Dal Secolo d'Italia di mercoledì 4 febbraio 2009
Nemmeno per un istante è possibile immaginare Giampiero Mughini nello stato d’animo di rimpiangere il giorno in cui lo colse la passione del collezionare. Non – si badi bene – una passione senza oggetto, cieca, ma un amore che risaliva ai suoi anni giovanissimi, trascorsi a Catania, in una città che non adorava poi tanto, da cui lo strano rifugio della lettura, e grazie a essa altri lidi dove approdare ancor prima della partenza per Roma. Il collezionista, si sa, è gravato da molti pregiudizi. Non che le gratuite sentenze degli “equilibrati” non lo sfiorino nemmeno (visto che con la gente ci si convive…). Anzi, diciamola tutta… occorre una santa pazienza per ascoltare chi non può capire! Coloro, ad esempio, che stimano quella certosina attività alla stregua della piccola mania di un uomo confinato nel suo orticello…. Poi sono i medesimi che si affacciano fuori e non vedono oltre la loro punta del naso… Perché è vero l’opposto, che l’anima autentica del collezionista è spinta al fuori più di ogni altra. È quella di un siciliano che fantastica un proprio universo di parole e che vive appieno la Fernweh novecentesca, intraducibile concetto che dobbiamo ai tedeschi e che esprime il contrario della nostalgia (Heimweh), ovvero del provare rimpianto di ciò che non si è ancora conosciuto, letto, visto, posseduto.
E Mughini non ha, nel corso della sua esistenza, messo insieme lattine di birra, bensì prime edizioni di opere letterarie. Questo tesoro se lo è costruito giorno per giorno partendo dal niente – ossia non rilevando una biblioteca di famiglia – e mosso da una curiosità e da un amore furibondi nei confronti di quel che fa di un continente una civiltà e di tanti costumi una sola cultura: il libro. Il collezionista non è perciò colui che raduna materiali in maniera ossessiva e stolta per poi goderne, immo to, tra quattro mura. Se c’è qualcosa che eminentemente lo muove, è semmai il desiderio di edificare un mondo per poi aprirne le finestre agli altri. È la gioia che si riflette negli occhi dei visitatori o degli ospiti che gliene domandano, nulla a che vedere con la vanteria ma con la soddisfazione sincera dell’anfitrione che spieghi all’invitato cosa sia, davvero, una casa. È questo il senso profondo, credo, de La collezione. Un bibliofolle racconta i più bei libri italiani del Novecento (Einaudi, Stile Libero, pp. 282, € 16,00). L’ultimo lavoro di Mughini è forse la sua fatica più generosa. Grazie a essa migliaia e migliaia di lettori verranno accolti nell’interminabile opera di scaffalatura che l’autore, da decenni, va ponendo in essere. Benintesi, ciò non significa che improvvisamente il nostro abbia deciso di divulgare urbi et orbi l’intima natura e ogni segreto della sua bramosia. Lo appunta anzi a mo’ di chiosa e di autoassoluzione: «Chi mi conosce sa che nemmeno morto io parlo di questa mia collezione di libri italiani del Novecento né amo che qualcuno me ne chieda, ammesso che questo qualcuno ci sia. È una faccenda del tutto privata, un onanismo e un feticismo che appartengono solo a me».
Il caso vuole che il volume esca in coincidenza con una data importante per la letteratura e le arti italiane. E Mughini lo celebra a suo modo, il centenario del primo Manifesto Futurista, ricordando come alla vigilia dei suoi quarant’anni ancora non ne conoscesse «una beata acca», di Marinetti e sodali: «Con tinuavo a non saperne per buona parte dei Settanta, al tempo in cui mi ero trasferito a Roma, dove pure abitavo a cinquanta metri dalla casa del professor Mario Verdone, una casa che trabocca di libri e di quadri futuristi… ». E come mai? Mughini non è persona che nasconda la verità dietro al suo dito. Perché «all’università e negli altri luoghi deputati alla cultura ufficiale ce lo avevano detto e ripetuto che i futuristi erano stati dei fascisti totali. E dunque spregevoli dalla testa ai piedi… Cancellati, sepolti, buttati nella monnezza».
Epperò un libero intellettuale lo è tutto di un pezzo, per cui qualche pagina dopo non lesina al leader del Movimento le critiche che merita per un articolo ignobilmente antisemita, nel delirio che da qualche ora lo distanzia dal rovesciamento di Benito Mussolini. E giustamente Mughini si domanda: «Quanti di loro, i futuristi intellettualmente attivi nei ultimi anni ’30 e nei primi ’40 videro in tempo l’abisso in cui stava precipitando il nostro Paese?». Pane al pane e vino al vino. Pane alla limitatezza ideologica dei gauchisti omologati e vino all’indecente collaborazionismo di un’avanguardia divenuta penosamente retrograda. Tranne che per un’eccezione, quella del fascista della prim’ora Giuseppe Pagano Pogatschnig, un architetto che nel 1940 aveva pubblicato Il covo, volume apologetico di grande raffinatezza che solo un bibliofilo avrebbe potuto desiderare quant’altri mai. Ma ancor di più era stato il destino dell’autore a farne apprezzare l’opera. Già, perché dopo il 25 luglio Pagano – che oltre a essere pensante è evidente mente un uomo libero – si persuade del totale sgretolamento della retorica fascista e invece che darsi alla macchia o al trasformismo sceglie di potersi ancora guardare allo specchio ed entra nella Resistenza. Sicchè viene arrestato a Carrara, evade. Lo riprendono a Milano e lo torturano. Finisce a Bolzano e da lassù viene deportato a Mauthausen, dove muore pestato da una canaglia nazi. Tre giorni prima della Liberazione. Ci vuol tanto a capire che la realtà è spesso molto più complessa e intelligente delle astrazioni ideologiche e delle sue false coerenze?
Da dolore a dolore, qual è spesso il sentimento che muove l’invenzione letteraria. Dal campo al manicomio. Dalla fiera disperazione di un ex, braccato dai suoi vecchi sodali, al male che spasimava nel cuore di Dino Campana, nostro immenso Poeta reietto; “Campana Prossimo Mio”, sarebbe da dire parafrasando Pierre Klossowski che a Sade aveva così intitolato un saggio di fulminante bellezza. E dire che questi due giganti (di cultura e affezioni tanto lontane) tra loro resteranno legati da un semplice fiore. E sì, perché l’abitudine sublime del Marchese, di gettare petali di rosa presso lo scolo di una fogna, richiama ai versi amaramente splendidi che Dino dedica alla sua Sibilla e alla loro disillusione amorosa.
Per capirci, il bibliofilo non è tipo che giunga a godere vette di un verso per poi voltar pagina come se niente sia stato. Perché se facesse così, millanterebbe a se stesso. No, il bibliofilo in certi versi ci annega una vita, non li dimentica neanche durante un terremoto, nemmeno in punto di morte… Mai! E figuratevi sino a che punto farà sue la biografia e l’opera di un tale Genio nel sapere, sin da bambino, che il Poeta è nato a Marradi, proprio nello stesso borgo di poche migliaia di anime dov’è venuto alla luce suo Padre. Due lettera maiuscole: il Poeta e il Padre (perché chiunque disprezzi un Padre non potrà mai esser Poeta…). Ebbene in qualche modo, per l’unico che può così intimamente ricordarli, Gino Mughini e Dino Campana rappresentano la stessa persona, l’uno ad attender l’altro nel piccolo cimitero appenninico, e il figlio di entrambi a ripensare a quelle due esistenze, tanto estranee e contigue, con il medesimo amore. E ricopiare, non senza emozione, l’elogio che Antonio Baldini aveva dedicato a Dino e al suo carattere nel settembre del 1916: «Il campanismo significava un monte di cose belle, più la libertà, una festa di cose italiane, più la libertà, una certa ammirazione e soggezione della donna, più la libertà».
E poi c’è molto di più, in questo libro di Mughini. C’è quel che provi nel leggerlo e che è impossibile riferire. C’è quella sorta di comico turbamento che ti coglie quando in una frase riconosci te stesso, o in una certa citazione un attimo fuggito della tua vita. C’è il senso bello di esser testimoni di un testimone, in una staffetta dove già sai che arriveremo ultimi, noi che i libri li abbiamo amati sin da quando eravamo piccini, noi che i libri li abbiamo comprati, perduti e ricomprati, noi che i libri non li prestiamo ma la macchina sì, la macchina... chi se ne frega. Noi che apparteniamo a un’altra epoca e ne andiamo orgogliosi, di quando leggere voleva dire vivere, e una stanza diventava buia solo dopo che un libro era stato terminato.
Giuliano Compagno ha pubblicato 16 volumi, tra saggistica, comica e narrativa, tra cui i romanzi Generazione zero, L'assente, Il sesso è una parola, Memoria di parte sino al più recente Siamo come negozi (Coniglio editore). Ha scritto per il teatro di Giancarlo Cauteruccio. Ha tradotto opere di Bataille, Beckett, Bullough, Jarry, Klossowski. Appartiene al Novecento. La sua richiesta di entrare nel Ventunesimo secolo è stata respinta. Non ha presentato ricorso.
1 commento:
Molto bella e calzante questa recensione al libro di Mughini: sono un appunto: la foto di Campana giovane liceale a Faenza è falsa, appartiene a tale Filippo Tramonti
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