Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 26 aprile 2009
Ci sarà un’inerzia (c’è già un’inerzia: appena uscito l’album è arrivato ai vertici delle classifiche) ed è più che probabile che il nuovo della Nannini venderà molto, sullo slancio dell’enorme successo di Grazie, che nel 2006 è stato il più remunerativo dei cd “made in Italy”, e di GiannaBest, l’antologia che l’anno scorso ha fatto quasi altrettanto. Il pubblico si affeziona. Il grande pubblico adora le riconferme, in attesa di aprirsi all’improvviso, e inspiegabilmente, a una sana imprevedibile scoperta oppure all’ennesimo capriccio passeggero e modaiolo.
Il marketing non se lo dimentica mai, e fa di tutto per ottenere un clone dell’ultimo exploit; tanti, troppi artisti si dimenticano che l’arte vera non dovrebbe mai preoccuparsi di assecondare le aspettative di nessuno. Si dimenticano, o forse non hanno mai saputo, che a forza di strizzare l’occhio ti può venire un tic: un attimo prima eri accattivante; un attimo dopo ti sei trasformato in una maschera grottesca, e imbarazzante.
Quale che sia il suo esito commerciale, e quali che fossero le intenzioni, («Per me il sogno non è una fuga dalla realtà, ma il transito ad una realtà altra, parallela, in cui il nostro io talvolta si trasferisce, e che non ci appartiene di meno») GiannaDream è un lavoro mediocre, luccicante come un’insegna a caratteri cubitali e pacchiano come una vetrina troppo piena. Se il materiale di partenza non era affatto di prim’ordine – specie nelle musiche, ancora una volta decisamente meno significative dei testi – è la produzione di Wil Malone a far precipitare il risultato finale nel baratro del kitsch. Archi a volontà che si infiltrano ovunque e che ripetono all’infinito lo stesso schema. Che dovrebbero sostenere la parte melodica, a fronte di una ritmica fin troppo scandita, e che invece la appesantiscono e basta. In teoria dovrebbe essere l’incontro, seducente, tra la cruda energia del rock e le sinuose movenze del pop: di fatto è un abbinamento risaputo e malriuscito, che non possiede né la forza elementare, ma perentoria, del rock autentico, né tanto meno lo charme compiaciuto, ma attraente, del pop di alta scuola.
GiannaDream è un’operazione sbagliata, già a cominciare da quel titolo che riecheggia spudoratamente il precedente GiannaBest (e Dio non voglia che si tratti dell’inizio di una formula fissa, a colpi di GiannaSongs e GiannaShow e via giannando). L’impressione, e in un certo senso la speranza, è che sia la classica sbornia da successo: l’artista che si crede Re Mida e si convince di trasformare in oro tutto ciò che tocca. Il timore – ben più grave, visto che le sbornie, se non altro, tendono a passare da sole – è che quel successo abbia cancellato ogni dubbio e, sommandosi alla tendenza degli “over 50” ad assolversi per principio e qualunque cosa essi facciano, spazzato via ogni residuo di autocritica. Ogni capacità di distinguere tra ciò che ti piace a titolo personale e ciò che merita realmente di essere riversato in una creazione artistica. Vedi, per esempio, l’utilizzo di un canto africano all’interno di Maledetto ciao: appiccicato lì in maniera del tutto estrinseca, come un souvenir esotico nel bel mezzo di una casa nostrana, sorvolando sull’abissale differenza tra una contaminazione profonda e un accostamento occasionale, tra un recupero rivelatore e una trovata pittoresca. Tra sincretismo e pastiche.
GiannaDream è un’operazione sbagliata, già a cominciare da quel titolo che riecheggia spudoratamente il precedente GiannaBest (e Dio non voglia che si tratti dell’inizio di una formula fissa, a colpi di GiannaSongs e GiannaShow e via giannando). L’impressione, e in un certo senso la speranza, è che sia la classica sbornia da successo: l’artista che si crede Re Mida e si convince di trasformare in oro tutto ciò che tocca. Il timore – ben più grave, visto che le sbornie, se non altro, tendono a passare da sole – è che quel successo abbia cancellato ogni dubbio e, sommandosi alla tendenza degli “over 50” ad assolversi per principio e qualunque cosa essi facciano, spazzato via ogni residuo di autocritica. Ogni capacità di distinguere tra ciò che ti piace a titolo personale e ciò che merita realmente di essere riversato in una creazione artistica. Vedi, per esempio, l’utilizzo di un canto africano all’interno di Maledetto ciao: appiccicato lì in maniera del tutto estrinseca, come un souvenir esotico nel bel mezzo di una casa nostrana, sorvolando sull’abissale differenza tra una contaminazione profonda e un accostamento occasionale, tra un recupero rivelatore e una trovata pittoresca. Tra sincretismo e pastiche.
Peccato, perché Gianna Nannini ha potenzialità di gran lunga migliori. Talento espressivo e slancio vitale. Doti naturali ed esperienze acquisite. Anzi, inseguite. Ha la voce, ha il temperamento, ha quel mix di anarchia/follia, di generosità/avidità, di sfrenatezza e di disciplina, che permette di sperimentare a fondo la vita e di correre una gran bella varietà di rischi, sia personali che professionali. Giocando per il puro gusto di giocare. Correndo a perdifiato: perché forse, come in un sogno, se si corre davvero alla massima velocità alla fine ci si alza in volo come fanno gli aeroplani. Prendendo ciò che si desidera con lo stesso slancio, con la stessa furia, con cui si è pronti a dare. A darsi.
Ha la voce: che le sta bene addosso e che si fa ricordare; che come lei non è bella in assoluto (niente gorgheggi aggraziati, niente nasino all’insù) ma che ha il pregio, essenziale, dell’originalità. Di persone intonate e dal timbro gradevole è pieno il mondo, a tutto vantaggio dei piano-bar e dei cori. I cantanti veri, capaci di marchiare a fuoco ciò che interpretano, restano una minoranza, se non proprio un’eccezione. Magari non piacciono a tutti, e a volte non piacciono a nessuno, o quasi, la prima volta che li si ascolta, ma se sopravvivono alle remore iniziali, causate dalla distanza che li separa dai modelli consolidati, la loro particolarità diventa un vantaggio.
Ha la voce: che le sta bene addosso e che si fa ricordare; che come lei non è bella in assoluto (niente gorgheggi aggraziati, niente nasino all’insù) ma che ha il pregio, essenziale, dell’originalità. Di persone intonate e dal timbro gradevole è pieno il mondo, a tutto vantaggio dei piano-bar e dei cori. I cantanti veri, capaci di marchiare a fuoco ciò che interpretano, restano una minoranza, se non proprio un’eccezione. Magari non piacciono a tutti, e a volte non piacciono a nessuno, o quasi, la prima volta che li si ascolta, ma se sopravvivono alle remore iniziali, causate dalla distanza che li separa dai modelli consolidati, la loro particolarità diventa un vantaggio.
Ricorda lei stessa nella sua bella coinvolgente acuta autobiografia “di getto” (Io, BUR Narrativa, pag. 178, euro 8,60): “Torino, la Fonit Cetra fa i provini per cercare cantanti nuovi. Mi dà il la una pianola dal suono orrendo, comincio a cantare. «No cara, non c’è niente da fare: dimenticati di fare la cantante, sei ‘squadrata’, non andrai mai a tempo». Grazie. Vado via con la coda tra le gambe. Via come la lupa, il cane di Lucy Kiddina quando per morire ha voluto lasciare la città e tornare dove era nata. Io però non posso tornare dove sono nata, devo fare la cantante e se torno indietro sono finita. (...) La mia compagna di banco mi guarda e dice «Embe’? Che te ne frega, vanno tutti a tempo, si vede che tu sei speciale»”.
Ecco: se hai questa sensibilità, questa attitudine istintiva (e al tempo stesso temprata) a fare a modo tuo, devi essere esigente in tutto. Non solo quando vivi e viaggi e ti innamori; non solo quando scrivi le parole con cui ti racconti; anche, soprattutto, quando cerchi la musica e, dopo averla trovata, viene il momento di rivestirla nella versione definitiva. L’essenziale è restare essenziali. Che bisogno c’è del Wil Malone di turno e delle sue stramaledette overdose di “strings”? Che bisogno c’è dell’ufficio stampa che ciancia di “archi flessuosi che sposano il passo impaziente delle chitarre”? Sovrastrutture inutili e imbonimenti di maniera. Cartapesta e carta straccia. Tutto il contrario della realtà che vale la pena di vivere, dei sogni che vale la pena di fare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
Ecco: se hai questa sensibilità, questa attitudine istintiva (e al tempo stesso temprata) a fare a modo tuo, devi essere esigente in tutto. Non solo quando vivi e viaggi e ti innamori; non solo quando scrivi le parole con cui ti racconti; anche, soprattutto, quando cerchi la musica e, dopo averla trovata, viene il momento di rivestirla nella versione definitiva. L’essenziale è restare essenziali. Che bisogno c’è del Wil Malone di turno e delle sue stramaledette overdose di “strings”? Che bisogno c’è dell’ufficio stampa che ciancia di “archi flessuosi che sposano il passo impaziente delle chitarre”? Sovrastrutture inutili e imbonimenti di maniera. Cartapesta e carta straccia. Tutto il contrario della realtà che vale la pena di vivere, dei sogni che vale la pena di fare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
3 commenti:
Ci sei andato giù pesante, Federico, ma quando ci vuole ci vuole.
Complimenti.
Ciao!
Many thanks, Claudio. Il problema della Nannini, secondo me, è che lei è molto più una cantante che una musicista. La conseguenza, sul piano artistico, è che tutt'al più è in grado di trovare qualche linea melodica, dopo di che non ha nessuna idea precisa su come svilupparle e arrangiarle. Ed ecco spiegato perché da un lato è tanto condizionata dai produttori, da Conny Plank in poi, e dall'altro diventa più suggestiva quando sfronda il superfluo e torna all'acustico.
PS Il discorso, naturalmente, vale per innumerevoli altri artisti, a cominciare dai cantautori. Chi vede l'arrangiamento come una sovrastruttura non ha capito nulla: ogni singolo suono dovrebbe situarsi all'interno di un codice espressivo coerente. Se no è mero abbellimento, più o meno efficace ma pur sempre secondario, quasi accidentale.
Condivido, Federico. Spesso i musicisti più interessanti sono anche degli ottimi arrangiatori, oppure li sanno scegliere bene. Pensiamo, in Italia, a Samuele Bersani.
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