Dal Secolo d'Italia di giovedì 12 marzo 2009
Sono pronti a saltargli alla gola. Metaforicamente, s’intende. Non i vampiri, con i quali, essendo un autore di punta di Dylan Dog, ha una certa familiarità. Roberto Recchioni – romano del 1974, scrittore di una versatilità esplosiva – deve temere solo gli zombie. E non parliamo di quelli resi celebri dal cult movie di George A. Romero del ’68. Su di loro, e discendenza, ha pubblicato un vero e proprio trattato: La figura degli zombie nel mondo dei videogiochi. Deve guardarsi, piuttosto, dai morti viventi del politicamente corretto. «Una dittatura culturale al pari delle altre», la definisce. Lo aspettano al varco. Sì, perché dall’estate manderà in libreria, per le edizioni Panini, il primo di una serie di quattro albi (in formato comic book a colori) ispirata alle Cronache del Mondo Emerso di Licia Troisi. Fantasy per young adults, ovvero rivolta a un pubblico più giovane. Spazzatura, per i custodi della letteratura “quattro camere e un tinello”. Furbo sfruttamento di un marchio commerciale, già ringhiano i radical chic. Senza sottovalutare – di contro – le aspettative degli appassionati della saga. L’esercito di un milione di lettori (di copie vendute) che la giovane scrittrice-astrofisica romana, nel breve arco di un lustro, ha radunato nella “terra del vento” attorno alle sue storie di cappa, draghi ed elfi, conquistando diciassette paesi.
«In Italia non c’è peggior delitto che avere successo – ci dice Recchioni – e invece le opere di Licia sono vitali, trascinanti per chi ama la narrativa con forti elementi fantastici, un ottimo fantasy di intrattenimento, ideale per farne un buon fumetto». Eccola, la parolaccia: intrattenimento. «Nei paesi culturalmente non marchiati a fuoco dalle riflessioni sant’agostiniane, “divertiti fino a una certa età, poi pentiti e vai oltre”, – sostiene con la passione di chi è cresciuto a pane, Frank Miller e videogames e non ha nessuna voglia di pentirsene – l’intrattenimento non è liquidato come qualcosa da demonizzare o da confinare alla sfera infantile ma è considerato un diritto inalienabile dell’uomo. In Inghilterra e in America meno soldi girano e più fumetti si vendono. L’intrattenimento può rappresentare un’arma in più per uscire dalla crisi». Guida ballerino! commenterebbe l’indagatore dell’incubo.
«Basti pensare – incalza Recchioni – agli Stati Uniti: durante la grande crisi del ’29 il fumetto viveva l'età dell’oro. Nei primi anni Ottanta, in piena crisi energetica, la Marvel vendeva tonnellate di copie di albi di Spiderman e altri super-eroi. Nel decennio successivo, i comics a stelle e strisce toccavano l’apice con i sette milioni di copie vendute in un solo colpo dagli X-Men di Jim Lee».
Al di là del pianto greco degli addetti ai lavori e malgrado le diffidenze del mondo culturale “ufficiale” – sostiene – il fumetto popolare non se la passa malissimo neanche da noi. «Il venduto di Witch è stratosferico – fa notare – e se la Disney riesce a vendere bene le sue streghette significa che il mercato c’è e siamo noi, semmai, a non conoscere più il nostro pubblico e ad avere la pretesa di fare fumetti che piacciono solo a chi li scrive o agli editori». La via d’uscita dalla crisi – del fumetto, almeno – è nella contaminazione dei generi, pescando in quel grande patrimonio di idee e suggestioni che è rappresentato dalla cultura pop. Recchioni – da quindici anni sulla piazza, all’attivo esperienze nelle maggiori testate “fumettistiche” che gli sono valse la stima di tutti (Sergio Bonelli l’ha promosso come «vulcanico e brillante») – lo fa con risultati eccellenti. Confrontandosi con personaggi "istituzionali" come Diabolik – «una scuola, una disciplina marziale e una cura spartana per il mio ego, perché lì sono invisibile» – e sperimentando un linguaggio originale e moderno nelle sue storie.
«Basti pensare – incalza Recchioni – agli Stati Uniti: durante la grande crisi del ’29 il fumetto viveva l'età dell’oro. Nei primi anni Ottanta, in piena crisi energetica, la Marvel vendeva tonnellate di copie di albi di Spiderman e altri super-eroi. Nel decennio successivo, i comics a stelle e strisce toccavano l’apice con i sette milioni di copie vendute in un solo colpo dagli X-Men di Jim Lee».
Al di là del pianto greco degli addetti ai lavori e malgrado le diffidenze del mondo culturale “ufficiale” – sostiene – il fumetto popolare non se la passa malissimo neanche da noi. «Il venduto di Witch è stratosferico – fa notare – e se la Disney riesce a vendere bene le sue streghette significa che il mercato c’è e siamo noi, semmai, a non conoscere più il nostro pubblico e ad avere la pretesa di fare fumetti che piacciono solo a chi li scrive o agli editori». La via d’uscita dalla crisi – del fumetto, almeno – è nella contaminazione dei generi, pescando in quel grande patrimonio di idee e suggestioni che è rappresentato dalla cultura pop. Recchioni – da quindici anni sulla piazza, all’attivo esperienze nelle maggiori testate “fumettistiche” che gli sono valse la stima di tutti (Sergio Bonelli l’ha promosso come «vulcanico e brillante») – lo fa con risultati eccellenti. Confrontandosi con personaggi "istituzionali" come Diabolik – «una scuola, una disciplina marziale e una cura spartana per il mio ego, perché lì sono invisibile» – e sperimentando un linguaggio originale e moderno nelle sue storie.
«Dove posso far sentire la mia voce». Come nella miniserie David Murphy 911 (Panini Comics) – di cui in questi giorni è in edicola il quarto e ultimo numero (Armi di distruzione di massa) – un fumetto che fa suo un certo tipo di narrazione televisiva “adrenalinica”, a metà strada tra due serie cult: Alias, caratterizzata dai continui colpi di scena, e 24, il cui protagonista, Jack Bauer / Kiefer Sutherland, dà le proprie sembianze a David Murphy, il pompiere ausiliario della contea di Roxanne creato da Recchioni. Che spiega: «La somiglianza tra David Murphy e Jack Bauer è prettamente estetica perchè Jack è un samurai al servizio di un ideale di stato, mentre David è un eroe per caso, un po’ come il John McLane interpretato da Bruce Willis in Die Hard. Non cerca la giustizia ma non ama i soprusi, non è a caccia di gloria e non vuole salvare il mondo. Ma quando il mondo ha bisogno di essere salvato, lui c’è».
La risposta del pubblico è stata più che soddisfacente e l’editore ha già sollecitato l’autore a scrivere nuove storie del vigile del fuoco "made in Panini". Intendiamoci, non che gli mancasse il lavoro: dalle collaborazioni a riviste di ogni genere e latitudine - compresa «GamePro, edizione italiana di Edge, la rivista più snob dei videogiochi, anzi: della cultura videoludica» - all'attività di pendolare delle nuvole parlanti. Dal 16 al 20 marzo terrà lezioni a Milano in occasione del laboratorio organizzato dalla Scuola del fumetto e il 9 maggio sarà a Piacenza, ospite della quinta edizione di Fullcomics, la fiera nazionale del fumetto, dell'illustrazione e dell'animazione. Ultimamente, poi, s’è messo anche in testa di farsi romanziere. Dopo il successo di Ucciderò ancora Billy the Kid (grapich novel che strizza l’occhio a Joe Lansdale e Cormac McCarthy, recentemente "esportata" in Francia, con gli zombie, ancora loro, spediti in un surreale western) e l’esordio con un racconto breve nell’antologia collettanea Bugs, entro la fine dell’anno pubblicherà il suo primo romanzo, Al sangue.
E in attesa di realizzare il suo sogno - «sceneggiare Tex!» - c’è da portare avanti John Doe (Editoriale Eura), la collana creata nel 2003 con Lorenzo Bartoli e arrivata al numero 70. Una serie innovativa e con un protagonista d'eccezione: la morte. Colui che dà il nome alla collana ne era il braccio destro e il direttore (ex) della Trapassati inc., un’azienda, ammesso e non concesso che si possa definire tale, che si occupa dell’ultimo viaggio degli umani. «John Doe è la classica incarnazione di un certo edonismo rampante, un manipolatore, un individualista, un bugiardo, un uomo alla perenne ricerca della sua soddisfazione personale. È convinto che sia l’individuo e non lo stato o la società a fare la differenza ed è un fervido sostenitore del culto della personalità. Ha pure un solida deontologia professionale, però, cosa che lo salva dall’essere un completo bastardo. Se dovessimo accostarlo a un personaggio della politica italiana, penserei a Massimo D’Alema».
Già, Recchioni non è di sinistra, una presa d’atto che – come ci ha raccontato tra una risata e l’altra – ha provocato «il dolore di mia madre» e gli ha restituito più di qualche antipatia.
La risposta del pubblico è stata più che soddisfacente e l’editore ha già sollecitato l’autore a scrivere nuove storie del vigile del fuoco "made in Panini". Intendiamoci, non che gli mancasse il lavoro: dalle collaborazioni a riviste di ogni genere e latitudine - compresa «GamePro, edizione italiana di Edge, la rivista più snob dei videogiochi, anzi: della cultura videoludica» - all'attività di pendolare delle nuvole parlanti. Dal 16 al 20 marzo terrà lezioni a Milano in occasione del laboratorio organizzato dalla Scuola del fumetto e il 9 maggio sarà a Piacenza, ospite della quinta edizione di Fullcomics, la fiera nazionale del fumetto, dell'illustrazione e dell'animazione. Ultimamente, poi, s’è messo anche in testa di farsi romanziere. Dopo il successo di Ucciderò ancora Billy the Kid (grapich novel che strizza l’occhio a Joe Lansdale e Cormac McCarthy, recentemente "esportata" in Francia, con gli zombie, ancora loro, spediti in un surreale western) e l’esordio con un racconto breve nell’antologia collettanea Bugs, entro la fine dell’anno pubblicherà il suo primo romanzo, Al sangue.
E in attesa di realizzare il suo sogno - «sceneggiare Tex!» - c’è da portare avanti John Doe (Editoriale Eura), la collana creata nel 2003 con Lorenzo Bartoli e arrivata al numero 70. Una serie innovativa e con un protagonista d'eccezione: la morte. Colui che dà il nome alla collana ne era il braccio destro e il direttore (ex) della Trapassati inc., un’azienda, ammesso e non concesso che si possa definire tale, che si occupa dell’ultimo viaggio degli umani. «John Doe è la classica incarnazione di un certo edonismo rampante, un manipolatore, un individualista, un bugiardo, un uomo alla perenne ricerca della sua soddisfazione personale. È convinto che sia l’individuo e non lo stato o la società a fare la differenza ed è un fervido sostenitore del culto della personalità. Ha pure un solida deontologia professionale, però, cosa che lo salva dall’essere un completo bastardo. Se dovessimo accostarlo a un personaggio della politica italiana, penserei a Massimo D’Alema».
Già, Recchioni non è di sinistra, una presa d’atto che – come ci ha raccontato tra una risata e l’altra – ha provocato «il dolore di mia madre» e gli ha restituito più di qualche antipatia.
Sul suo profilo facebookiano si definisce «nichilista speranzoso e fascista zen». Definizioni che spiega nel suo visitatissimo blog "Dalla parte di Asso Merrill": «Sono un fascista zen, la definizione non è mia ma di John Milius, (il cienasta destrorso di Un mercoledì da leoni e Addio al Re, ndr). Ma non ci posso fare niente. Guardando i miei filosofi, scrittori e registi preferiti, e i fumettari anche, ho capito che non sono di sinistra. Non solo di quella che gira oggi ma neanche di quella che girava prima della caduta del muro di Berlino. Di contro non mi identifico manco con quella destra in doppiopetto o con i movimenti pseudo liberali all’italiana». Semmai, si qualifica come un libertario che oggi confessa che sui diritti civili «l’unico a dire cose decenti è Gianfranco Fini, perché ha il coraggio del dubbio e non dà vecchie risposte ideologiche, io direi le stesse cose».
Recentemente ha anche scritto sul suo blog che il centro sociale di destra della zona dove vive – l’Appio-Tuscolano – «è un posto produttivo, ordinato e utile per il quartiere mentre i tanti centri sociali di sinistra che ho frequentato io hanno abbandonato il territorio e sono diventati o pseudolocali fighetti o barricate di resistenza urbana, odiati dal circondario e vissuti come un organo alieno e insediato coattamente nel tessuto urbano». Per poi concludere: «Se io fossi un ragazzino di oggi e nascessi nel quartiere dove vivo... probabilmente, davanti alle due realtà che mi si prospettano, sceglierei la destra sociale». Ne sono seguite polemiche a non finire, cui "rrobe" - come si firma nei vari forum che frequenta - ha ribattutto colpo su colpo, rivendicando fino in fondo il suo diritto a prendere posizione sempre, anche a costo di perdere qualche lettore...
1 commento:
quello che stavo cercando, grazie
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