Dal Secolo d'Italia di sabato 10 gennaio 2009
Finalmente è arrivato il libro in redazione. E, subito dopo averlo letto, ci siamo resi conto del fatto che nei giorni scorsi i giornali avevano messo su una polemica che non ha proprio niente a che fare con quanto è scritto su quelle pagine. Ci riferiamo a La penna d’oro, la bella e coinvolgente autobiografia intellettuale del narratore friuliano Carlo Sgorlon (edita da Morganti, pp. 221, euro 15,00). Leggendola abbiamo potuto ripercorrere la vita e l’opera dello scrittore oggi alla soglia degli ottant’anni, riscontrando la sua irregolarità oltre alla totale estraneità rispetto ai canoni realistici, marxisti e progressisti egemoni in Italia sin dall’immediato dopoguerra. E la storia del suo straordinario successo come scrittore – ha vinto due volte il Campiello, unico caso nella storia del premio, lo Strega, il Nonino, il Flaiano, il Fiuggi, il Napoli, l’Hemingway, l’Isola d’Elba, il Vallombrosa, il Basilicata, l’Enna, il Rapallo e tanti altri ancora – ci dimostra, semmai, non solo come di fatto l’egemonia culturale della sinistra sia stata sconfitta nel tempo dai lettori e dalla società civile italiana ma che, inoltre, Sgorlon sia uno dei protagonisti del cambio di sensibilità nell’immaginario registratosi negli ultimi anni.
E per spiegare tutto questo facciamo eccezione alla rigorosa regola giornalistica di non entrare personalmente dentro la questione di cui si riferisce, raccontando invece di quanto Carlo Sgorlon abbia influenzato la sensibilità e l’immaginario di chi scrive. Eravamo infatti nella prima metà degli anni Settanta e, conversando con un compagno di classe nel nostro liceo di provincia, ci lamentavamo di doverci subire la lettura obbligata di narratori italiani tutti realisti e progressisti: Moravia, Pasolini, Rodari, Cassola, Oriana Fallaci... E il nostro amico, che era simpatizzante di Lotta Continua, aveva ribattuto: “Be’, voi avete almeno Giuseppe Berto, Piero Chiara, Carlo Coccioli e adesso c’è questo Carlo Sgorlon che va molto forte...”. Ovviamente chi scrive, vivendo in provincia dove non c’erano vere librerie, andò a casa a vedersi il catalogo del Club degli Editori e ordinò subito prima Regina di Saba e poi Gli dèi torneranno... E l’impressione del nostro amico si rivelò giusta, già quelle parole e quei richiami – al magico, al fantastico, agli archetipi, alle antiche divinità – assicuravano un orizzonte del tutto altro rispetto alla vulgata allora dominante.
Qualche anno dopo, nel frattempo avevamo letto quasi tutti i romanzi sino allora usciti dello scrittore, a un convegno della Nuova destra che si svolse a Venezia, era il 1983, ci imbattemmo in Federico Sgorlon, che si rivelò non solo come uno studente friulano vicino al movimento metapolitico che faceva riferimento a Marco Tarchi ma anche come il nipote dello scrittore. Suo padre era Romano, fratello minore di Carlo, e Federico – con il quale si stabilì un’interlocuzione epistolare – confermò che la sensibilità culturale di suo zio era, dal punto di vista della sensibilità prepolitica, assai prossima alla nostra. E, non a caso, ci fece leggere un’intervista al romanziere, in cui Sgorlon si definiva tributario di autori come Mircea Eliade e Carl Gustav Jung e spiegava la sua visione metapolitica fondata sulla necessità di sacralizzare la vita e di riscoprire le tradizioni popolari. E anche in questa sua autobiografia, lo scrittore conferma che l’illuminismo, il progressismo, il neorealismo, il culto eccessivo del divenire hanno da sempre provato in lui «forme di sospetto e di rifiuto». E spiega i suoi riferimenti intellettuali: «Assieme ai libri di scrittori come Elémire Zolla, Pietro Citati, Mircea Eliade, Carl Kereny, George Dumézil, Claude Levi- Strauss, gli scrittori del folclore e del sacro in genere, riscoprii in profondità il mito e l’archetipo».
Certo, Sgorlon definisce il suo atteggiamento esistenziale una inedita ma coerente «anarchia tranquilla », e la sua vocazione di vita, aggiunge, ha sempre coinciso, sin da bambino, con la voglia di narrare, raccontare storie: «Io sono – confessa – innanzitutto un narratore di storie che ha plasmato la propria figura sopra un modello, quello dello sciamano dotato di fantasia». Qualcuno lo ha definito il Marquez italiano: «E l’accostamento – dice lui – mi è gradito, anche perché fui un entusiasta dello scrittore colombiano sin da quando Feltrinelli lo fece tradurre in italiano...». Non ha mai amato l’orizzonte realistico: «Da subito mi resi conto di non amare molto la storia, sintesi di crudeltà, sopraffazioni, astuzie, volontà di potenza, ideologie più o meno iperboliche o deformi, dove gli sconfitti avevano sempre torto, e dovevano subire le violenze dei vincitori, perché in essa s’impongono sempre la volontà e la filosofia di chi la spunta sul campo di battaglia». Anche per queste convinzioni, Sgorlon ha sempre voluto vivere appartato, sul confine, con distacco rispetto alle effimere passioni e infatuazioni del presente. Così, già da studente universitario a Pisa e poi in Germania scelse di non allinearsi: «Il comunismo prevaleva in ogni ambiente intellettuale. Marx, Lenin e Stalin erano i numi tutelari della politica, e gli scrittori comunisti, Lukàcs, Brecht, Sartre, erano i grandi modelli dei più...». E Sgorlon, consapevolmente, visse appartato: «Mi incuriosiva il fatto che molti professori, che solo pochi anni prima erano stati seguaci delle dottrine gentiliane e sostenitori del regime, ora si erano fatti marxisti intransigenti. E sempre più mi convincevo che la storia trascinava gli uomini con sé dove volesse. Stavo bene attento a non rivelare i miei pensieri, e soprattutto a non rivelare il sognodesiderio di diventare narratore. Era consigliabile nascondersi un po’, mimetizzarsi...». Ma a un certo punto, nel 1960, comincia scrivere, a pubblicare e a sfidare con quelle idee sino ad allora nascoste la mentalità dominante... «Non l’uomo storicizzato – scrive – m’interessava, ma piuttosto quello esistenziale. la sto ria era per me qualcosa di simile a ciò che era la “rettorica” per Michelstaedter, o la “vita banale” per Martin Heidegger».
Lo scrittore riconosce di aver sempre detestato «l’inconsistenza della vita, e amato per contro le cose che duravano, gli archetipi, l’etica, i miti, le favole, le tradizioni, ossia tutto ciò che il tempo dura fatica a incrinare, e ciò che non rientra nella logica del consumo e dell’usa e getta». Al fondo di tutto la religiosità, il senso del sacro e il sentimento pagano e cristiano della pietas: «I miei personaggi, consapevoli – annota – d’essere stranieri nel mondo, nel quale possono essere raggiunti da qualunque destino, e in cui la morte è l’epilogo finale per tutti, sentono che una religiosa compassione per gli altri è il più alto di tutti i possibili sentimenti ». E così Sgorlon ha raccontato nel romanzo che gli fece vincere lo Strega, L’armata dei fiumi perduti, la tragedia dei cosacchi alleati dei tedeschi in Friuli nel ’44: «Essi sono la metafora di tutti i popoli che in ogni tempo sono stati privati della patria dalla impassibile violenza della storia. Quello di privare i popoli della loro terra è una sorta di delitto contro natura, che continua a essere consumato, per assurde ragioni o ubriacature ideologiche, anche ai nostri tempi». Su un tema analogo nel 1992 scrisse La foiba grande. E poi c’è, in tutta la sua opera, il tema dell’ecologia. Quindi, in sostanza, tutt’altro che inattuale: lontano dal realismo e dalle infatuazioni ideologiche ma ben radicato nella coralità delle vicende degli uomini contemporanei. Tanto che ammette: «Io fui, a suo tempo, uno dei pochi scrittori che sui giornali e nei libri parlarono dei misfatti del comunismo, quando esso era al potere in gran parte del mondo... Fui il primo a scrivere un romanzo sulla tragedia del Vajont e sul massacro di Porzus. Fui uno dei primi a parlare di ecologia. Mi occupai dei rom e della loro cultura, di cui oggi tutti parlano, il romanzo Il costruttore fu la mia risposta al dramma nazionale di Tangentopoli... ». Ecco, Carlo Sgorlon scrive da 50 anni e ha pubblicato con uno straordinario successo quasi una quarantina di romanzi. È stato celebrato a Pechino come lo scrittore italiano più importante del secolo scorso insieme a Luigi Pirandello.
Non è forse il caso di conludere che, lavorando silenziosamente col suo distacco dai clamori del mondo, Sgorlon è in fondo la prova migliore di come – e da tempo – la vecchia egemonia realista e ideologica ha dovuto inevitabilmente farsi da parte?
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
Nessun commento:
Posta un commento