domenica 22 febbraio 2009

Antonello Venditti rovina le sue donne a colpi di marketing (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 22 febbraio 2009
Marketing puro: come altro la si deve considerare, quest’ultima operazione discografica a firma di Antonello Venditti? Questa doppia antologia che si intitola Le donne e che esce a ridosso di San Valentino, affastellando una sull’altra, senza il benché minimo ordine cronologico o concettuale, 32 canzoni pescate sull’arco di una discografia poco meno che quarantennale. Marketing puro: e si potrebbe anche finirla così, col paio di frasi necessarie a compilare un avviso di perfetta inutilità, e un avvertimento a non cascarci.
Oppure si può decidere di andare oltre. Chiarendo che la stroncatura del disco non si estende automaticamente all’artista. Per quello che ha fatto nei suoi momenti di autentica ispirazione, Venditti merita che non ci si fermi a questa mal assortita e quasi cinica “galleria degli amori” (e talvolta degli orrori, come nella banalissima, irrilevante e mai troppo vituperata Che tesoro che sei). Merita che lo si vada a scandagliare assai più in profondità. Non solo perché le sue composizioni più originali ruotano intorno a temi di tutt’altro genere – vedi la straordinaria Lo stambecco ferito, in chiusura di Lilly – ma perché, anche restando nell’ambito delle figure femminili che attraversano le sue canzoni, questa affollatissima “foto di gruppo” confonde le fisionomie in un’immagine falsata. Come un gigantesco fotomontaggio di ragazze, e di donne, poste una accanto all’altra a simulare una fittizia contemporaneità, che però viene immediatamente smentita dai mille particolari rivelatori che ci ricordano, invece, la loro appartenenza a epoche del tutto diverse. Epoche nel senso del tempo interiore, prima ancora che di quello reale. Epoche contrassegnate da un differente modo di vivere, di sentire, e infine di raccontare.
Se i 32 pezzi di Le donne fossero stati presentati rispettandone la successione temporale, dalla Sora Rosa di Theorius Campus in poi, i cambiamenti sopravvenuti lungo la strada sarebbero apparsi chiarissimi. E negativi. Invece di affinare il proprio linguaggio, via via che l’esperienza si andava a sommare al talento naturale, Venditti è regredito verso forme elementari. Per non dire di peggio. Invece di diventare sempre più esigente con se stesso, scartando risolutamente ciò che non era almeno all’altezza di ciò che aveva già realizzato in precedenza, è divenuto più che mai accomodante, fino ad avallare come versioni definitive e degne di pubblicazione stesure che potevano essere sì e no dei punti di partenza.
Si pensi a De André: appena cinque album in circa vent’anni, dal 1978 di Rimini al 1996 di Anime salve, ma di una qualità, di una densità, tale da rendere indiscutibile ogni singolo brano. L’arte come distillato. Come decantazione di idee e di slanci. Provi un’emozione e la consideri, giustamente, la scintilla iniziale di un processo creativo che forse si svilupperà e forse no. Ti colpisce la combinazione di alcune parole e, giustamente, ti affretti a fissarle su un foglio: ma non perché sei già sicuro che vadano bene così e vuoi sbrigarti ad aggiungerne altre, in modo da avere al più presto un ennesimo prodotto da vendere. Solo per osservarle meglio. Per capire se sono davvero quello che sembrano: tracce di un percorso che può portare lontano, a patto di avere la pazienza e l’abilità di seguirlo. O di ricostruirlo, continuando a cercarne il prosieguo anche quando il tracciato sembra svanire nel nulla.
Ma si pensi anche a De Gregori: una produzione di gran lunga più vasta, rispetto a De André, ma quasi altrettanto rigorosa. Canzoni che rifuggono dall’ovvio. Che non fanno mai confusione tra il coinvolgimento personale, che può legittimamente scaturire anche dai più ordinari degli accadimenti (l’abbraccio della tua compagna alla vigilia di una separazione, il sorriso di tuo figlio che ha ottenuto un suo piccolo, ma inebriante, successo personale), e l’ispirazione vera e propria. L’arte come invenzione, mai come mera registrazione di avvenimenti reali o di fremiti interiori. Sono libri, sono film, sono canzoni. Tentativi di infondere fascino, e significato, in vicende che altri non hanno vissuto; e che lo stesso autore, spesso, ha soltanto immaginato. Sono opere d’arte. Non paginette di diario in cui è sufficiente la cronaca, dei fatti e dei sentimenti, per riaccendere le emozioni dei diretti interessati.
Venditti tende a dimenticarselo. Non appena il talento non lo sorregge, assicurando la dovuta sostanza al suo desiderio di esprimersi, precipita ai livelli della peggiore produzione commerciale, inanellando luoghi comuni che fanno rimpiangere i Pooh. E non è nemmeno un problema di atteggiamento generale: non c’è bisogno di ricorrere alla pur legittima contrapposizione tra gli album del primo periodo e quelli successivi, con Sotto il segno dei pesci a fissare la linea di confine, andando a scomodare le varie Marta e Lilly e Giulia. Basta mettere a paragone Ricordati di me, del 1988, e Incredibile! (col punto esclamativo, sic!) del 2007: sono entrambe canzoni della medesima natura, nel segno di una semplicità che non ambisce a nessuna innovazione; ma mentre la prima arriva in porto a gonfie vele, conciliando l’immediatezza con l’intelligenza, la seconda va a picco appena sciolti gli ormeggi, schiantata da frasi come «tutte le cose che farò avranno dentro un po' di te /perché lo so / dovunque andrai in ogni istante resterai indimenticabile».
Se Venditti fosse capace solo di questo, solo di scodellare melodie orecchiabili e testi adolescenziali (peraltro abbondantemente fuori tempo massimo, visto che il prossimo 8 marzo compirà sessant’anni), non ci sarebbe motivo di interessarsene. E men che meno di discuterne. Figuriamoci se, nell’era dei trionfi editoriali di pseudo scrittori come Federico Moccia e Dan Brown, vale la pena di impegnarsi nell’inventario sistematico delle quisquilie spacciate per creazioni letterarie. Ma in Venditti c’è dell’altro. O per lo meno c’è stato. E a riportarlo verso gli antichi fasti, forse, potrebbe bastare anche solo una cura diversa nel valutare ciò che gli viene in mente. L’arte non è quasi mai un risultato spontaneo. È innanzitutto un’ipotesi, e il primo responsabile della sua attendibilità non può che essere chi l’ha creata. Artefice e giudice insieme. Difficile, ma indispensabile.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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