultimo suo video, ha un piglio quando canta… il piglio di uno che ha cambiato il modo di stare in scena e anche la voce. Meno posata, più aperta. Sta rincorrendo una cantabilità che prima non aveva; anche per via di canzoni con meno pause, con una musicalità prorompente, più serrata».
Era anche questo, che lo rendeva grande. L’attitudine a migliorarsi nonostante le resistenze di un carattere troppo orgoglioso per accettare subito un insegnamento che si presentasse esplicitamente come tale. Poteva dire di no per istinto, o per difesa, ma poi ritornava sulla questione e la valutava di nuovo. La chiusura assoluta cedeva il passo a un esame guardingo, che però non escludeva nessuna opzione. E se anche la conclusione non mutava, almeno nell’immediato, non era detto che non potesse farlo in seguito: come nella coltivazione dei campi, che praticava assiduamente nella sua tenuta sarda dell’Agnata, in terra di Gallura, poteva darsi che fossero buoni tanto i semi quanto il terreno nel quale piantarli, ma che non fosse buona la stagione. Che non fosse il momento adatto. E che, quindi, ci fosse ancora da aspettare.
La crescita vera, del resto, non è mai solo intellettuale. È innanzitutto psicologica. O spirituale, se preferite. Si prefigura sui libri in attesa di andarsi a misurare, e forse a realizzare, nella vita concreta. Leggere molto serve a sapere dove si sono spinti gli altri, o dove speravano di spingersi. L’inesauribile interesse di De André per i perdenti non era ispirato solo da una solidarietà istintiva per chi non si lascia omologare dal pensiero dominante, a costo di inabissarsi sotto il peso delle proprie ansie e delle proprie debolezze. Era dettato da un bisogno di autenticità che gli era nato dentro precocemente, forse per l’ambiente alto borghese della sua famiglia d’origine, e che gli faceva avvertire in modo lancinante le minacce dell’ipocrisia e del conformismo. Meglio persino il male, se sincero, rispetto a un “bene” simulato solo per adeguarsi alle convenienze sociali. Meglio diventare dei “falliti” che si aggirano nelle zone d’ombra dell’esistenza, piuttosto che alimentare l’ingiustizia dilagante e le finzioni collettive.
L’anarchia come aspirazione a un’etica superiore; non come rifiuto delle regole e, ancora prima di qualsiasi regola, del principio di responsabilità. Quando De André venne rapito insieme a Dori Ghezzi la sera del 27 agosto 1979, e rilasciato il 22 dicembre subito dopo che il padre ebbe pagato di tasca propria un riscatto di oltre mezzo miliardo, restituire quei soldi fu un imperativo assoluto. Personalmente poteva anche comprendere i rapitori e, mettendo da parte le sofferenze che avevano imposto a lui e a Dori, inquadrarne i reati in un’ottica socio-economica di più vasta portata, ma il debito nei confronti di suo padre non era in discussione. Il potere di perdonare gli apparteneva. Quello di condonarsi da sé le centinaia di milioni versate ai banditi, no.
Analogamente, e chissà se è ben chiaro a tutti i suoi moltissimi estimatori, la compassione verso gli sconfitti non era affatto un avallo incondizionato a qualsiasi debacle, quali che ne fossero state le cause. La pietà è un sentimento che è giusto dare e ricevere a posteriori. Mentre prima, quando tutto è ancora in gioco, ognuno di noi è chiamato a fare del proprio meglio: se possibile insieme al resto della società in cui viviamo; se necessario contro. Ricordate la succitata, illuminante Smisurata preghiera, che guarda caso chiude l’ultimo album, il magnifico Anime salve? No?! Allora non importa.
Eppure, album dopo album, il rapporto sembrava consolidarsi e farsi più stretto, come in una vera e propria amicizia. Benché le nuove uscite discografiche si diradassero – passando dai tre anni che separano Rimini (1978) da Fabrizio De André (1981) e poi da Crêuza de mä (1984), ai sei che intercorrono tra quest’ultimo e Le nuvole (1990) e che precedono, infine, il grandioso epilogo di Anime salve (1996) – la sensazione era quella di un legame così forte da essere diventato permanente, e irrinunciabile. O prima o dopo, un nuovo lavoro sarebbe stato pronto. Mentre noi srotolavamo le nostre vite, costruendo o distruggendo secondo fortuna e talento, lui srotolava la sua: fino a quando, in fondo a qualcuna delle sue solite notti insonni, consumate tra chissà quali libri e chissà quali pensieri, avrebbe cominciato a prendere forma l’idea di un nuovo progetto. Non solo una singola canzone, in cui racchiudere lo stato d’animo di un momento, ma un insieme di storie che avessero qualcosa in comune: episodi distinti, ma pur sempre affini, di un particolare aspetto dell’avventura umana. Traiettorie individuali che si disegnano su uno stesso fondale, abbastanza grande da far sì che ognuna di esse abbia tutto lo spazio che le serve senza doverlo contendere alle altre. Ma non così vasto da tenerle troppo lontane e farle apparire del tutto estranee, impedendo che in qualche punto sembrino convergere fino a sfiorarsi, fino a dare l’impressione che siano lì lì per ricongiungersi e per intrecciarsi in un nodo potente. Forse fatale. Attori e attrici che non reciteranno insieme ma che prendono parte alla stessa audizione. Cittadini di una metropoli risucchiati nello stesso traffico, di cui sono per un verso gli artefici e per l’altro le vittime. Soldati che vanno alla stessa guerra e cantano le stesse canzoni. Reduci sulla via del ritorno che camminano in silenzio. Uomini e donne che non si incontreranno mai ma che condividono il destino di vivere in un determinato luogo e in un determinato momento storico.
De André li ritraeva per provare a capirli. Per poter dire a se stesso che aveva dato fondo alle proprie risorse e che, coi suoi pennelli e coi suoi colori, non sarebbe riuscito a fare di meglio. Guardateli. Guardatevi. Vi ho reso omaggio osservandovi e non dimenticandomi di ciò che ho visto. Vi ringrazio di ciò che mi avete mostrato mostrandolo ad altri. Non importa che voi lo sapeste oppure no. Io vi ho notati tra la folla e vi porto nel cuore. Come il suonatore Jones, nell’Antologia di Spoon River, ho imparato a suonare e ho imparato a guardare: «in un vortice di polvere gli altri vedevan siccità / a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa».
Ma il suonatore Jones, nell’originale di Edgar Lee Masters e nella splendida versione contenuta in Non all’amore, non al denaro né al cielo, arrivava dritto e filato ai suoi novant’anni; Fabrizio De André si è spento a poco meno di cinquantanove l’undici gennaio 1999. Fino all’ultimo momento era sembrato impossibile, così come lo sembra, a noi esseri umani, tutto ciò che è ingiusto. O che ci appare tale. Chi sapeva della malattia si ostinava a confidare in un recupero. Lui non faceva previsioni e si atteneva, o si appigliava, alle sensazioni del momento. «Giudico la realtà da come mi sento. Oggi (il 25 dicembre 1998 – ndr) mi sento bene e quindi va tutto bene, il resto non conta. Spero di uscirne presto.»
Diciassette giorni dopo era tutto finito. «Se n’è andato stringendoci le mani», disse il figlio Cristiano. E per noi che avevamo amato le sue canzoni – e che avevamo negli occhi le immagini della sua ultima tournée, accompagnato da entrambi i figli e specialmente da Luvi, la ragazzina che ormai stava diventando una donna e che, sotto i suoi occhi amorevoli, intonava con cura infinita (e con un commovente filo di paura di sbagliare e, Dio non voglia, di deluderlo) la bellissima Geordie – fu una goccia di conforto in un dolore attonito. Se proprio doveva succedere, e tanto presto, e senza avere avuto il tempo di fronteggiare l’idea abbastanza a lungo da dominarla, che almeno fosse accaduto in quel modo: coi suoi cari intorno a lui, a confermargli un’ultima volta che aveva dato tanto anche come uomo, oltre che come artista.
Cadeva di lunedì, quell’undici gennaio incolpevole e maledetto. Proprio all’inizio di una nuova settimana e, quasi, di un nuovo anno. Il decesso avvenne di notte. La notizia si diffuse la mattina, rimbalzata non solo dai media ma da un fitto tam-tam di comunicazioni private. Telefonate piene di stupore e di amarezza. Domande incredule di chi aveva sentito e non sentito. Di chi si aggrappava all’illusione di un errore, di un improbabile equivoco. Ma è vero che è morto De André? E come mai? E come è successo?
Risposte a mezza bocca, limitate all’essenziale. Coi semplici curiosi non c’era ragione di aggiungere nulla: conoscevano sì e no La canzone di Marinella e Bocca di Rosa, domandavano tanto per chiacchierare, che ne sapevano di Parlando del naufragio della London Valour o di Smisurata preghiera? Con quelli che invece sapevano, che erano stati nei tuoi stessi posti, che avrebbero potuto cantare a memoria una gran parte dei pezzi (intonati o stonati, ma affratellati nel desiderio), non ce n’era bisogno: il momento dei ricordi e delle riflessioni sarebbe tornato in seguito, spianando la strada a ogni tipo di commento o addirittura di confessione; per ora bastava un’occhiata rapida e consapevole, segnata dalla certezza di aver subìto la stessa perdita.
Niente più nuovi album, nemmeno a distanza non di sei anni – che erano già fin troppi, dannazione! – ma di otto o di dieci. Niente più collaborazioni a sorpresa, magari non facili a dipanarsi ma dagli esiti eccellenti, con artisti del valore di Francesco De Gregori, di Massimo Bubola, di Mauro Pagani e di Ivano Fossati: personalità forti e abituate a decidere tutto da sole, che per una volta dovevano accettare che l’ultima parola spettasse invece a qualcun altro e che però, in questo modo, riuscivano a catalizzare le migliori risorse di Fabrizio e a contribuire in modo determinante a creazioni sempre notevoli, e a volte indimenticabili come lo furono Rimini con Massimo Bubola, Crêuza de mä con Mauro Pagani e Anime salve con Ivano Fossati. Niente più concerti, infine, nei quali godersi un’ulteriore, imprevedibile escursione nel suo vasto repertorio e intanto rallegrarsi, senza dirlo a nessuno e senza darlo a vedere, che alla fine fosse venuto a capo della propria ritrosia e si fosse deciso a cantare dal vivo senza troppi patemi. Come ricorda Franz Di Cioccio, batterista di quella PFM che fu al suo fianco nella decisiva tournée a cavallo tra 1978 e 1979, all’inizio «era un uomo di penna, non da palcoscenico. Anche se poi lo è diventato, uomo di palco; se vedi l’ultimo suo video, ha un piglio quando canta… il piglio di uno che ha cambiato il modo di stare in scena e anche la voce. Meno posata, più aperta. Sta rincorrendo una cantabilità che prima non aveva; anche per via di canzoni con meno pause, con una musicalità prorompente, più serrata».
Era anche questo, che lo rendeva grande. L’attitudine a migliorarsi nonostante le resistenze di un carattere troppo orgoglioso per accettare subito un insegnamento che si presentasse esplicitamente come tale. Poteva dire di no per istinto, o per difesa, ma poi ritornava sulla questione e la valutava di nuovo. La chiusura assoluta cedeva il passo a un esame guardingo, che però non escludeva nessuna opzione. E se anche la conclusione non mutava, almeno nell’immediato, non era detto che non potesse farlo in seguito: come nella coltivazione dei campi, che praticava assiduamente nella sua tenuta sarda dell’Agnata, in terra di Gallura, poteva darsi che fossero buoni tanto i semi quanto il terreno nel quale piantarli, ma che non fosse buona la stagione. Che non fosse il momento adatto. E che, quindi, ci fosse ancora da aspettare.
La crescita vera, del resto, non è mai solo intellettuale. È innanzitutto psicologica. O spirituale, se preferite. Si prefigura sui libri in attesa di andarsi a misurare, e forse a realizzare, nella vita concreta. Leggere molto serve a sapere dove si sono spinti gli altri, o dove speravano di spingersi. L’inesauribile interesse di De André per i perdenti non era ispirato solo da una solidarietà istintiva per chi non si lascia omologare dal pensiero dominante, a costo di inabissarsi sotto il peso delle proprie ansie e delle proprie debolezze. Era dettato da un bisogno di autenticità che gli era nato dentro precocemente, forse per l’ambiente alto borghese della sua famiglia d’origine, e che gli faceva avvertire in modo lancinante le minacce dell’ipocrisia e del conformismo. Meglio persino il male, se sincero, rispetto a un “bene” simulato solo per adeguarsi alle convenienze sociali. Meglio diventare dei “falliti” che si aggirano nelle zone d’ombra dell’esistenza, piuttosto che alimentare l’ingiustizia dilagante e le finzioni collettive.
L’anarchia come aspirazione a un’etica superiore; non come rifiuto delle regole e, ancora prima di qualsiasi regola, del principio di responsabilità. Quando De André venne rapito insieme a Dori Ghezzi la sera del 27 agosto 1979, e rilasciato il 22 dicembre subito dopo che il padre ebbe pagato di tasca propria un riscatto di oltre mezzo miliardo, restituire quei soldi fu un imperativo assoluto. Personalmente poteva anche comprendere i rapitori e, mettendo da parte le sofferenze che avevano imposto a lui e a Dori, inquadrarne i reati in un’ottica socio-economica di più vasta portata, ma il debito nei confronti di suo padre non era in discussione. Il potere di perdonare gli apparteneva. Quello di condonarsi da sé le centinaia di milioni versate ai banditi, no.
Analogamente, e chissà se è ben chiaro a tutti i suoi moltissimi estimatori, la compassione verso gli sconfitti non era affatto un avallo incondizionato a qualsiasi debacle, quali che ne fossero state le cause. La pietà è un sentimento che è giusto dare e ricevere a posteriori. Mentre prima, quando tutto è ancora in gioco, ognuno di noi è chiamato a fare del proprio meglio: se possibile insieme al resto della società in cui viviamo; se necessario contro. Ricordate la succitata, illuminante Smisurata preghiera, che guarda caso chiude l’ultimo album, il magnifico Anime salve? No?! Allora non importa.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.
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