mercoledì 14 gennaio 2009

Quella destra attraversata dal pacifismo (di Mario Bernardi Guardi)

Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia di martedì 13 gennaio 2009
Sono passati solo due giorni dalle celebrazioni del decennale della morte di Fabrizio De André e più di qualcuno – anche sul Secolo – ha sottolineato la sintonia tra il cantautore libertario e una certa sensibilità diffusa a destra. Quello che però stupisce ancora molti è l’apparente contraddizione tra i suoi testi antimilitaristi e antibellicisti – su tutti La guerra di Piero e Andrea – e chi non si collocherebbe a sinistra. Ma siamo sicuri che questo accostamento sia obbligatorio e che un certo spirito antibellicista non sia da sempre annidato anche a destra? Intanto basta dare già dare un’occhiata al repertorio della cosiddetta musica alternativa. Ha infatti cantato Leo Valeriano: «Hanno preso un ragazzo, l’hanno fatto soldato / gli hanno dato un fucile, e non è più tornato / Hanno tolto ha un ragazzo quel che aveva trovato / gli hanno detto non vale, e non è più tornato». E qualche hanno dopo anche Rino Cammilleri: «Anche questa è una storia senza onore né gloria / la trincea la grappa e ta-pum / Tu sei nato col mare negli occhi / l’aria della Sicilia e poi morire qui». Ma, volendo, ci si può spingere anche più in alto. Lo storico finlandese Tarmo Kunnas nel suo celebre studio su La tentazione fascista aveva dedicato addirittura un intero capitolo del suo saggio al “pacifismo” di Ezra Pound, di Pierre Drieu La Rochelle, di Brasillach e di Céline. E a suo dire, l’antimilitarisno dei primi decenni del Novecento raggiunge un suo culmine stilistico nelle pagine del romanzo La commedia di Charleroi, che si rivela una vera e propria protesta contro la guerra moderna e una requisitoria non solo contro l’orrore delle trincee ma anche contro il falso patriottismo delle retrovie e il malinteso senso dell’onore di molti militari. «Il pacifismo – ha annotato però Tarmo Kunnas – è ancora più sorprendente nel caso di Céline, in quanto il suo pacifismo è radicale».
Del resto, il 31 luglio 1916, da Bikobimbo, nel Camerun, il ventiduenne Louis-Ferdinand Destouches scriveva a Simone Saintu: «Oggi sono due anni che ho la sciato Rambouillet per la grande avventura, e da allora abbiamo ucciso molto, e uccidiamo ancora, instancabilmente fastidiosamente, la guerra inizia a farmi l’effetto di una ignobile tragedia su cui il sipario si abbassa e si rialza senza tregua, davanti ad un pubblico stanco ma troppo esausto per alzarsi e andare via». Louis- Ferdinand sa che a Simone può parlare a cuore aperto: è una cara amica d’infanzia, che ha incontrato la prima volta nel 1904, tramite il comune professore di pianoforte. Dunque, con lei si confida senza perifrasi, senza finzioni: «Quasi tutti quelli con cui ero partito in guerra sono stati uccisi, i pochi che restano sono irrimediabilmente mutilati, alcuni infine come me, errano un po’ ovunque, alla ricerca di una pace e di un oblìo che non trovano più. Questo sarà mia cara Simone il destino di molti altri e gli “erranti” che provocherà la guerra saranno numerosi».
Ma almeno non ci si farà più illusioni, almeno la si farà finita con la retorica: «La morte che non può essere ingannata ha però dissolto quel fascino pernicioso – e gli uomini mi sono apparsi, tutti sena distinzione, terribilmente uguali per la maggior parte, potendo distinguersi dalla massa solo attraverso due cose e comunque di rado – i vizi o l’intelligenza – tengono alla vita, tutti, in egual misura […] Mi ci voleva questa grande prova per conoscere l’intimo dei miei simili, sui quali nutrivo forti dubbi. Adesso è fatta, li ho classificati senza risparmiare me stesso».
No, Louis-Ferdinand Destousches non è davvero il tipo che fa sconti. La sua “pietas” è la spietatezza, e lo sarà sempre. E questa lettera è come se l’annunciasse. A Simone, per adesso. Sedici anni dopo, nel 1932, toccherà al mondo col romanzo Viaggio al termine della notte, firmato Céline, in omaggio alla nonna materna, Céline Guillou.Céline, insomma. Già comincia a rizzare il capo in questi scritti: un breve racconto e due lettere per l’amica del cuore che, pubblicati per la prima volta da Gallimard nei Cahiers Céline (1978), vengono solo ora proposti ai lettori italiani (Le onde, pp. 35, euro 4, a cura di Anna Rizzello, Edizioni Via del Vento, via Vitoni, 14, Pistoia). È vero che ancora non ha rivoluzionato la punteggiatura, la sintassi e il lessico, travolgendoli, stravolgendoli e alla fine dominandoli in un nuovo, straordinario impasto linguistico: procede a tentoni, piazza punti, virgole e trattini così come gli pare, talvolta è sgrammaticato. Ma già comincia a grida re da par suo, che è poi un dire quel che deve dire, un urlare la verità, scaraventandola in faccia ai retori di tutte le tinte e di tutte le risme.
Insomma, il nostro ha già imparato qualcosa: dunque, nessuno venga a fargli la predica. Così giovane e così disincantato? Eccome: e c’è voluta la guerra. Lui, figlio unico di una coppia piccolo-borghese, babbo impiegato e mamma merlettaia, arruolato nel 12° Reggimento di Corazzieri di stanza a Rambouillet, ci va col cuore in fermento, sull’onda di declamazioni patriottiche. E così combatte in Fiandra da sergente, si offre volontario per una missione pericolosa a Poelkapelle, viene ferito a un braccio e alla testa, subisce una trapanazione del cranio, è dichiarato invalido al 75 per cento. Grata, la Patria lo laurea eroe con una bella medaglia al valor militare e L’Illustré national lo trasforma in una sfavillante icona da offrire a lettori e lettrici: eccolo, Louis-Ferdinand, valoroso portaordini, che attraversa le trincee nemiche a cavallo mentre dappertutto esplodono granate. Roba da epopea, che farà ghignare il futuro Céline. Ma è già ghignante il Destouches che, riformato, nel maggio del 1916, si imbarca per l’Africa,assunto come sorvegliante di piantagione dalla Compagnia Forestale Sangha-Oubangui, che si occupa di gomma, avorio e raccolta di cacao.
Insomma, il Céline reprobo, delirante, osceno, il nazi, il collaborazionista, è nell’essenza un uomo di pace? Sì, è così: è un uomo di pace, ed è un libertario che non sceglie la sinistra, né quella riformista, né quella marxista, ma paradossi, furori e trasgressioni della fascismo. Certo, “questo” Céline spiace ai tanti che salvano la sregolata genialità dell’artista, ma giudicano e mandano (all’inferno, senza ritorno) lo scatenato impolitico politicamente scorretto. Quello che plaude ai nazi invasori ed è tanto “collabo” da meritarsi lo sprezzo liquidatorio di Ernst Jünger (come è noto, Céline è l’invasato, l’ossesso Merline del Diario 1941-1945, più papista del papa). Ma, l’abbiamo detto, Céline va pre gridaso tutto intero, con la “dismisura” di quello che dice e di cui è responsabile. Non è possibile depurare o disinfettare uno che nel mirabile Voyage, dopo aver lanciato anatemi contro guerre e guerrafondai, scrive: «La vera sconfitta in tutto è di dimenticare e specialmente ciò che ci ha fatto crepare. E crepare senza capire sino a qual punto gli uomini siano cani. Quando usciremo da questo crogiolo, non occorrerà fare i furbi, ma nemmeno dimenticare; occorrerà raccontare tutto senza cambiare una parola, tutto quello che c’è di più schifoso negli uomini; e poi morire e scendere nella tomba. Come lavoro, basta per una vita intera».
Non è questo, datato 1932, il vero “manifesto” morale, etico e politico della “vera” pace? E lo confeziona uno che, da lì a poco, avrebbe fatto comunella con i tedeschi e gli italiani, deludendo Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre che credevano che «l’anarchismo di Céline fosse simile al loro». Sarte comunque coglie nel segno quando scrive: «Non si sente forse in lui la predicazione di un Cataro, di un eretico estremista del Medioevo?». Ora, da che parte stanno i Catari del Novecento? Così guerrieri, così pacifici, così paradossali ed eretici, da che parte stanno? Come fanno ad essere, a un tempo, “esteti armati”, soldati politici e grandi smascheratori delle balle patriottarde, squillanti e tronfie, vacue e sanguinarie? Il fatto è che questa è gente va alle radici, alle origini, e nell’interventismo culturale dell’avanguardia, umori guerrieri compresi. E fa attenzione alle trappole, alle patacche dei valori in salsa borghese, con popolo, nazione e comunità che vanno a prenderselo in quel posto, a maggior gloria degli impennacchiati padri-padroni della patria. Attenzione al patriottismo e all’eroismo di guardie bianche e mazzieri, sembrano suggerire. Attenzione ai proclami di stati maggiori corrotti e pescicani. Céline ha visto parate militari, osceni carnai, discariche di sangue coagulato. Ha visto gli amputati, i decapitati, gli sventrati. In nome di…? Ecco, si tratta proprio di dare un nome agli uomini e alle cose, e di dire cosa sono, e cosa debbono essere, la guerra e la pace. È questo l’obbiettivo di Céline: anche se in lui il disincanto è così alto da assomigliare alla disperazione, pure attraversata dai lampi di una redenzione possibile. E tanto urlata da sembrare una maledizione.
D’altronde, anche il Novecento italiano, anticonformista e libertario, quello che, in vario modo, dissoda il terreno per il fascismo – con d’Annunzio, Prezzolini, Papini, Soffici, Serra, Viani, Maccari, Marinetti, Ungaretti, Malaparte, Rosai… – scava nel disumano orrore della guerra novecentesca e nelle sue straordinarie occasioni di solidarietà e di identificazione nazionale alla ricerca del “dopo”: e cioè della pace giusta costruita da tutti i combattenti che hanno conosciuto il fango e il sangue, e hanno vinto, quasi sempre contro prela classe politica e gli alti gradi militari e tutte le caste in divise. È forse una bestemmia dire che i veri vincitori sono quelli che hanno fatto Caporetto e mandato al diavolo le istituzioni? Malaparte lo ha scritto ne La rivolta dei santi maledetti, che è già una sorta di breviario fascista. E comunque scritto da un guerriero pacifico, dunque rivoluzionario. Al pari di Céline. E del Drieu della Commedia di Charleroi. E dell’Ezra Pound che nel Duce celebrerà l’operatore di pace e in Roosevelt condannerà il guerrafondaio. E che scriverà che «non c’è guerra giusta». Ma anche di Ernst Jünger, pur valoroso combattente di due guerre mondiali, che nel 1944, in un testo intitolato La pace (Guanda, 1993), già prefigurando il desolato paesaggio della “finis Europae” con i vincitori che si accaniscono sui vinti e gli accusatori che hanno la pretesa di essere anche giudici imparziali, scriverà: «Abbiamo considerato le vittime di questa guerra. Tutti i popoli hanno fornito il proprio contingente al loro cupo plotone. Tutti hanno condiviso le sofferenze, e perciò a tutti loro la pace dovrà portare frutto. Questo significa che la guerra dovrà essere vinta da tutti». Chissà.
È un’utopia l’ammonimento ungarettiano «Cessate di uccidere i morti»? È un’utopia un diverso epilogo alla Guerra di Piero di De André, magari con i due che «si scambiano la cortesia» – non melensa, ma antica, civile e virile – di non ammazzarsi e si inventano un altro maggio di rose e di tulipani, un’altra guerra e un’altra pace?
Mario Bernardi Guardi (Pisa) è scrittore e giornalista, conferenziere e organizzatore culturale. Ha pubblicato in volume saggi su Nietzsche, Borges, Jünger, la cultura mitteleuropea, i tic e i tabù della sinistra, Gobetti, Berto Ricci, Risorgimento e Antirisorgimento. Attualmente scrive su Libero, Il Foglio, Il Tempo, Secolo d'Italia, Il Domenicale, Linea e Palomar.

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