Dal Secolo d'Italia di sabato 29 novembre 2008
Nerazzurri, bianconeri, giallorossi, rosanero, viola… Già. Ma perché? Cosa ha determinato il colore delle maglie delle squadre di calcio? E cosa intendono i tifosi quando parlano di attaccamento alla maglia? E perché si ha la tendenza a parlare di colori e squadre come se si trattasse di autentiche legioni? Il calcio è la trasposizione moderna di valori e battaglie d’altri tempi?
A chiarire gran parte di questi interrogativi arriva finalmente in libreria un prezioso volume realizzato da due studiosi toscani, Sergio Salvi e Alessandro Savorelli, dal titolo Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere, pp.225, euro 19). In effetti si sentiva da tempo la necessità di indagare sui perché delle identità calcistiche soprattutto in tempi in cui queste – ogni qualvolta si parli di maglie, di colori, di ultras – vengono chiamate in causa. Espressioni come cuore bianconero piuttosto che biancoceleste, sangue granata, e via discorrendo, non hanno bisogno di particolari spiegazioni e riflettono con immediatezza la condizione di appartenenza che lega squadra e colori ai tifosi, laddove i colori sono un simbolo da difendere poiché rappresentano la storia e la tradizione. È a tutti gli effetti un sistema araldico fatto di simboli e di riferimenti e il calcio è una sorta di epica moderna in cui i veri protagonisti sono i colori, più dei calciatori stessi. Del resto i campioni, gli allenatori e anche i presidenti passano, le maglie e i colori no. Non è proprio questo un leit-motiv condiviso da tutte le curve e da tutte le tifoserie del mondo? E allora se il tanto declamato «Onorate i nostri colori» che fa da denominatore comune alle schiere di milanisti, o alle flotte di interisti, alle legioni di doriani piuttosto che a guerrieri veronesi, è il sintomo di un amore diffuso – quello per la maglia –, merito di Salvi e Savorelli è stato quello di aver saputo storicizzare la questione e di averla saputa inquadrare appunto come afferente agli studi di araldica.
Con Tutti i colori del calcio infatti i due studiosi portano il calcio al centro di una riflessione filosofica e linguistica. Attraverso una storia del calcio universale come gioco, rituale ed istituzione, ripercorrendo anche la storia delle società, gli autori tracciano una mappa dei colori del calcio: rintracciano l’origine, ricostruiscono la storia e il significato dei colori, delle maglie e dei simboli di centinaia di squadre italiane, europee e sudamericane. Le domande portanti del libro sono: perché la maglia della Juventus è bianconera, quella del Milan rossonera e quella della Fiorentina viola? Ancora, perché quella del Chelsea è azzurra, quella del Real Madrid bianca e quella del Barcellona blaugrana? E proseguendo di questo passo il calcio viene proposto e letto come l’ultimo erede di guerre e tornei medievali, dove eserciti e principi si scontravano tra loro armati di scudi, stemmi e blasoni in un tripudio di colori, scelti sulla base di regole e codici ben determinati che si legavano alla casata di appartenenza, al monarca, ai colori della città o a questioni religiose. Tali colori e stemmi identificavano in modo certo una persona, una famiglia o un gruppo, tracciandone le linee di discendenze ed evidenziandone le alleanze e le appartenenze. Un insieme di principi che regolavano i segni e simboli delle battaglie cavalleresche, ossia l’araldica. Esattamente come le imprese dei cavalieri medievali, quelle di cui si favoleggiava di torneo in torneo, tutte contraddistinte dai colori, e ben documentate dallo storico Franco Cardini in volumi come Quell’antica festa crudele e Alle origini della cavalleria medievale.
Del resto non sono nuove le interpretazioni dello sport, ed in particolar modo del calcio, come metafora di dinamiche profonde relative ad aspetti valoriali più che sportive tout court. Già il premio Nobel per la letteratura Albert Camus aveva ammesso: «Il meglio che ho imparato sulla morale e i doveri degli uomini, lo devo al calcio». Mentre l’etologo Desmond Morris, autore del celebre Le Tribù del calcio, dal canto suo, spiegava: «Non esistono dubbi circa il significato religioso di una partita di calcio». Un po’come Pasolini che riteneva la partita di calcio come «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo».
Estetica, etica, religione e adesso anche araldica: sarebbero queste le dimensioni entro le quali il calcio affonderebbe le sue radici profonde. Di tutto ciò era convinto lo storico olandese Johan Huizinga, celebre autore di Homo ludens, che individuava le radici della passione popolare per lo sport proprio nella reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare il fattore ludico ed estetico dalla vita sociale: «Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole […] La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell’utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero… Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all’eterno principio del gioco». E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l’energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti a modelli antichi e medievali. Lo stesso Desmond Morris è dovuto ricorrere a precise categorie mitico-religiose: «In un certo senso le partite hanno sostituito per una grossa fetta di popolazione le funzioni religiose del passato… I regolari assembramenti di vaste congregazioni la domenica mattina non erano fatti solo a scopo di preghiera, servivano anche ad affermare l’identità di un gruppo. Davano ai fedeli del passato la sensazione di appartenere a una comunità […] La partita di calcio è in qualche modo sopravvissuta a questi mutamenti e ora ha assunto un ruolo più significativo in quanto mezzo per affermare un’alleanza locale. Come un incontro religioso, la partita di calcio non solo raduna un vasto gruppo di persone, ma le unisce in una fede comune: non più fede in una divinità, ma in una squadra». Fede, fedeltà, estetica, spirito guerriero, codice cavalleresco, dimensione ludica: ecco quanto emerge dall’analisi di Morris. Non a torto, quindi, Salvi e Savorelli, hanno interpretato il mondo del calcio a partire dal filo rosso che lo unisce ai conflitti ritualizzati rappresentati dai tornei cavallereschi di epoca medievale. Due mondi, quelli della cavalleria e del calcio, accomunati da una ragione araldica: in ciascuno dei due casi si tratta infatti di passioni che si esprimono attraverso il linguaggio dei colori, che sta alla base dell’identificazione e della differenziazione tra le squadre. E bisogna dire che in realtà gli accostamenti cromatici nel calcio quasi mai furono affidati al caso. Certo la storia non manca di episodi come quello legato alle maglie della Juventus, rosa in origine e divenute bianconere in seguito solo perché un generoso sostenitore d’Oltremanica spedì a Torino uno stock di casacche del Notts County, o come quelle viola della Fiorentina che la leggenda vuole frutto di una scoloritura a fronte dei colori originali delle casacche bianche e rosse, come quelli dell’emblema comunale fiorentino. Diverso è il caso del leggendario Torino che non adotta i colori comunali, il giallo e il blu, ma viene rappresentato col celeberrimo toro, simbolo della città, al cui colore del sangue, per l’appunto granata, sarebbero ispirate le maglie.
In realtà in tanti altri casi i colori sociali furono scelti: così se il Milan nel 1899 scelse il rosso da abbinare al nero seguendo la matrice delle maglie del Nottingham Forest, squadra della città da cui proveniva il suo fondatore Herbert Kilpin, i “cugini” dell’Internazionale, squadra fondata a seguito di una scissione nel 1908, scelsero il nero e l’azzurro, opposto cromatico per eccellenza rispetto al rosso. In altri casi ci si ispirò a realtà mitiche come la Grecia, patria delle Olimpiadi e dello sport, come fecero i fondatori della Lazio, nata il 9 Gennaio 1900, che adottarono i colori bianco-celesti, mentre la Roma, nata dalla fusione di tre squadre nel 1927 scelse di adottare i colori comunali, giallo oro e rosso pompeiano. E ancora, altrove si imposero ragioni particolari, come per il Palermo Football Club che, dopo avere iniziato nel 1900 con divise rossoblu, adottò il rosanero a margine dei risultati altalenanti, simboleggiati dal rosa, per i momenti felici, dal nero, accostato ai momenti “amari”. O più probabilmente per ragioni commerciali dato che l’industriale Florio, sostenitore del club era produttore di un liquore dolce rosato e di un digestivo amarissimo nero. Che si sia trattato della prima forma cromatica di pubblicità applicata al mondo del calcio?
E che dire delle squadre le cui maglie risultano come la fusione di una sfilza di colori sovrapposti, come per i blucerchiati della Sampdoria? Insomma tante storie diverse quante sono le squadre di calcio. E non solo in Italia. Una volta tanto quindi, grazie a Tutti i colori del calcio, parlando dello sport nazionalpopolare per eccellenza, i riflettori saranno puntati alla storia e alle radici piuttosto che a scandali, più o meno enfatizzati, a fidejussioni, più o meno false, e a moviole, più o meno noiose. Riflettere sui perché può essere uno stimolo a comprendere, anche nel mondo del calcio, le ragioni di chi, sempre più spesso, non accetta le forzature che arrivano dagli sponsor e gli stravolgimenti a cui il cosiddetto calcio moderno è sottoposto e che investono tutto o quasi, dai tempi di gioco, al colore delle maglie appunto. Che invece vanno onorate – a detta sia di ultras che di tifosi “normali” – e rispettate per quello che rappresentano. Ossia, l’ultimo baluardo di un calcio che non c’è più.
A chiarire gran parte di questi interrogativi arriva finalmente in libreria un prezioso volume realizzato da due studiosi toscani, Sergio Salvi e Alessandro Savorelli, dal titolo Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere, pp.225, euro 19). In effetti si sentiva da tempo la necessità di indagare sui perché delle identità calcistiche soprattutto in tempi in cui queste – ogni qualvolta si parli di maglie, di colori, di ultras – vengono chiamate in causa. Espressioni come cuore bianconero piuttosto che biancoceleste, sangue granata, e via discorrendo, non hanno bisogno di particolari spiegazioni e riflettono con immediatezza la condizione di appartenenza che lega squadra e colori ai tifosi, laddove i colori sono un simbolo da difendere poiché rappresentano la storia e la tradizione. È a tutti gli effetti un sistema araldico fatto di simboli e di riferimenti e il calcio è una sorta di epica moderna in cui i veri protagonisti sono i colori, più dei calciatori stessi. Del resto i campioni, gli allenatori e anche i presidenti passano, le maglie e i colori no. Non è proprio questo un leit-motiv condiviso da tutte le curve e da tutte le tifoserie del mondo? E allora se il tanto declamato «Onorate i nostri colori» che fa da denominatore comune alle schiere di milanisti, o alle flotte di interisti, alle legioni di doriani piuttosto che a guerrieri veronesi, è il sintomo di un amore diffuso – quello per la maglia –, merito di Salvi e Savorelli è stato quello di aver saputo storicizzare la questione e di averla saputa inquadrare appunto come afferente agli studi di araldica.
Con Tutti i colori del calcio infatti i due studiosi portano il calcio al centro di una riflessione filosofica e linguistica. Attraverso una storia del calcio universale come gioco, rituale ed istituzione, ripercorrendo anche la storia delle società, gli autori tracciano una mappa dei colori del calcio: rintracciano l’origine, ricostruiscono la storia e il significato dei colori, delle maglie e dei simboli di centinaia di squadre italiane, europee e sudamericane. Le domande portanti del libro sono: perché la maglia della Juventus è bianconera, quella del Milan rossonera e quella della Fiorentina viola? Ancora, perché quella del Chelsea è azzurra, quella del Real Madrid bianca e quella del Barcellona blaugrana? E proseguendo di questo passo il calcio viene proposto e letto come l’ultimo erede di guerre e tornei medievali, dove eserciti e principi si scontravano tra loro armati di scudi, stemmi e blasoni in un tripudio di colori, scelti sulla base di regole e codici ben determinati che si legavano alla casata di appartenenza, al monarca, ai colori della città o a questioni religiose. Tali colori e stemmi identificavano in modo certo una persona, una famiglia o un gruppo, tracciandone le linee di discendenze ed evidenziandone le alleanze e le appartenenze. Un insieme di principi che regolavano i segni e simboli delle battaglie cavalleresche, ossia l’araldica. Esattamente come le imprese dei cavalieri medievali, quelle di cui si favoleggiava di torneo in torneo, tutte contraddistinte dai colori, e ben documentate dallo storico Franco Cardini in volumi come Quell’antica festa crudele e Alle origini della cavalleria medievale.
Del resto non sono nuove le interpretazioni dello sport, ed in particolar modo del calcio, come metafora di dinamiche profonde relative ad aspetti valoriali più che sportive tout court. Già il premio Nobel per la letteratura Albert Camus aveva ammesso: «Il meglio che ho imparato sulla morale e i doveri degli uomini, lo devo al calcio». Mentre l’etologo Desmond Morris, autore del celebre Le Tribù del calcio, dal canto suo, spiegava: «Non esistono dubbi circa il significato religioso di una partita di calcio». Un po’come Pasolini che riteneva la partita di calcio come «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo».
Estetica, etica, religione e adesso anche araldica: sarebbero queste le dimensioni entro le quali il calcio affonderebbe le sue radici profonde. Di tutto ciò era convinto lo storico olandese Johan Huizinga, celebre autore di Homo ludens, che individuava le radici della passione popolare per lo sport proprio nella reazione spontanea a un modello di modernità che cercava di emarginare il fattore ludico ed estetico dalla vita sociale: «Né il liberalismo, né il socialismo offrirono allo sport terreno favorevole […] La sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano era in un certo senso il frutto naturale del razionalismo e dell’utilitarismo, i quali avevano ucciso il mistero… Gli ideali di lavoro, di educazione e di democrazia lasciavano a malapena posto all’eterno principio del gioco». E allora il calcio riappare come la riemersione di tutta l’energia vitale rimossa dalla società produttivistica ed ecco motivati i riferimenti a modelli antichi e medievali. Lo stesso Desmond Morris è dovuto ricorrere a precise categorie mitico-religiose: «In un certo senso le partite hanno sostituito per una grossa fetta di popolazione le funzioni religiose del passato… I regolari assembramenti di vaste congregazioni la domenica mattina non erano fatti solo a scopo di preghiera, servivano anche ad affermare l’identità di un gruppo. Davano ai fedeli del passato la sensazione di appartenere a una comunità […] La partita di calcio è in qualche modo sopravvissuta a questi mutamenti e ora ha assunto un ruolo più significativo in quanto mezzo per affermare un’alleanza locale. Come un incontro religioso, la partita di calcio non solo raduna un vasto gruppo di persone, ma le unisce in una fede comune: non più fede in una divinità, ma in una squadra». Fede, fedeltà, estetica, spirito guerriero, codice cavalleresco, dimensione ludica: ecco quanto emerge dall’analisi di Morris. Non a torto, quindi, Salvi e Savorelli, hanno interpretato il mondo del calcio a partire dal filo rosso che lo unisce ai conflitti ritualizzati rappresentati dai tornei cavallereschi di epoca medievale. Due mondi, quelli della cavalleria e del calcio, accomunati da una ragione araldica: in ciascuno dei due casi si tratta infatti di passioni che si esprimono attraverso il linguaggio dei colori, che sta alla base dell’identificazione e della differenziazione tra le squadre. E bisogna dire che in realtà gli accostamenti cromatici nel calcio quasi mai furono affidati al caso. Certo la storia non manca di episodi come quello legato alle maglie della Juventus, rosa in origine e divenute bianconere in seguito solo perché un generoso sostenitore d’Oltremanica spedì a Torino uno stock di casacche del Notts County, o come quelle viola della Fiorentina che la leggenda vuole frutto di una scoloritura a fronte dei colori originali delle casacche bianche e rosse, come quelli dell’emblema comunale fiorentino. Diverso è il caso del leggendario Torino che non adotta i colori comunali, il giallo e il blu, ma viene rappresentato col celeberrimo toro, simbolo della città, al cui colore del sangue, per l’appunto granata, sarebbero ispirate le maglie.
In realtà in tanti altri casi i colori sociali furono scelti: così se il Milan nel 1899 scelse il rosso da abbinare al nero seguendo la matrice delle maglie del Nottingham Forest, squadra della città da cui proveniva il suo fondatore Herbert Kilpin, i “cugini” dell’Internazionale, squadra fondata a seguito di una scissione nel 1908, scelsero il nero e l’azzurro, opposto cromatico per eccellenza rispetto al rosso. In altri casi ci si ispirò a realtà mitiche come la Grecia, patria delle Olimpiadi e dello sport, come fecero i fondatori della Lazio, nata il 9 Gennaio 1900, che adottarono i colori bianco-celesti, mentre la Roma, nata dalla fusione di tre squadre nel 1927 scelse di adottare i colori comunali, giallo oro e rosso pompeiano. E ancora, altrove si imposero ragioni particolari, come per il Palermo Football Club che, dopo avere iniziato nel 1900 con divise rossoblu, adottò il rosanero a margine dei risultati altalenanti, simboleggiati dal rosa, per i momenti felici, dal nero, accostato ai momenti “amari”. O più probabilmente per ragioni commerciali dato che l’industriale Florio, sostenitore del club era produttore di un liquore dolce rosato e di un digestivo amarissimo nero. Che si sia trattato della prima forma cromatica di pubblicità applicata al mondo del calcio?
E che dire delle squadre le cui maglie risultano come la fusione di una sfilza di colori sovrapposti, come per i blucerchiati della Sampdoria? Insomma tante storie diverse quante sono le squadre di calcio. E non solo in Italia. Una volta tanto quindi, grazie a Tutti i colori del calcio, parlando dello sport nazionalpopolare per eccellenza, i riflettori saranno puntati alla storia e alle radici piuttosto che a scandali, più o meno enfatizzati, a fidejussioni, più o meno false, e a moviole, più o meno noiose. Riflettere sui perché può essere uno stimolo a comprendere, anche nel mondo del calcio, le ragioni di chi, sempre più spesso, non accetta le forzature che arrivano dagli sponsor e gli stravolgimenti a cui il cosiddetto calcio moderno è sottoposto e che investono tutto o quasi, dai tempi di gioco, al colore delle maglie appunto. Che invece vanno onorate – a detta sia di ultras che di tifosi “normali” – e rispettate per quello che rappresentano. Ossia, l’ultimo baluardo di un calcio che non c’è più.
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Attento indagatore delle culture e delle dinamiche giovanili, collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.
Nessun commento:
Posta un commento