martedì 20 gennaio 2009

Quindici anni per il disco dei Guns N’ Roses, ma la giovinezza non si costruisce in sala d’incisione (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 18 gennaio 2009

Difficile che vuoi solo la musica, dal rock. Vuoi un rapporto viscerale con chi la suona. L’attrazione che scava i suoi tunnel e che diventa identificazione. Il biglietto d’ingresso della prima volta che diventa un lasciapassare per sempre. Tu rockstar, io fan. Un amore asimmetrico (come tutti gli amori, al di là di quello che ci piace pensare) ma esigente: posso non essere l’unico e il solo, ma soltanto se tu – in un modo o nell’altro, con magie divertenti come giochi di prestigio, e con giochi di prestigio misteriosi e potenti come magie – resti grande e seducente e irresistibile come mi è sembrato all’inizio.
I Guns N’ Roses si formarono nel 1985, incisero il primo disco autoprodotto nel 1986, esplosero nel 1987 con l’album d’esordio pubblicato dalla Geffen, l’indimenticabile Appetite for Destruction. La musica era trascinante e immediata, fondamentalmente di impianto hard rock, vale a dire fragorosa ma a suo modo orecchiabile, e però aperta alle contaminazioni, e con l’aggiunta di un disprezzo tipicamente punk per le regole. I testi fotografavano la vita di Los Angeles, vista con gli occhi di ragazzi spiantati che tirano avanti alla giornata: niente di facile e nulla di rassicurante, giusto un momento di rifugio nelle storie d’amore, giusto qualche sogno, o qualche allucinazione, di un posto migliore in cui sarebbe bello ritrovarsi, se le cose non stessero così come stanno. Paradise City, per esempio: «Inchiodato nella camera a gas della città / non ricordo proprio perché sono qui / Il ministro della Sanità dice che è azzardato respirare / Vorrei un’altra sigaretta ma non riesco a capire / Dimmelo tu a chi devo dar retta / Portami giù alla Città Paradiso /dove l’erba è verde e le ragazze carine / Portami a casa».


I Guns N’ Roses si presero i frutti del successo (money-money-money) e continuarono imperterriti a fare a modo loro. In perfetto stile rock, arrivare in cima alle classifiche non era affatto l’happy end di una storia sofferta ma edificante: era il bottino di guerra, il premio dei pirati, il diritto di saccheggio che spetta al vincitore. Accantonati gli ecumenismi degli anni Sessanta, la musica era diventata una competizione come le altre, dura e senza esclusione di colpi. «Sono talmente tanti i gruppi rock presenti a Los Angeles negli anni Ottanta – ricorda nel suo Guns N’ Roses, The Truth il giornalista-scrittore Ken Paisli – che i proprietari dei locali addirittura pretendono di essere pagati per concedere gli spazi per suonare.» I Guns N’ Roses si fanno largo rapidamente, ma il clima resta quello. E vale un imprinting. Specialmente per Axl Rose, che ha alle spalle una terribile storia familiare, cominciata con una padre pedofilo che abusa di lui quando ha appena due anni, e proseguita con un patrigno ossessionato dalla religione che lo picchia per un nonnulla, l’ostilità e la durezza della metropoli equivalgono ad altrettante conferme della natura conflittuale dell’esistenza.
Axl ritiene di avere dei diritti, sia a causa di quello che ha passato a suo tempo sia per effetto di quello che è capace di fare adesso, con la musica. Si considera il leader dei Guns N’ Roses e, dopo essersi preso ogni sorta di libertà e aver fatto ritardare o saltare chissà quanti concerti, un po’ per volta fa piazza pulita di tutti quelli che non lo assecondano. Nel giro di sei anni, e di soli quattro soli album, la band arriva al capolinea: Axl si assicura il controllo del marchio ma rimane da solo; nominalmente il gruppo sopravvive, di fatto si tratta di un solista che sceglierà di volta in volta i musicisti dai quali farsi accompagnare. Axl può fare come vuole, d’ora in poi: ma come accade di solito, a meno che il grande talento non si accompagni a un altrettanto grande equilibrio, la troppa libertà lo priva di punti di riferimento, di quel tanto di obblighi che aiutano a fissare gli obiettivi precisi e a imporsi delle scadenze.
La lunghissima attesa del nuovo album comincia così: un interminabile stillicidio di anticipazioni che non conducono a nulla, di aspettative che si addensano, ogni volta che sembra arrivato il momento buono, e che poi sono puntualmente costrette a disperdersi, di fronte all’ennesimo rinvio. Si conosce il titolo della raccolta, Chinese Democracy, e qualche brano presentato dal vivo, ma la data di uscita rimane imperscrutabile, disattendendo non solo le indiscrezioni ma gli stessi annunci ufficiali.

Alla fine, quando ormai si inizia a temere che il fantomatico successore di The Spaghetti Incident? possa anche non arrivare mai (vedi la sarcastica finta copertina di Rolling Stone, che mostra un Axl fortemente invecchiato a fianco della scritta «2041 A.D. Chinese Democracy finalmente nei negozi!»), l’impasse si scioglie il 23 novembre 2008. Incredibile a dirsi, il ventilato nuovo album è diventato realtà. Accessibile a tutti. Giudicabile da tutti. Ed esposto, innanzitutto, all’inevitabile domanda che fa seguito a un’attesa così incredibilmente lunga: è valsa la pena, di aspettare così tanto?
No, ovviamente. Se ci si basa solo sul fattore tempo la risposta non può che essere negativa. Dopo 15 anni di lavorazione sarebbe stato necessario un capolavoro assoluto, di quelli che si stagliano nella storia del rock non solo con la forza della novità, legata al momento, ma con la qualità dell’invenzione, che sopravvive a tutto: fai conto The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, per fare solo un nome. Se invece lo consideriamo in se stesso, come il nuovo lavoro di Axl Rose dopo la disintegrazione dei vecchi Guns N’ Roses, Chinese Democracy regge la scena con invidiabile saldezza. Non perde in impatto ma trova una nuova complessità (vedi Madagascar, non lontana dalla Don't Drink the Water di Dave Matthews) attestando che il ragazzo cresciuto nell’Indiana e approdato a Los Angeles ha trovato uno spessore che lo colloca al di là, e al di sopra, del suo stesso personaggio. Così la domanda cruciale deve cambiare: basterà la bontà della musica a ripetere la fascinazione collettiva di un tempo? C’è da temere di no: a vent’anni, o giù di là, i conflitti interiori e gli eccessi sono comunque un inno alla vita; in vista dei cinquanta rischiano di essere solo il ricordo, sgradevole, di un’armonia e di una compiutezza che non si è stati capaci di trovare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

3 commenti:

Claudio Ughetto ha detto...

Mai sopportati i Guns. Secondo me non hanno mai avuto niente da dire. Hanno rappresentato il peggio del trash e dell'ostentazione kitsch.
Ma non faccio testo: ho sempre amato altra musica. Nemmeno i Nirvana mi hanno mai convinto. Dopo la new-wawe e l'evoluzione del punk attraverso i Clash, dopo i Talking Heads, è finito lultimo tentativo di fare dell'arte con la musica popolare. Poi sono tornati i reazionari (in senso musicale, in ideologico). Con i Guns in testa.

Anonimo ha detto...

Caro Claudio, il problema - credo -è che ogni generazione ricomincia daccapo. Poi, quando tutto va bene, i singoli si evolvono e capiscono che certe passioni adolescenziali erano, appunto, adolescenziali. Per chi è venuto prima, e certe tappe le ha già superate, l'entusiasmo è di gran lunga più esigente e selettivo. Io stesso, se dovessi scrivere solo di quello che mi appassiona "qui e ora" scriverei molto meno. O stroncherei molto di più. Invece, e non solo per motivi professionali, tengo a bada i miei gusti e provo a descrivere gli artisti nel tentativo di renderli più comprensibili nelle loro scelte e nelle loro motivazioni. Il che, almeno a volte, mi rende meno refrattario all'ascolto, e a qualche tipo di apprezzamento, di quanto non fossi all'inizio.

Claudio Ughetto ha detto...

Sì, Federico.
Nella musica popolare di solito si va a parabole. Negli anni 70 i Genesisi, Emerson Lake & Palmer ecc avevano portato il rock a livelli sinfonici altissimi, con grande complessità compositiva ed esecutiva. Poi questo è diventato maniera, persino inutile dal punto di vista del feedback culturale. Così di nuovo (e per fortuna) qualche ragazzino arruffato è tornato a impugnare una chitarra scordata e a pestare sul distorsore la propria emotività. L'era del punk!
Io sono nato tra le due fasi, e ora ragiono un po' come un padre che non capisce la musica ascoltata dai figli. Anche se in realtà adoro i Radiohead e per un po' ho apprezzato i NIN, anche se questi ultimi ho finito per considerarli non poi così innovativi come sembravano.
Nel complesso nel tuo approccio mi riconosco. Ascolto tuttora di tutto, cerco di capire. Ciò che volevo sottolineare. è che le schitarrate del punk erano comunque innovative, mentre i Guns mi sono sembrati sempre reazionari per la musica proposta.
D'altronde, io sono uno che adora Dylan ma che non è mai riuscito a capire come si potesse considerare Springsteen il "nuovo Dylan". Il primo è un genio:anche i brani più semplici hanno quel qualcosa che ti costringe a riascoltarli, fosse anche una stonatura. Il secondo è sempre troppo esplicito, e mi annoia al secondo ascolto.

PS: nell'articolo hai citato Dave Matthews Band. Secondo me i primi 2 dischi erano bellissimi.