Articolo di Francesco Lo Dico
Da Liberal dell'11 marzo 2009
Da Liberal dell'11 marzo 2009
Visse cinquantasei anni, due dopoguerra, e un ventennio di pellicole sublimi. Tormentato, come solo chi teme di essere annientato dal fragore di una bomba, affidò al cinema il suo corpo di superstite. E invece, passate le guerre, la vita di Valerio Zurlini fu inghiottita dall’oblio.
A distanza di ventisette anni dalla sua morte, torna a luccicare la sua memoria nella rassegna Immagini perdute. Il cinema di Valerio Zurlini. Voluta dall’Assessorato alla Cultura di Parma, in collaborazione con quel Centro Sperimentale di Cinematografia in cui il maestro bolognese insegnò per anni, e Cinecittà Holding, la retrospettiva conta sei serate. Sette lungometraggi e due cortometraggi fino al 6 aprile.
A scorrere i titoli proposti, da La ragazza con la valigia a La prima notte di quiete, la rabbia non può che ribollire. Perché Zurlini è stato dimenticato? Innanzitutto perché, sin dal suo esordio nel lungo, spiazzò. Era il 1954, e Le ragazze di San Frediano divise la critica. Ciò che fu subito chiaro a tutti, al tempo in cui il neorealismo rosselliniano aveva virato sul rosa, fu che Zurlini non era regista di facili accomodamenti. Mancava in lui lo scarto salace di un Dino Risi, l’invenzione che strappava la risata, il frizzo beffardo che insegnava l’arte di arrangiarsi. Molti gli rimproverarono il vezzo calligrafico. Giuseppe Marotta lo invitò a dimenticarsi dei suoi trascorsi da documentarista. Troppa realtà per alcuni, troppa contemplazione per altri.
Zurlini era artista di ossimori. Ateo di possente religione, comunista senza vocazione, schivo negli amori ma incantato dal melodramma. Come in Estate violenta (1959), dove un altro esule del cinema italiano, Enrico Maria Salerno, dà vita insieme a Jean Louis Trintignant ed Eleonora Rossi Drago, al racconto di quell’afa bruciante che si portò via Mussolini nel ’43. Gioventù in fuga dal dramma, che insegue la gioia nel suono di un magnetofono e scopre il dolore della guerra. Gian Luigi Rondi riconosce a Zurlini finezza psicologica. Ma l’equivoco neorealista, ancora forte, la fa apparire una pellicola riuscita a metà. Nessuno aveva raccontato la guerra come una canzone interrotta sul più bello. Acquartierato nella malinconia, poco addentro a quella Roma di via Veneto che sarebbe stata l’Italia a venire, il cineasta bolognese sembra mancare di fiuto per le cose di quel tempo. Ma nel 1961, con La ragazza con la valigia, Zurlini fa man bassa di elogi. La critica parla di ”poema in prosa”. Un film perfetto per almeno tre quarti. La Cardinale e Perrin fanno ingresso nell’immaginario.
L’anno successivo arriva la consacrazione. Cronaca familiare vince il Leone d’oro a Venezia e Tullio Kezich scrive, complici Marcello Mastroianni e Jacques Perrin in stato di grazia, che il film ha una costante sensazione di verità. Scavo nella perdita. Amore fraterno. Vedovanza di spirito. Zurlini silenzia il facile pathos e inonda tutto di una serena contemplazione. La stessa lucidità che affiora ne Le soldatesse (1965). Dopo averlo visto, lo stesso Kezich afferma che «Zurlini sta alla guerra come Fitzgerald all’età del jazz». Nella storia dell’ufficiale che scorta un nugolo di prostitute, si approfondisce l’indagine del trauma bellico. Rapporti umani inceneriti, che covano amore. Per molti cartolinesco, per altri violento. Ancora l’ossimoro Zurlini. Vulnerabile ma austero. Candido ma polemico. Di pace inseguita, tra le macerie dell’esistenza, parla anche La prima notte di quiete (1972). «Un amore finito è come una bottiglia di champagne vuota», esclama il professor Daniele Dominici. Alain Delon arranca in una Rimini mai vista, scossa dall’inverno. Provincia fantasma di un’Italia marcita dopo il boom. Dal sole al crepuscolo. L’eterno crepuscolo de Il deserto dei Tartari (1976).
È il congedo di Valerio Zurlini, e un capolavoro assoluto del cinema italiano. Irriducibile a nessun tempo come la grande letteratura, è film che non ha pari nel mettere in scena l’infinito. Disperazione della speranza. Speranza della disperazione. Il cinema di Zurlini è tutto qui. Dimenticato perché fuori tempo, fuori spazio, fuori luogo. Proprio come la Fortezza Bastiani. A ventisette dalla sua scomparsa, dal cinema e dalla vita, ci piace immaginarlo ancora lì. Immobile, in piedi, come il tenente Drogo. Lo sguardo nel vento a scrutare quelle ombre che molti, prima di lui, non ebbero il coraggio di vedere.
Francesco Lo Dico è nato a Palermo nel 1979, sceneggiatore, scrittore e giornalista, scrive per Liberal.
I suoi articoli sono disponibili sul suo blog. Per visitarlo clicca sull'indirizzo che segue: http://www.francescolodico79.blogspot.com/
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