martedì 31 marzo 2009

"Caso Povia": gay a caccia di streghe (di Federico Zamboni)

Rivendicano la massima libertà sessuale, ma davanti a una canzone sgradita gridano allo scandalo. Se non proprio alla censura
Articolo di Federico Zamboni
Dal mensile La Voce del Ribelle di marzo 2009
Corto circuito: la minoranza gay scambia una canzoncina mediocre per un messaggio alla nazione – che avrebbe il potere, una volta lanciato dall’autorevolissimo palcoscenico di Sanremo, di rinfocolare gli antichi pregiudizi nei confronti degli omosessuali – e si comporta come la più integralista delle maggioranze. Anzi: non aspetta nemmeno di aver ascoltato la canzone. Si accontenta del titolo. Giusto il tempo di apprendere la fatale successione di quelle tre parole, Luca era gay, e la sentenza è già scritta. Nessun dubbio: l’uso dell’imperfetto implica che il suddetto Luca non è più gay. E questo, va da sé, implica a sua volta l’intenzione dell’autore di far capire che l’omosessualità non è una condizione naturale e perpetua, bensì una malattia. Un’alterazione psichica dalla quale si può guarire. Come guarisce, appunto, il protagonista del pezzo.
Tra i primissimi a scatenarsi, già a dicembre, c’è l’Arcigay. Il cui presidente, Aurelio Mancuso, si lancia in un vero e proprio anatema, pubblicato sui quotidiani il giorno 23: «Se Bonolis e il suo direttore musicale, intendono mandare in scena uno spottone clerical reazionario contro la dignità delle persone omosessuali, sappiano fin d'ora che la nostra reazione sarà durissima, rumorosa e organizzata. Siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione, ma altra cosa è avallare posizioni omofobe, che tra l'altro alimentano odio e pregiudizio nei confronti delle persone gay e lesbiche».
Ci si potrebbe fermare già qui, perché la chiave di volta è tutta in quest’ultima frase: “siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione, ma altra cosa è avallare posizioni omofobe”. Omofobe? Intanto, come abbiamo già detto, a dicembre si conosceva soltanto il titolo e il resto, quindi, erano solo ipotesi in attesa di verifica. Ma quand’anche fosse stato realmente così, quand’anche la canzone avesse voluto rappresentare l’omosessualità in maniera diversa da ciò che ne pensa Mancuso (e l’Arcigay), non c’erano comunque gli estremi per considerarla talmente aggressiva e prevenuta da risultare discriminatoria.
Esistono o non esistono persone che prima vivono una parte della loro vita da eterosessuali, arrivando a sposarsi e a generare dei figli, e poi mutano orientamento solo in seguito, quando magari sono già in età adulta o addirittura anziana? Certo che esistono. Quale che sia l’interpretazione che se ne vuole dare – dal riconoscimento tardivo di un’omosessualità originaria a quella di un cambiamento sopravvenuto col tempo – accade e tant’è. Non si vede, allora, perché non possa accadere il contrario. Dapprima si è, o ci si ritiene, gay, e successivamente si rielabora la propria identità in altri termini.
E i bisessuali? E i transgender? E le ben note teorie per le quali ognuno di noi è un miscuglio di elementi maschili e femminili, nelle più variegate combinazioni e in perenne divenire? Chi difende a spada tratta la libertà sessuale, come l’Arcigay e altre associazioni consimili, non dovrebbe battere ciglio davanti a un qualsivoglia Luca che prima era gay e adesso no e domani chissà.

Evviva evviva la “libera espressione”
A essere ottimisti, o ingenui, si poteva pensare che la querelle si sarebbe spenta, o almeno stemperata, una volta che si fosse conosciuto il testo completo. Nemmeno per sogno. Ancora il 16 febbraio, sulle colonne di Sorrisi e canzoni Tv, l’ex parlamentare Ds e presidente onorario della stessa Arcigay, Franco Grillini, analizzava le parole di Povia con toni a metà strada tra il disprezzo e l’indignazione. Prima una rapida sintesi: il brano «ci racconta di una infanzia senza padre e con madre dominante (in Italia sono un milione e centomila) “colpevole” di non aver saputo tirar su un figlio etero. Da questa situazione, secondo Povia, un maschio non può che diventare gay e cadere tra le braccia del porco profittatore di turno molto più grande di lui che si sostituisce alla figura paterna facendone le veci». Poi la stroncatura: «Chi scrive è psicologo ed ha avuto una infanzia esattamente opposta a quella descritta da Povia: padre molto presente madre un po’ meno, come la mettiamo? E come me tantissimi altri. Moltissimi eterosessuali hanno avuto la madre presente e il padre assente. Si sa che molti genitori maschi preferiscono fare altro e delegano alla moglie il compito di accudire i figli. L’orientamento sessuale non dipende quindi dal tipo di educazione e nemmeno dalla presenza o meno di uno dei due genitori. A un certo punto della vita ti accorgi di essere gay e l’unica possibilità di scelta è quella di vivere bene con la propria identità». Insomma: poiché non è vero che tutti quelli che crescono nelle medesime condizioni di Luca diventano gay, la canzone è inattendibile. Anzi: deprecabile. Anzi: impresentabile, specie in quel calderone banalotto ma seguitissimo che è Sanremo.
Quello che sfugge a Grillini, e a Mancuso, e a chiunque altro si sia accodato alla crociata anti Povia, è che una canzone è una canzone. Non una teoria scientifica. Al pari di qualsiasi opera d’arte – o presunta tale – una canzone che parla di una singola storia non può essere attaccata come se esprimesse conclusioni di carattere generale. Le circostanze che vengono riferite ai personaggi non fissano automaticamente degli archetipi.
Non è che Taxi Driver, siccome il protagonista si trasforma in un giustiziere psicotico, postula una correlazione oggettiva tra il guidare i taxi di notte, sia pure nella sola New York ed essendo reduci del Vietnam, e le turbe psichiche di Travis Bickle. E non è neppure, per fare un esempio legato alla sessualità, che Lolita pretenda di affermare che qualsiasi patrigno alle prese con una giovanissima figliastra attraente e maliziosa si trasformerà senza scampo in un novello Humbert Humbert.
I racconti non sono parabole. Sono finzioni in cui qualcuno si ritroverà, in tutto o in parte, e qualcun altro no. Assumere i contenuti di ogni singola narrazione alla stregua di tesi fatte e finite, non è soltanto un gravissimo errore di prospettiva. È, che lo si riconosca oppure no, lo stesso atteggiamento che ha portato questo o quel potere, più o meno ottuso, più o meno autoritario, a mettere all’indice gli artisti e le opere che non si allineavano ai loro convincimenti e ai loro dettami. Aurelio Mancuso che definisce «omofoba» la canzone di Povia mira a liquidare una sensibilità diversa dalla sua tramutandola in un atto immorale e offensivo, che si vorrebbe far rientrare tra i casi di discriminazione sanzionati dalla Legge Mancino. Ma quando si ricorre all’etica o alle leggi, per rintuzzare le posizioni altrui, si ragiona da censori. Con l’aggravante dell’ipocrisia se poi, un attimo prima di agitare lo spauracchio dello scandalo o del codice penale, ci si affretta a sottolineare che «siamo i primi a combattere per il diritto alla libera espressione».
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il testo della canzone di povia va ad infilarsi nel solco di una vecchia psicanalisi (oggi dai professionisti superata) che è molto diffusa tra le idee della gente. Se è vero che guardare taxi driver non fa diventare psicopatici e non fa creare correlazioni tra la gente normale tra i tassinari e gli psicopatici è anche pur vero che una canzone che si rifà in toto a una stereotipo ben presente nella popolazione lo rinverdisce. Non si possono fare analisi astratte senza considerare la realtà italiana ancora intrisa di pregiudizi sulle persone omosessuali; questa canzone ha di fatto rinsaldato le false convinzione negli stati più ignoranti o pieni dipregiudizio della società

Federico Zamboni ha detto...

Analisi astratte? Delle due, l'una: o si è per una piena libertà di espressione, innanzitutto in ambito artistico, oppure si è per un controllo preventivo di ciò che i cittadini possono o non possono leggere-guardare-ascoltare. A sentir loro i censori intervengono sempre a tutela delle persone meno mature, che vanno "difese" da tutto ciò che le potrebbe turbare e confondere. La cosa stranza (anzi, assurda) è che la crociata arrivi da parte dei leader gay, che per se stessi e per gli altri omosessuali rivendicano la massima libertà di pensiero e di comportamento, ma poi invocano l'estromissione di Povia dal Festival di Sanremo. E forse, chissà, anche dall'intero panorama musicale, con un divieto assoluto di stampa e di pubblica esecuzione. Il senso del pezzo è tutto qui: chi di censura ferisce, di censura perisce. O merita di perire. La libertà "double face" - che si espande a dismisura quando fa comodo e si restringe, fino a scomparire, quando qualcosa dà fastidio - è illogica per un verso e ipocrita per l'altro.
PS E se gli "anonimi" si firmassero sarebbe meglio.