Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 8 gennaio 2009
Protagonisti di Sway, in ordine di apparizione: Bobby Beausoleil, ventenne californiano di bell’aspetto, successivamente condannato all’ergastolo per uno degli omicidi della “Famiglia Manson”; Brian Jones, Keith Richards e Mick Jagger, ragazzotti della working class inglese e aspiranti musicisti, successivamente divenuti celebri con il nome di Rolling Stones; Kenneth Anger, bambino e poi adolescente e infine giovane inquieto e con crescenti tendenze omosessuali, successivamente autore di film underground e di un bestseller corrosivo e pettegolo intitolato Hollywood Babilonia, che uscì nel 1959 e che ebbe un seguito nel 1984.
Epoca di Sway: gli anni Sessanta. Filo conduttore, minimo ma sufficiente: i film cui Kenneth Anger mise mano in quel periodo e che dedicò alla figura di Lucifero, coinvolgendo dapprima Beausoleil e poi Jagger. Bobby sparì nel nulla quasi subito, in attesa di finire intrappolato nei propri grovigli mentali e di salire alla ribalta come assassino. Mick divenne rapidamente troppo celebre-indaffarato-sprezzante per mantenersi a disposizione di un outsider molto meno famoso di lui. Anger insistette a lungo, ma con scarsi risultati: anche nel mondo del rock’n’roll frequentare gli stessi ambienti non assicurava nulla di più che una dimestichezza reciproca, ad alto tasso di promiscuità ma a basso, o bassissimo, contenuto di vera amicizia. Qualunque cosa si fosse fatta insieme, dal sesso a drogarsi a ogni altra esperienza dettata dalla noia e dal bisogno spasmodico di intensità, la condivisione restava un episodio. L’esito di circostanze mutevoli, in larga misura accidentali. La messinscena si poteva ripetere chissà quante volte, ma nasceva in superficie e in superficie moriva. Una jam-session sul palcoscenico dell’esistenza. Ci siamo divertiti, ma non siamo nella stessa band. E se anche lo fossimo non saremmo necessariamente amici. E figurati fratelli.
Autore di Sway: l’americano Zachary Lazar, nato nel 1968 e giunto alla sua seconda prova dopo un romanzo pubblicato dieci anni fa negli Stati Uniti ma non in Italia. Genere letterario di Sway: narrativa di invenzione a partire da avvenimenti e persone reali. Come viene spiegato nella nota iniziale: «è, tra le altre cose, un tentativo di capire come le vite di numerosi personaggi pubblici si siano distanziate dalla concreta realtà dei fatti per entrare a far parte di una sorta di folclore contemporaneo. Di conseguenza, quest’opera non va letta né come un resoconto oggettivo, né come una biografia».
Può sembrare, con qualche variante e un po’ più di finesse, il classico escamotage per mettersi al riparo dalle querele. Non lo è. Lazar centra un aspetto decisivo della cultura pop. La celebrità, di regola, implica una perdita di controllo sulla propria immagine. E, quindi, sul “diritto naturale” alla complessità e al cambiamento. Per diventare famosi bisogna innanzitutto essere, e restare, riconoscibili. E si è tanto più riconoscibili, ovviamente, quanto più si è stabili nei propri caratteri fondamentali.
Sway, sull’asse Beausoleil-Stones-Anger, rimanda a più riprese al tema dell’occulto. Beausoleil finisce nella rete di Charles “Satana” Manson. Anger è un ammiratore, o un seguace, di Aleister Crowley, assiduo cultore della magia (nera). Gli Stones potrebbero essere stati spinti da Anger nella stessa direzione, come starebbe a indicare, tra l’altro, il titolo di un loro celebre album del 1967, Their Satanic Majesties Request. Siamo nella zona più oscura del rock. I sogni di libertà assoluta si attorcigliano su se stessi e si tramutano in incubi. Le comunità hippy si trasformano in sette. I giovani ribelli che hanno rifiutato i falsi dei della società occidentale si sottomettono ai demoni di culti improvvisati.
Ma se in quest’ambito la materia è sfuggente per definizione, basta sostituire la psicologia all’esoterismo e diventa tutto chiarissimo. Consegnarsi a Satana significa anteporre gli inganni dell’esteriorità alle verità della ricerca interiore. Il nuovo patto col diavolo, nei nostri tempi mercificati e inconsistenti, è quello con le sue innumerevoli incarnazioni all’interno dello show-business: il diavolo ti dà il successo e in cambio tu gli dai la tua anima, ovverosia la tua identità. Cosa preferisci? Restare il padrone di te stesso, o trasformarti nell’ennesima figurina «del folclore contemporaneo»?
Lazar è un romanziere vero. In quanto tale, sa bene che qualsiasi storia merita di essere narrata solo se sprigiona una verità che trascende le sorti dei suoi personaggi. Perché sottostare agli obblighi di una biografia, quando si aspira a cogliere qualcosa di universale? Lo abbiamo visto: Beausoleil, i Rolling Stones, Kenneth Anger, sono ormai entità semileggendarie che galleggiano, o sprofondano, nell’immaginario di massa. A forza di averli sotto il naso – cristallizzati nella loro immagine pubblica, che tende di per sé allo stereotipo – l’unica opportunità di metterli a fuoco è raccontarli daccapo. Liberandosi (e liberando loro) dai vincoli delle prove documentali. Chi ce lo rivela, se no, cosa pensava Bobby Beausoleil prima di piegarsi al carisma perverso di Charles Manson? Chi ce la fa percepire fino in fondo la rivalità, dapprima sottile e quasi inconscia, alla fine insanabile, forse addirittura omicida, tra Brian Jones da una parte e Keith Richards/Mick Jagger dall’altra?
Il biografo corretto si ferma ai dati di fatto. O tutt’al più alle ipotesi, indicandole puntualmente come tali. Riconoscendo esplicitamente che su quella particolare questione non ci sono certezze. I diretti interessati non ne hanno voluto parlare. Oppure hanno risposto in modo ambiguo. I testimoni, più o meno indiretti, più o meno attendibili, hanno fatto lo stesso. Oppure sono usciti allo scoperto e hanno affermato cose inequivocabili. Che però, manco a dirlo, sono in contrasto con altre versioni.
Il biografo è uno scout disciplinato che si attiene a ordini precisi: vai, osserva e riferisci. Il romanziere è un esploratore avventuroso che risponde solo a se stesso: vado, immagino e racconto. Il biografo vi dice per filo e per segno dove si trovano le insidie che incontrerete sul vostro cammino. Il romanziere cerca di infondervi il coraggio e l’acume necessari ad affrontare quei pericoli nel modo migliore.
Epoca di Sway: gli anni Sessanta. Filo conduttore, minimo ma sufficiente: i film cui Kenneth Anger mise mano in quel periodo e che dedicò alla figura di Lucifero, coinvolgendo dapprima Beausoleil e poi Jagger. Bobby sparì nel nulla quasi subito, in attesa di finire intrappolato nei propri grovigli mentali e di salire alla ribalta come assassino. Mick divenne rapidamente troppo celebre-indaffarato-sprezzante per mantenersi a disposizione di un outsider molto meno famoso di lui. Anger insistette a lungo, ma con scarsi risultati: anche nel mondo del rock’n’roll frequentare gli stessi ambienti non assicurava nulla di più che una dimestichezza reciproca, ad alto tasso di promiscuità ma a basso, o bassissimo, contenuto di vera amicizia. Qualunque cosa si fosse fatta insieme, dal sesso a drogarsi a ogni altra esperienza dettata dalla noia e dal bisogno spasmodico di intensità, la condivisione restava un episodio. L’esito di circostanze mutevoli, in larga misura accidentali. La messinscena si poteva ripetere chissà quante volte, ma nasceva in superficie e in superficie moriva. Una jam-session sul palcoscenico dell’esistenza. Ci siamo divertiti, ma non siamo nella stessa band. E se anche lo fossimo non saremmo necessariamente amici. E figurati fratelli.
Autore di Sway: l’americano Zachary Lazar, nato nel 1968 e giunto alla sua seconda prova dopo un romanzo pubblicato dieci anni fa negli Stati Uniti ma non in Italia. Genere letterario di Sway: narrativa di invenzione a partire da avvenimenti e persone reali. Come viene spiegato nella nota iniziale: «è, tra le altre cose, un tentativo di capire come le vite di numerosi personaggi pubblici si siano distanziate dalla concreta realtà dei fatti per entrare a far parte di una sorta di folclore contemporaneo. Di conseguenza, quest’opera non va letta né come un resoconto oggettivo, né come una biografia».
Può sembrare, con qualche variante e un po’ più di finesse, il classico escamotage per mettersi al riparo dalle querele. Non lo è. Lazar centra un aspetto decisivo della cultura pop. La celebrità, di regola, implica una perdita di controllo sulla propria immagine. E, quindi, sul “diritto naturale” alla complessità e al cambiamento. Per diventare famosi bisogna innanzitutto essere, e restare, riconoscibili. E si è tanto più riconoscibili, ovviamente, quanto più si è stabili nei propri caratteri fondamentali.
Sway, sull’asse Beausoleil-Stones-Anger, rimanda a più riprese al tema dell’occulto. Beausoleil finisce nella rete di Charles “Satana” Manson. Anger è un ammiratore, o un seguace, di Aleister Crowley, assiduo cultore della magia (nera). Gli Stones potrebbero essere stati spinti da Anger nella stessa direzione, come starebbe a indicare, tra l’altro, il titolo di un loro celebre album del 1967, Their Satanic Majesties Request. Siamo nella zona più oscura del rock. I sogni di libertà assoluta si attorcigliano su se stessi e si tramutano in incubi. Le comunità hippy si trasformano in sette. I giovani ribelli che hanno rifiutato i falsi dei della società occidentale si sottomettono ai demoni di culti improvvisati.
Ma se in quest’ambito la materia è sfuggente per definizione, basta sostituire la psicologia all’esoterismo e diventa tutto chiarissimo. Consegnarsi a Satana significa anteporre gli inganni dell’esteriorità alle verità della ricerca interiore. Il nuovo patto col diavolo, nei nostri tempi mercificati e inconsistenti, è quello con le sue innumerevoli incarnazioni all’interno dello show-business: il diavolo ti dà il successo e in cambio tu gli dai la tua anima, ovverosia la tua identità. Cosa preferisci? Restare il padrone di te stesso, o trasformarti nell’ennesima figurina «del folclore contemporaneo»?
Lazar è un romanziere vero. In quanto tale, sa bene che qualsiasi storia merita di essere narrata solo se sprigiona una verità che trascende le sorti dei suoi personaggi. Perché sottostare agli obblighi di una biografia, quando si aspira a cogliere qualcosa di universale? Lo abbiamo visto: Beausoleil, i Rolling Stones, Kenneth Anger, sono ormai entità semileggendarie che galleggiano, o sprofondano, nell’immaginario di massa. A forza di averli sotto il naso – cristallizzati nella loro immagine pubblica, che tende di per sé allo stereotipo – l’unica opportunità di metterli a fuoco è raccontarli daccapo. Liberandosi (e liberando loro) dai vincoli delle prove documentali. Chi ce lo rivela, se no, cosa pensava Bobby Beausoleil prima di piegarsi al carisma perverso di Charles Manson? Chi ce la fa percepire fino in fondo la rivalità, dapprima sottile e quasi inconscia, alla fine insanabile, forse addirittura omicida, tra Brian Jones da una parte e Keith Richards/Mick Jagger dall’altra?
Il biografo corretto si ferma ai dati di fatto. O tutt’al più alle ipotesi, indicandole puntualmente come tali. Riconoscendo esplicitamente che su quella particolare questione non ci sono certezze. I diretti interessati non ne hanno voluto parlare. Oppure hanno risposto in modo ambiguo. I testimoni, più o meno indiretti, più o meno attendibili, hanno fatto lo stesso. Oppure sono usciti allo scoperto e hanno affermato cose inequivocabili. Che però, manco a dirlo, sono in contrasto con altre versioni.
Il biografo è uno scout disciplinato che si attiene a ordini precisi: vai, osserva e riferisci. Il romanziere è un esploratore avventuroso che risponde solo a se stesso: vado, immagino e racconto. Il biografo vi dice per filo e per segno dove si trovano le insidie che incontrerete sul vostro cammino. Il romanziere cerca di infondervi il coraggio e l’acume necessari ad affrontare quei pericoli nel modo migliore.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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