domenica 30 novembre 2008

A casa di Marianne Faithfull, la buona musica è senza nostalgia... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 30 novembre 2008
Una lunga, lunga vita, quella di Marianne Faithfull. Mica per l’età: in fondo ha solo 62 anni, che compirà il prossimo 29 dicembre. La differenza la fa l’intensità con cui ha vissuto: il bisogno di correre così forte da cadere, tradita da un passo falso o stremata dall’affanno; la capacità di rialzarsi ogni volta, animata dalla volontà di vivere o dalla curiosità di sapere cosa poteva trovare dietro la porta successiva, se avesse avuto la forza di aprirla.
Marianne Faithfull, oggi, è una signora bionda e un po’ appesantita, che se la incontri per caso e non la guardi negli occhi, quando i suoi occhi si accendono di entusiasmo e brillano come quelli di una ragazzina al primo appuntamento, potrebbe passare inosservata. Una signora che fa l’artista – che continua a fare l’artista, sul doppio binario della recitazione e del canto – nel modo più sincero e diretto di cui è capace. La franchezza come antidoto all’apparenza. All’immagine pubblica che le era rimasta appiccicata fin dalla metà degli anni Sessanta: la teenager sexy che piomba a Londra, la “swingin’ London” dell’epoca, e non si nega a nessun capriccio, a nessun eccesso. A 18 anni ha già un figlio. Conosce i Rolling Stones e, prima di mettersi stabilmente (stabilmente?!) con Mick Jagger, va a letto anche con altri due. Abusa di sesso, di droga, di ogni genere di accelerazione e di stordimento. Finisce a vivere alla giornata a Soho. Dove non ha nemmeno una casa. Dove sta malissimo. «Really, really, really ill», dice lei stessa in un’intervista del 2005. Quasi 35 anni di distanza e il ricordo è inalterato. Really, really, really ill. Davvero, davvero, davvero male.
La risalita sarà lenta, difficile, contraddittoria. Il desiderio di esprimersi, specie per gli artisti, non è necessariamente un segno di armonia interiore. Ritrovare fiducia nelle proprie potenzialità non significa aver ritrovato un equilibrio esistenziale. L’arte è una luce intermittente, che un attimo prima ti abbaglia e un attimo dopo svanisce. La vorresti sempre accesa, come sul palco, e come sul palco, invece, il tempo scorre veloce e arriva il momento di scendere. In quanto artista hai il privilegio di inebriarti molto più spesso della gente comune. In quanto artista ti paghi il privilegio con la necessità (con la condanna) di smaltire tutte quelle sbornie.
Nel 1979 Marianne fa un grande disco, che si intitola Broken English e che, a tutt’oggi, resta il suo capolavoro. Il troppo fumo le ha cambiato la voce, regalandole un timbro arrochito che la riempie di fascino. La ragazzina è diventata una donna. La divetta pop si è trasformata in un’artista adulta. Gli eccessi hanno bruciato la sua freschezza adolescenziale, ma l’hanno sostituita con una brace potente, che risplende nel buio. Non è intrattenimento. È viaggio nelle tenebre, esplorazione di montagne scoscese, avventura in terre desolate. Nessuna garanzia di lieto fine. E non pronunciatelo nemmeno, quello sciocco termine hollywoodiano. Happy end? Non fatemi ridere.

«La cosa più straordinaria di Broken English è che è uscito fuori dal nulla. Fu come un’imboscata, come un attacco. Ricordo che pensai: questo è il mio ultimo disco, poi morirò. Ma prima di morire ho il compito di rivelare me stessa e dimostrare chi sono. Non sono una vittima, non sono una ragazzina stupida. Sono Marianne Faithfull. E poi, con mia grande sorpresa, non morii.»
Broken English resta il capolavoro, ma quello che è venuto dopo non ha nulla da rimproverarsi. Gli esiti potranno essere alterni, ma l’approccio è rimasto lo stesso. La disciplina è rimasta la stessa. Gli album non si confezionano. Si affrontano. Non ci sono modelli da copiare ma intuizioni da mettere alla prova. E per quanto uno ci si applichi, e cerchi di metterci il massimo del rigore e dell’onestà, il parere che vorrebbe essere neutrale rimane pur sempre soggettivo. Mi sembra perfetto, o lo è davvero? Si riuscirà a capirlo solo dopo, col tempo, quando nel bene e nel male non ci sarà più niente da fare.
E se questo è vero in generale, quando le canzoni sono tue o comunque sono inedite, il discorso si complica ulteriormente quando ti cimenti nella reinterpretazione di brani già apparsi. E diventati più o meno celebri. Strana cosa, le cover: prendi qualcosa che ha creato qualcun altro e lo riproponi. Provi a farlo tuo, senza rubarlo. Ti avventuri sul filo sottile che separa un’offerta da un’imposizione. Un omaggio da una molestia. Una custodia da un esproprio. Se ci vai troppo leggero diventi pleonastico: chi lo vuole un clone? Se rielabori troppo rischi di stravolgere tutto: chi la vuole una maschera che copre, e nasconde, il bel viso che ricordavamo?
Marianne Faithfull ci aveva già provato a suo tempo, ma mai in modo così massiccio come in questo Easy Come Easy Go. Al suo fianco, come nel 1987 per l’ottimo Strange Weather, c’è Hal Willner. Nonché una nutrita schiera di ospiti, da Nick Cave a Keith Richards, da Rufus Wainwright a Sean Lennon. Nella versione completa, che per un malvezzo di routine viene definita “de luxe”, l’album è un doppio da 18 canzoni, con in più un dvd che si sofferma sulla lavorazione di diversi brani. Marianne è concentratissima, ma a tratti l’impresa sembra troppo impegnativa perché la realizzi del tutto. Forse è la sua voce che è troppo caratterizzata e che, alla lunga, tende a prevalere sulle singole atmosfere. Forse è che un intero disco di cover, per di più doppio, moltiplica i rischi e rende pressoché inevitabile qualche inciampo. E forse, infine, è anche un problema di aspettative. Ti aspetti talmente tanto che poi sopravviene un filo di delusione. La bravura non basta più, quando sei in attesa dell’eccezionale.
«Siamo in un bel salone di musica – ha scritto Riccardo Bertoncelli – con padroni di casa affascinanti, ma non si accende la scintilla, la festa non parte.»
Forse sì. Eppure non è poi così grave. Basta non pensare a una festa, all’insegna dell’eccitazione e dei brividi, ma a un invito a casa di una signora che vale sempre la pena di andare a trovare. Una signora un po’ agé, che è sopravvissuta a se stessa e a una gioventù troppo intensa. Una donna che alle spalle ha una lunga, lunga vita, e che oggi ha una miriade di cose da rievocare, per il nostro incantamento e per la sua redenzione.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini.

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