Dal Secolo d'Italia di venerdì 28 novembre 2008
Era solo questione di tempo: gli Ussari sono tornati. Arrivano ancora una volta d’oltralpe, sciabola alla mano. No, nessuna minaccia per i nostri confini. L’agone era e rimane quello letterario. E le librerie saranno il loro cavallo di Troia per ravvivare un mondo culturale anestetizzato dal consumismo. Parliamo di un libro in particolare, Nada exist, atteso nella traduzione italiana (Castelvecchi, pp. 400, € 18,50) a fine anno. L’autore, Simon Liberati, alla sua seconda prova dopo l’esordio quattro anni fa con Antologie des apparitions, è stato salutato dalla critica francese – con un misto di ammirazione e allarmata diffidenza – come «l’erede di Roger Nimier e dei suoi Ussari» per la sua capacità di declinare al presente l’universo postmoderno di Bret Easton Ellis (e dei suoi personaggi alla deriva in un Occidente incamminato trionfalmente verso la decadenza) con la rivolta libertaria degli Ussari delle lettere francesi nel secondo dopoguerra del Novecento.
E così Liberati, parigino nato nel 1960, dalla formazione letteraria pura (ha studiato Letteratura Latina alla Sorbona) e con alle spalle una lunga esperienza di redattore di moda, si ritrova a raccogliere il testimone di una delle più spumeggianti e provocatorie “scuole letterarie” (e di vita) del secolo scorso. Gli Ussari, per l’appunto: per via dello stile, combattivo e austero nello stesso tempo, quasi “militare”. Giovani intellettuali come Antoine Blondin, Michel Déon, Jacques Laurent, François Nourissier e, naturalmente, Roger Nimier, tutti indifferenti alle “lezioni” della storia e indisponibili a mettere il loro talento al servizio delle ideologie, che si schierarono a viso aperto contro l’establishment culturale dell’epoca - costituito da sartriani, stalinisti e dal giornale-partito Le Monde - e arroccato attorno alla mistica della superiorità etico-morale della sinistra. Scrittori di una destra immaginifica che non volevano più saperne della nuova politica. «Perché tutto è perduto. Stattene tranquillo», raccomandava Paul Morand all’irruento e ribelle Roger Nimier. Orfani di un certo fascismo come in Italia saranno i Missiroli, i Longanesi, gli Ansaldo, i Montanelli: a disagio in una simulazione di democrazia in cui i gerarchi di ieri si improvvisano anche quelli del dopo.
Liberati, da parte sua, non smentisce né conferma, preferisce affidarsi alla parola scritta. «Ho voluto fare un romanzo di cavalleria con una morale scortese: Patrice è il cavaliere, l’Aston Martin è il cavallo». La passione per le auto di grande cilindrata è soltanto uno dei tanti fili che legarono gli Ussari con i “grognards”, i veterani, i confrères collabos, quei grandi scrittori epurati – Jean Giono, Marcel Aymé, Marcel Jouhandeau, Jacques Chardonne, Louis Ferdinand Céline e altri ancora – che Nimier, nella veste di direttore editoriale di Gallimard, si impegnò a rimettere in sella per restituire loro il giusto rango letterario. Sempre Morand, al riguardo, aveva messo in guardia il giovane Nimier, che amava girare con la capote abbassata anche in pieno inverno: «Ti rimprovereranno la Jaguar per tutta la vita. Dimenticheranno perfino la tua bellezza e il tuo talento, ma la Jaguar mai».
Come non perdoneranno Patrice che, come tutti gli Ussari, è un borghese che si colloca politicamente e, soprattutto, esteticamente a destra. Di una borghesia che, per rimanere fedele a se stessa, si rifiuta. «Sa per esperienza che la Aston Martin aveva il difetto di attirare l’antipatia degli invidiosi – scrive Liberati – non era raro che ci sputassero sopra o ne prendessero a calci le portiere». Non che Patrice faccia molto per cercare la benevolenza del lettore.
E così Liberati, parigino nato nel 1960, dalla formazione letteraria pura (ha studiato Letteratura Latina alla Sorbona) e con alle spalle una lunga esperienza di redattore di moda, si ritrova a raccogliere il testimone di una delle più spumeggianti e provocatorie “scuole letterarie” (e di vita) del secolo scorso. Gli Ussari, per l’appunto: per via dello stile, combattivo e austero nello stesso tempo, quasi “militare”. Giovani intellettuali come Antoine Blondin, Michel Déon, Jacques Laurent, François Nourissier e, naturalmente, Roger Nimier, tutti indifferenti alle “lezioni” della storia e indisponibili a mettere il loro talento al servizio delle ideologie, che si schierarono a viso aperto contro l’establishment culturale dell’epoca - costituito da sartriani, stalinisti e dal giornale-partito Le Monde - e arroccato attorno alla mistica della superiorità etico-morale della sinistra. Scrittori di una destra immaginifica che non volevano più saperne della nuova politica. «Perché tutto è perduto. Stattene tranquillo», raccomandava Paul Morand all’irruento e ribelle Roger Nimier. Orfani di un certo fascismo come in Italia saranno i Missiroli, i Longanesi, gli Ansaldo, i Montanelli: a disagio in una simulazione di democrazia in cui i gerarchi di ieri si improvvisano anche quelli del dopo.
Liberati, da parte sua, non smentisce né conferma, preferisce affidarsi alla parola scritta. «Ho voluto fare un romanzo di cavalleria con una morale scortese: Patrice è il cavaliere, l’Aston Martin è il cavallo». La passione per le auto di grande cilindrata è soltanto uno dei tanti fili che legarono gli Ussari con i “grognards”, i veterani, i confrères collabos, quei grandi scrittori epurati – Jean Giono, Marcel Aymé, Marcel Jouhandeau, Jacques Chardonne, Louis Ferdinand Céline e altri ancora – che Nimier, nella veste di direttore editoriale di Gallimard, si impegnò a rimettere in sella per restituire loro il giusto rango letterario. Sempre Morand, al riguardo, aveva messo in guardia il giovane Nimier, che amava girare con la capote abbassata anche in pieno inverno: «Ti rimprovereranno la Jaguar per tutta la vita. Dimenticheranno perfino la tua bellezza e il tuo talento, ma la Jaguar mai».
Come non perdoneranno Patrice che, come tutti gli Ussari, è un borghese che si colloca politicamente e, soprattutto, esteticamente a destra. Di una borghesia che, per rimanere fedele a se stessa, si rifiuta. «Sa per esperienza che la Aston Martin aveva il difetto di attirare l’antipatia degli invidiosi – scrive Liberati – non era raro che ci sputassero sopra o ne prendessero a calci le portiere». Non che Patrice faccia molto per cercare la benevolenza del lettore.
Già dalla presentazione in terza persona: «Vecchio fascio, come si diceva quando era giovane, a poco a poco si era lasciato convertire a un’apoliticità che ben si addiceva al commercio artistico. Da molto tempo non aveva più opinioni politiche definite e, in ogni caso, conosceva a sufficienza il suo ambiente per evitare di sposarne di simili. A dire il vero, la sua moderazione non era soltanto opportunismo, era legata alla noia che provava nel sentire ripetere le stesse invettive sin dall’infanzia. Tutto il folklore estremista gli sembrava puerile e non ne poteva più di certi ritornelli, gli facevano venire voglia di scappare».
E in un 23 dicembre del 2006 – il racconto si concentra in poche ore, spezzato com’è da flashback, allucinazioni alternate a riflessioni sull’arte, sul sesso e sulla vita – Patrice fugge da se stesso. Da ciò che era stato nel recente passato: un fotografo pubblicitario di Vogue «da diecimila euro al giorno, regista dei video di Madonna e Paula Abdul». E da ciò che è diventato: un uomo che «non ha voglia di niente e di nessuno. Non ha desideri, ma ancora meno ha il coraggio di restare lì». Il suo è un “viaggio al termine della notte”, una discesa negli inferi di una quotidianità in cui la realtà e la finzione, il sogno e l’incubo, il bene e il male, si confondono. Ha perso il sentiero. Cerca “la prima notte di quiete”, proprio come Alain Delon nel film di Zurlini (1972), una pellicola di rara bellezza. L’attore francese è magistrale nel ruolo del tenebroso Daniele Dominici, un professore di letteratura che nasconde il suo passato di eroe di guerra cercando di spazzare via la delusione per i sogni traditi e la consapevolezza del niente che avvelenano il suo cuore. Quello che insegue, in fondo, è solo la prima notte di quiete, ovvero la morte.
Pur avendo qualcosa di “malato”, Patrice è uno di quei personaggi dei quali è impossibile non subire il fascino. Drieu La Rochelle l’avrebbe amato, altrimenti lo avrebbe creato. Patrice è “l’homme couvert de femmes” diviso tra una compagna che è stata la donna più bella e potente di Parigi e ora, malata terminale, è sprezzantemente liquidata come «una gallina vecchia che fa buon brodo» e un’amante giovane, spregiudicata e cocainomane. «Se mente continuamente – lo tratteggia Liberati – mente poco a se stesso ed è grazie alla confessione della sua debolezza che è tanto stranamente amato dalle donne. Tutto ciò che contrassegna un difetto di temperamento, lo salva dalle volgarità. Per lui esistere è una crudeltà elegante. Persino la sua vigliaccheria diventa stile». Quarantanove anni, «una barbetta mal rasata sul bel viso che gli era valso tutti i suoi successi», Patrice indossa pantaloni di pelle, porta gli occhiali da sole anche quando il cielo è coperto, vive in un castello dell’hinterland parigino e sperpera milioni di vecchi franchi per mantenere costosi relitti di auto sportive. In tasca ha sempre un taccuino moleskine di quelli usati da Hemingway e Chatwin. E coltiva nuovi piaceri: «più elevati, più imbottiti, più feroci di quelli dell’adolescenza».
Come il protagonista di Fuoco Fatuo, per il quale Drieu si ispirò all’amico suicida Jacques Rigaut, Patrice è un drogato che non riesce più a disintossicarsi e forse non lo vuole davvero. «Sono stanco, voglio morire…», afferma nell’incipit. Esercita il diritto a non essere interessato al mondo. Insofferente verso tutto e tutti e con una gran voglia di sprofondare nel niente. La droga avrebbe dovuto «salvarlo dall’avvelenamento della quotidianità, dalla ripetizione che costituisce una reputazione che si fa per sé più che per gli altri» e invece l’ha condotto in una strada senza uscita: «Aveva occupato un posto che altri, pieni di energia e di astio non avrebbero mai ottenuto. E poi aveva rovinato tutto, nello stesso modo in cui perdeva i soldi, i documenti e, in genere, tutto ciò che possedeva». Ha dilapidato il suo talento e ora è lì a gridarsi allo specchio che «Nada exist! Imita la battuta finale di un video di Francis Bacon – spiega Liberati – anche se in realtà Bacon diceva qualcosa come “Nada j’existe”, esisto o “Nada j’existerai”, esisterò. Parla di sé, della sua melma personale, come tutti parlano sempre di se stessi. L’eco nichilista di quelle parole gli piace senza sapere bene cosa voglia esorcizzare pronunciandole».
D'altronde, dopo la morte improvvisa di Nimier – tradito il 28 settembre del 1962, a soli 37 anni, proprio dalla sua Aston Martin DB4 lanciata a tutta velocità nella notte parigina – la maggior parte degli Ussari sono “caduti” nel disimpegno. Dopo la pubblicazione, nel 2002, de Le spade (Meridiano Zero), il romanzo che, a soli 23 anni, ne decretò il successo, ci saremmo aspettati di vedere ristampati i tanti altri libri dimenticati del capofila degli Ussari: da Storia di un amore (Longanesi, 1962) a Giovani tristi (Edizioni dell’Albero, 1964), per citarne alcuni dei più intensi. E mentre aspettiamo… possiamo “consolarci” con Nada exist.
E in un 23 dicembre del 2006 – il racconto si concentra in poche ore, spezzato com’è da flashback, allucinazioni alternate a riflessioni sull’arte, sul sesso e sulla vita – Patrice fugge da se stesso. Da ciò che era stato nel recente passato: un fotografo pubblicitario di Vogue «da diecimila euro al giorno, regista dei video di Madonna e Paula Abdul». E da ciò che è diventato: un uomo che «non ha voglia di niente e di nessuno. Non ha desideri, ma ancora meno ha il coraggio di restare lì». Il suo è un “viaggio al termine della notte”, una discesa negli inferi di una quotidianità in cui la realtà e la finzione, il sogno e l’incubo, il bene e il male, si confondono. Ha perso il sentiero. Cerca “la prima notte di quiete”, proprio come Alain Delon nel film di Zurlini (1972), una pellicola di rara bellezza. L’attore francese è magistrale nel ruolo del tenebroso Daniele Dominici, un professore di letteratura che nasconde il suo passato di eroe di guerra cercando di spazzare via la delusione per i sogni traditi e la consapevolezza del niente che avvelenano il suo cuore. Quello che insegue, in fondo, è solo la prima notte di quiete, ovvero la morte.
Pur avendo qualcosa di “malato”, Patrice è uno di quei personaggi dei quali è impossibile non subire il fascino. Drieu La Rochelle l’avrebbe amato, altrimenti lo avrebbe creato. Patrice è “l’homme couvert de femmes” diviso tra una compagna che è stata la donna più bella e potente di Parigi e ora, malata terminale, è sprezzantemente liquidata come «una gallina vecchia che fa buon brodo» e un’amante giovane, spregiudicata e cocainomane. «Se mente continuamente – lo tratteggia Liberati – mente poco a se stesso ed è grazie alla confessione della sua debolezza che è tanto stranamente amato dalle donne. Tutto ciò che contrassegna un difetto di temperamento, lo salva dalle volgarità. Per lui esistere è una crudeltà elegante. Persino la sua vigliaccheria diventa stile». Quarantanove anni, «una barbetta mal rasata sul bel viso che gli era valso tutti i suoi successi», Patrice indossa pantaloni di pelle, porta gli occhiali da sole anche quando il cielo è coperto, vive in un castello dell’hinterland parigino e sperpera milioni di vecchi franchi per mantenere costosi relitti di auto sportive. In tasca ha sempre un taccuino moleskine di quelli usati da Hemingway e Chatwin. E coltiva nuovi piaceri: «più elevati, più imbottiti, più feroci di quelli dell’adolescenza».
Come il protagonista di Fuoco Fatuo, per il quale Drieu si ispirò all’amico suicida Jacques Rigaut, Patrice è un drogato che non riesce più a disintossicarsi e forse non lo vuole davvero. «Sono stanco, voglio morire…», afferma nell’incipit. Esercita il diritto a non essere interessato al mondo. Insofferente verso tutto e tutti e con una gran voglia di sprofondare nel niente. La droga avrebbe dovuto «salvarlo dall’avvelenamento della quotidianità, dalla ripetizione che costituisce una reputazione che si fa per sé più che per gli altri» e invece l’ha condotto in una strada senza uscita: «Aveva occupato un posto che altri, pieni di energia e di astio non avrebbero mai ottenuto. E poi aveva rovinato tutto, nello stesso modo in cui perdeva i soldi, i documenti e, in genere, tutto ciò che possedeva». Ha dilapidato il suo talento e ora è lì a gridarsi allo specchio che «Nada exist! Imita la battuta finale di un video di Francis Bacon – spiega Liberati – anche se in realtà Bacon diceva qualcosa come “Nada j’existe”, esisto o “Nada j’existerai”, esisterò. Parla di sé, della sua melma personale, come tutti parlano sempre di se stessi. L’eco nichilista di quelle parole gli piace senza sapere bene cosa voglia esorcizzare pronunciandole».
D'altronde, dopo la morte improvvisa di Nimier – tradito il 28 settembre del 1962, a soli 37 anni, proprio dalla sua Aston Martin DB4 lanciata a tutta velocità nella notte parigina – la maggior parte degli Ussari sono “caduti” nel disimpegno. Dopo la pubblicazione, nel 2002, de Le spade (Meridiano Zero), il romanzo che, a soli 23 anni, ne decretò il successo, ci saremmo aspettati di vedere ristampati i tanti altri libri dimenticati del capofila degli Ussari: da Storia di un amore (Longanesi, 1962) a Giovani tristi (Edizioni dell’Albero, 1964), per citarne alcuni dei più intensi. E mentre aspettiamo… possiamo “consolarci” con Nada exist.
4 commenti:
Mi hai fatto scoprire un autore di cui non avevo mai sentito parlare, ma da quel che scrivi penso che lo leggerò senz'altro.
Ne riparleremo, allora!
Caro Alfatti Appetiti,
nessuno è più soddisfatto di me ad apprendere questo evento, che spero non sia senza conseguenze in campo culturale europeo.
Dio sa quanto c'è bisogno oggi di una rinnovata ventata di anticonformismo, che trae la propria forza dalla scuola degli ussari degli anni sessanta.
Il mio auspicio è che non si tratta di un fuoco fatuo, ma sia l'inizio di un nuovo periodo creativo e rigeneratore per il vecchio continente.
Congratulazioni per l'articolo, veramente bello ed interessantissimo.
Grazie Piero!
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