martedì 27 gennaio 2009

Riprendiamoci (a destra) gli anni '60

Dal Secolo d'Italia del 27 gennaio 2009
Gli anni Sessanta? È arrivata l'ora del dietrofront. Vanno archiviati. Rimossi. L’offensiva revisionista stavolta parte da sinistra e gli spari già risuonano nel palinsesto televisivo. I primi caduti? La fiction Raccontami, epica pop dei Sessanta. Negli ultimi due anni ha messo a sedere – davanti al piccolo schermo, of course – le famiglie italiane. Eppure, sembra destinata a non sopravvivere alla fine della sua seconda stagione. Malgrado il successo di pubblico e nonostante le proteste. Truppe irregolari di telespettatori si stanno infatti mobilitando: migliaia di mail “marciano” sulla Rai. Un’intifada destinata a soccombere. Perché la decisione sembrerebbe – il condizionale è d’obbligo – presa. La famiglia Ferrucci (i protagonisti della serie in questione) sarà sciolta e i singoli interpreti destinati ad altre imprese televisive.
Prepariamoci pertanto a fare a meno di quest'ultimo romanzone popolare capace di “raccontare”, con piglio più cinematografico che meramente seriale, l’epopea di un paese che si lasciava definitivamente alle spalle il dramma della guerra e si proiettava a tutta velocità in un futuro ricco di cambiamenti e promesse. Non tutte mantenute. Ne sa qualcosa il capofamiglia Luciano Ferrucci. L’esplodere del conflitto l'aveva costretto a interrompere gli studi per poi farsi capocantiere per la ditta di un ex camerata. Potrà prendersi il sospirato diploma da geometra e inventarsi imprenditore ma i guai non mancheranno, né a lui né all’Italia. Un ruolo cucito a misura per il bravissimo Massimo Ghini, attore di sinistra – ci si passi il gioco di parole – poco amato, però, a sinistra. Già. Oggi come ieri c’è poca voglia di leggerezza, da quelle parti. L'ottimismo? Troppo destrorso, retorico. Tutto sommato, un po' berlusconiano.
E a puntare il dito contro «la sinistra snob» è lo stesso Ghini, reo di aver dato il volto – il suo – alla più recente commedia brillante italiana. «Dopo il primo film natalizio – si è sfogato in una intervista rilasciata al Corriere della Sera – sono stato considerato un traditore. Mi hanno persino chiesto se avessi cambiato idee politiche». Aveva due risposte possibili, ha spiegato: «La parolaccia o parliamone. Ho deciso di parlarne». A distanza di qualche giorno, però, il j’accuse di Ghini non ha ricevuto risposta e il futuro della fiction è ancora avvolto nel mistero. La verità – azzardiamo noi – è che qualcuno a sinistra si è forse reso conto che l'epopea degli anni Sessanta non era poi così funzionale alla celebrazione della loro parte politica e culturale. Malgrado Walter Veltroni e il suo immaginario, tutto anni Sessanta.
D'altronde da qualche tempo in giro c'è davvero tanta voglia di anni Sessanta. Ha detto Franco Battiato: «Le canzoni italiane degli anni '60 possedevano malinconia, ispirazione e felicità. Si veniva da una guerra devastante. E pur fra i problemi, c'era gioia di vivere». Non si tratta, quindi, solo del vintage che alimenta un sempre florido merchandising – dal ritorno dei dischi in vinile alle mitiche figurine Panini – ma dello spirito autentico dei Sessanta, recentemente riecheggiato anche nelle parole di Gianfranco Fini e individuato da Angela Merkel come decisivo per lo svilupparsi del boom economico tedesco e del modello di economia sociale di mercato. Tanti i lati positivi. Ne ha elencati alcuni il presidente della Camera nel convegno organizzato dalla fondazione Liberal di Ferdinando Adornato: «L'ottimismo, il desiderio di cambiamento nel costume, la rivolta generazionale e la partecipazione delle donne». Prima del trionfo delle ideologie e del tradimento di quelle speranze. Un’analisi lucida che sottolinea come, solo per l’incapacità della destra politica italiana di allora nell'ascoltare i giovani, si finì con lo spalancare un’autostrada all’egemonia della sinistra lasciando che prevalessero – per usare le parole della cancelliera tedesca – «le frange autoritarie e intolleranti del ’68».
L'ansia di cambiamento, da allora in poi, è stata raccontata come cosa loro e iscritta nell’immaginario della sinistra. Dai Beatles al Giovane Holden, da Charles Bukowski a Jim Morrison, ma anche Kennedy e Papa Giovanni, non c’è icona d’importazione che sia sfuggita a questa gigantesca mistificazione. Un equivoco colossale su cui nel corso degli anni si è sedimentata una memorialistica a senso unico. Un’appropriazione indebita che ha finito per trasformare una memoria condivisa nel patrimonio esclusivo di una sinistra immaginaria.
Tutto nasce con il libro, indubbiamente bello, Il sogno degli anni ’60 (edito da Savelli nel 1981) di Walter Veltroni, già allora abilissimo a confondere passioni private e generazionalmente trasversali con un’eredità politica di tutt’altra natura e storia. L’allora ventiseienne consigliere comunale – eletto a Roma nella lista del PCI – raccoglieva il ricordo di 46 ex giovani: da Renzo Arbore a Francesco Guccini, da Lucio Dalla a Gianni Borgna. Scriveva Veltroni: «Gli anni Sessanta sono stati un decennio di grande movimento, di rottura delle assolute certezze, della rigida immobilità dei Cinquanta. Un grande ribollire di stimoli culturali, di suggestioni politiche, di riferimenti letterari veramente nuovi... L’intreccio dell’accesso alla scuola di massa e dell’affermarsi del mezzo televisivo rivoluzionò la grammatica della fantasia di una generazione. Si dilatava la gamma delle conoscenze, si entrava in diretto rapporto con la realtà, si rompeva con il provincialismo un po' cafone dell’italietta anni Cinquanta...». E ancora: «Gli anni Sessanta. Un corsa in spider, una svedese al fianco, uno scherzo all’amico, una cotta improvvisa. Un viaggio, la scoperta di Londra o Parigi, un disco di Yellow Submarine. Un pattino, un ombrellone, un transistor acceso, una partita di pallone al tramonto. Una spiaggia tranquilla, un juke-boxe che suona, un po’ gracchiando, una canzone di Francoise Hardy». Peccato che questo quadretto idilliaco, di lì a qualche anno, venne fatto a pezzi proprio dalla sinistra con la pretesa di dare un segno ideologico a quella genuina ansia di cambiamento. A un vecchio conformismo ne subentrò un altro persino più intollerante che riduceva la rivolta generazionale a una banale questione di look e moschetto.
Ne sanno qualcosa i protagonisti musicali di quella stagione, coloro che ne hanno determinato la colonna sonora. Uno su tutti: Edoardo Vianello, i cui successi sono stati recentemente raccolti in Replay, un cd la cui copertina è stata affidata a Pablo Echaurren, genio eclettico oltre che vero e proprio fan di Vianello. E le sue canzoni allegre e frizzanti sono state – e continuano a essere, in barba al tempo che passa – il leitmotiv per eccellenza di intere generazioni di italiani, la benzina inesauribile dell’ottimismo contagioso dei Sessanta. Da Pinne fucili e occhiali a Guarda come dondolo, da Abbronzantissima ai mitici Watussi. Ecco, lui e la sua musica negli anni Settanta, il successivo decennio tutto plumbeo e tutto ideologico, venne messo al bando perché – sostenevano – le sue canzoni, in quanto leggere, scanzonate, vitaliste, andavano ritenute non impegnate, quindi superate. Proprio così. Se un cantante esprimeva l'ottimismo dei ragazzi del proprio tempo invece di mettersi al servizio delle cause della sinistra veniva iscritto d’ufficio nel registro dei renitenti. «Abituato com’ero al calore del pubblico ci rimasi malissimo – ci ha raccontato lo scorso giugno, in occasione del suo settantesimo compleanno – ma io intendevo la musica come un fatto di divertimento collettivo e come espressione dello stato d'animo generazionale, non come strumento per fare politica e non sarei mai stato credibile a improvvisarmi cantautore cosiddetto impegnato».
Analoga l'analisi di Don Backy, protagonista di una originale via italiana al beat e autore di canzoni cult come Poesia e L’immensità che – non a caso – insieme ad altre fanno da colonna sonora a Raccontami. Oltretutto Don Backy, insieme a Ricky Gianco e Detto Mariano, è l'autore del testo della stessa sigla della fiction riarrangiata da Vince Tempera. Ma lo spirito guascone, giovanilistico ed estetico dell’artista toscano era, in quegli anni, ben diverso da quello degli pseudorivoluzionari che affolleranno i cortei nel decennio successivo. «Io avevo ben altro per la testa – ci ha confidato – e Curcio, Capanna, Negri e nipotini vari volevano solamente andare al potere. Il nostro era un essere contro in ogni caso». Da allora la sua principale preoccupazione, come ha scritto nell’ultimo libro – Questa è la storia… Memorie di un juke box (Coniglio Editore, pp. 256, € 29, 50) – è di far sopravvivere lo spirito autentico di quegli anni, di salvare le sue canzoni dalla marea ideologica che montava a sinistra. «Le sue canzoni non ne furono contagiate – scrive in terza persona – la creatività non doveva essere gettata all’ammasso, circoscritta e in ostaggio di aggettivi: impegnata, di contestazione, di protesta o di convenienze e anticonformismi di maniera». E probabilmente per la schiettezza delle sue dichiarazioni Don Backy ancora oggi viene sistematicamente ignorato da un certo circuito mediatico. «Quando non si è allineati non si esiste per i salotti e gli ambienti che contano. Va avanti solo chi è omologato, chi ha le idee in linea». Per lui quasi nessun invito in tv. Neanche a trasmissioni dedicate alla musica degli anni ’60-’70 come Canzonissime, Ti lascio una canzone o I raccomandati. Figuriamoci il Festival di Sanremo, cui si è recentemente proposto per vedersi sbattere la porta in faccia da Pippo Baudo.
Intendiamoci, a ricevere tale trattamento non furono soltanto i cantanti ma tutti gli artisti che non vollero farsi allinearsi. Basti pensare a Franco e Ciccio, definiti dall’indimenticato Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, «i rappresentanti per eccellenza dell’Italia prorompente, vitale e con voglia di fare degli anni Sessanta». La loro comicità schietta e contagiosa richiamava nelle sale adulti, ragazzi e bambini. Eppure la critica ideologizzata continuerà a considerarli poco più che fenomeni da baraccone. Tra le poche voci controcorrente, quella di Valerio Caprara: «Inutile aggiungere che meno amavo le isterie gauchistes (che, pure, hanno preso il potere nel campo dei sacerdoti della critica) più simpatizzavo con la morfologia artistica di Franchi e Ingrassia, la cui docta ignorantia mi sembrava di gran lunga più lucida della ignoranza tout court dei lanzichenecchi rossi e rosa di Cinecittà e dintorni. Il cinema ‘nobile’ era costituito, per costoro, da alcuni ignobili sottoprodotti gabellati per ‘ideologici’ e progressivi. Per fortuna il popolo (quello vero, quello che si esalta al Mundial e prende a pomodorate le reprimende dei sociologi) invertiva puntualmente i canoni del sotterraneo Minculpop e premiava gli sforzi autarchici, generosi, fisici dei due attori in barba agli appelli auto-mortificanti dei pretini sub-marxiani».
Comunque, ultimamente, sugli anni Sessanta – finalmente letti senza le lenti deformanti dell’ideologia – sono arrivati in libreria due saggi che meritano tutta l’attenzione possibile: il primo è Boom. Storia di quelli che hanno fatto il ’68 (Rizzoli, pp. 255, € 16,50) del sociologo Fausto Colombo e rompe un tabù: che a raccontare i Sessanta debbano necessariamente essere i militanti ideologici del decennio successivo. Perché esserselo perso è imperdonabile, anche per chi è nato troppo presto o troppo tardi. E Colombo, cinquantenne studioso dei media e docente all’università Cattolica di Milano, si prende la briga di affrontare con una scrittura godibile e ricca di aneddoti la storia dei baby boomers, un popolo di neonati che ha compiuto o sta per compiere cinquant’anni, dieci milioni di piccoli italiani che in quegli anni Sessanta reali cresceranno in case fornite di frigorifero, lavatrice e tv, imparando che dopo Carosello si va a nanna e che un giornalino e una partita di calcio possono fare la storia.
Già, il grande calcio che proprio in quegli anni diventa un fenomeno planetario e nel nostro Paese è passione diffusa, agisce da contagio e si fa moda, costume, immaginario condiviso. Ed ecco il secondo saggio, del milanese Marco Innocenti: Quando il calcio ci piaceva più delle ragazze (Mursia, pp. 240, € 18,00). È quanto accadeva negli anni Sessanta, perché i ragazzi studiavano, contestavano, s’innamoravano, ballavano, ma soprattutto impazzivano per lo sport nazionale e declamavano le formazioni delle squadre amate come versi di una poesia. E infatti il libro di Innocenti – giornalista del Sole 24 Ore e autore di altre pubblicazioni tra cui Sognando Meazza. Come eravamo negli anni Trenta (Mursia, 2006) – prima ancora che essere un omaggio al calcio, racconta meglio di qualsiasi testo sociologico la società italiana di quel decennio attraverso i miti e i riti sportivi che hanno segnato una generazione molto più dell'ideologia, spesso postuma. Fortunatamente. Leggiamo, quindi, quelle pagine e torniamo a riprenderci i nostri - e veri - anni Sessanta.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao Roberto.
Complimenti per il pezzo. Da manuale.
Però - c'è sempre un però... - sei proprio convinto che la "televisione" sia tutto?
Non c'è il rischio di cadere nell'eccesso opposto - e sai di cosa parlo - passando dal culto dell'"iperpolitica" (dei professori in cattedra con la matita rossa e blu), e non parlo di te, a quello dell' "iperimmaginario" (mediatico).
Un caro saluto,
Carlo

P.S.
Se proprio si vuole ragionare per decenni (altra moda importata dagli Usa, paese privo di storia vera, e dunque costretto a ragionare per decadi...) sai qual è il decennio più importante della storia d'Italia? 1860-1870.
Ciao,
Carlo

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Ciao Carlo, grazie.
Il però... No, non sono affatto convinto. La televisione altro non è che uno specchio, per certi versi deformante, della realtà contemporanea.
Purtroppo ciò che non è contenuto nel famigerato palinsesto - ciò che non si fa contenuto, intendo - semplicemente sparisce, sostituito nell'immaginario da ciò che il palinsesto propone (scusa il bisticcio di parole).
La televisione non produce cultura, semmai spesso la demolisce, divulga idee (forse dovremmo dire più sottilmente suggestioni) e modelli semplificati ma efficaci. Non sempre positivi ma non necessariamente negativi. Dalla televisione, però, è difficile prescindere per la sua capillare capacità di "contagio".
Questo è il mio confusissimo pensiero al riguardo, del tutto privo di certezze :-)
Il decennio 1860-1870?
E' sicuramente il più importante e, temo, il meno conosciuto.
Non sarebbe male tirarlo fuori dal dimenticatoio.
Un abbraccio a te!