domenica 26 aprile 2009

Quarant'anni fa il trionfo dei Procol Harum (di Marco Iacona)

Articolo di Marco Iacona
Dal Secolo d'Italia di sabato 25 aprile 2009

Era la seconda metà del Sessanta e all’organo Hammond c’era Matthew Fisher. Una breve introduzione, poi la batteria di B. J. Wilson, quindi la voce, magica, di Gary Brooker… Iniziava così – già proprio così – quel notissimo brano di “pop classico”, inciso però per lo più, da turnisti cioè da musicisti a progetto, che nessun quarantenne è mai riuscito a dimenticare. Il gruppo? I Procol Harum, la canzone A whiter shade of pale, regina di un certo modo di fare musica, una terza via, ci si passi il termine, fra il colto e il meno colto. Fra le sonorità nobili e quelle meno nobili, con lo spirito di J. S. Bach a fare da gran cerimoniere, a manipolare, ad impastare messaggi moderni ad altri vecchi di parecchi secoli… se si vuole.
La canzone e l’Lp che ne seguì furono successi straordinari -soprattutto in Italia ove i Procol Harum divennero i beniamini dei ragazzi- mai più raggiunti da quella band di giovani londinesi, e da Gary il loro baffuto capo carismatico, nel corso di una carriera colma di alti e bassi (vai e vieni di strumentisti, parentesi “hard”, tribunali, declino, epilogo e ritorno sulle scene negli anni Novanta) e perfino di pagine trascurabili. Procol Harum, Procol Harum… un nome che suona e suonò benissimo in quel pazzopazzomondo che fu il rock anni Settanta, non privo d’uno spessore e perfino elegante, ma che significava praticamente nulla… Dalle enciclopedie della musica si apprende che il «nome della band londinese viene dal pedigree di un gatto siamese che apparteneva ad un amico di Guy Stevens, primo manager del gruppo, è di provenienza latina e, pur se errato (una migliore scrittura sarebbe ‘procul harum’) vuol dire, approssimativamente ‘oltre, lungi da queste cose’».
Al pari di A whiter shade of pale di cui com’è noto esiste una celebre cover italiana dei Dik Dik su testi di Mogol, dal titolo Senza luce ed uscita in Italia prima della stessa versione originale, non sono pochi i brani ben interpretati da questo gruppo nato come The Paramounts, complesso rhythm ‘n’ blues come tanti, all’inizio dei Sessanta. Si tratta di brani da ripassare nell’A.D. 2009 con sincera e serena saudade. Potremo cominciare, per esempio, ad ascoltare il live del 1972 con l’orchestra di Edmonton comprendente, fra gli altri, l’interminabile In held ‘twas in I, esempio fra i più spinti di progressive rock.
Nessuno, poi, sembra aver mai dimenticato, Repent Walpurgis -brano contenuto nel primo album dei Procol Harum -quasi (quasi!) un movimento sinfonico, meglio ancora: un brano strumentale ben ritmato- col clavicembalo ben temperato di Bach vater nella divisa di un Mosè che separa le acque agitate di un crescendo rock, caldo e colorato, che dà l’idea di esser stato improvvisato lì per lì e che, certamente, oggi rappresenta un’inconfondibile testimonianza della ricchezza delle mescolanze del mondo di ieri (qualunque sia il giudizio che se ne vuol dare…). Non HomburgConquistador, né soprattutto A salty dog, uscita nei primi mesi del 1969, giusto quarant’anni fa, insieme all’omonimo terzo album dei Procol Harum. Dopo un secondo Lp (Shine on Brightly - 1968), in ogni modo non paragonabile al primo, la title track dell’Lp del ’69 è un gioiello di espressioni artistiche, a più gradi, a più livelli; come una serie di anelli concentrici.
E qui i quarantenni mischieranno, ancor di più, ricordi a ricordi. I grilli della memoria saltano ai primi anni Settanta, ai tempi in cui la Tv era un utile elettrodomestico (niente di più ma assolutamente niente di meno), e regalava programmini niente male da ascoltare e soprattutto da vedere. C’era a quel tempo un giornalista assai garbato che si chiamava Bruno Modugno – poi finito al tg1 - che presentava una trasmissione molto amata dai giovani, amata fin dal titolo Avventura che preannunciava la visione di luoghi incontaminati e bellezze naturali. La trasmissione, prodotta dalla stessa Rai, andò in onda per quasi dieci anni all’interno della mitica Tv dei ragazzi, dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta.
Ebbene, la più famosa sigla di apertura di uno dei programmi più amati di quella che può essere considerata l’età dell’oro della Rai, era una cover della beatlesiana She came in through the bathroom window (Abbey road - 1969), cantata da un giovane ma già conosciuto Joe Cocker, la sigla di chiusura invece, annunciata da un bellissimo tramonto – bellissimo anche se in bianco e nero, ma a quel tempo bastava la fantasia, eccome – e dal suono del canto dei gabbiani, era proprio A salty dog dei Procol Harum. Le due sigle erano state scelte – pensa te – da Massimo Catalano jazzista e futuro protagonista di un altro mitico programma Rai (ancora a venire) Quelli della notte. Che tempi ragazzi…
Il canto dei gabbiani – qualcuno dice di Albatross – era inserito nella stessa canzone (ascoltare per credere), come effetto speciale, forse per la prima volta nella storia della musica, per dare un tocco di qualità fantasy ad un testo ispirato alla Ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancyent Marinere), di Coleridge. Il poemetto narra la storia di un marinaio che racconta le disavventure occorse a lui e all’equipaggio di una nave, dopo che egli stesso con gesto sconsiderato aveva ucciso un Albatross. La canzone dei Procol Harum (in lingua italiana: un cane salato, cioè un “lupo di mare”, è facile scovarne una buona traduzione nel web), è stata scritta da Keith Reid (autore anche di A whiter shade of pale) e narra la storia di un equipaggio e di una nave perduta per i mari che troverà approdo in un luogo straordinario («A sand so white, and sea so blue / no mortal place at all»). Anche in questo caso esistono più cover italiane, fino a quella recentissima di Zucchero.
La canzone era invero perfetta come sigla di un programma che trasmetteva avventure fino agli estremi confini del mondo («We sailed for parts unknown to man / where ships come home to die»: «Partimmo per luoghi sconosciuti all’uomo, dove le navi vanno a morire») ed il lieto fine per noi ragazzi era, invero, assicurato («Now many moons and many Junes / have passed since we made land / A salty dog, this seaman’s log / your witness my own hand»: «Molte lune e molte estati sono trascorse da quando siamo approdati. Un lupo di mare, questo marinaio: la mia mano ti è testimone»). La voce di Gary Brooker - forse fra le più belle in assoluto che si siano ascoltate in una band rock – rendeva il brano, con la deliziosa marcetta cadenzata dalla batteria, in sottofondo a dare il senso di un percorso da compiere, ancora più suggestivo. Indimenticabili, poi, anche gli arrangiamenti.
Com’è noto, gli anni d’oro dei Procol Harum - almeno fino a tutta la metà degli anni Settanta (sette 45 giri e nove album: da Procol Harum a Procol’s Ninth), seppure con un rilevante arretramento nel successo e nella ricerca timbrica e melodica – coincidono con anni di sperimentazione nel panorama della musica cosiddetta rock. Per dirla in due parole, alle sonorità del rock-contemporaneo udito fino a quel momento, si andavano mischiando sonorità –non sempre sintetiche- risalenti alle tradizione jazz o addirittura alla sinfonica lato sensu. Così ad un certo innalzamento nella qualità dell’architettura musicale pop, era d’uopo corrispondesse una innalzamento della qualità dei musicisti che almeno sulla carta dovevano aver masticato un po’ di musica cosiddetta colta (e magari anche studiato in conservatorio). A quel genere del tutto nuovo che veniva fuori da combinazioni eterogenee di armonie e intenzionalità creative (c’era perfino un ritorno al medioevo), si era dato il nome di progressive rock. Il 1969 (ancora quarant’anni fa, dunque) è forse l’anno fondamentale per il progressive -un lustro di creatività assoluta- del quale faranno parte anche gruppi storici come i Jethro Tull, gli Amazing Blondel, i The Nice, i Genesis, gli Yes, E.L.P., e i King Crimson; proprio del ’69 è il loro primo indimenticabile album (In the court of the Crimson King). In Italia emergerà invece la P.F.M.
Il progressive fu, com’è facile intuire, un fenomeno spiccatamente europeo, legato a tradizioni classiche europee e non solo nel significato di Occidente (per non scomodare Wagner coi suoi Leitmotive, citiamo Stravinsky e Mussorgsky oltreché un Bach notoriamente senza tempo). Al progressive rock erano poi collegati almeno due fenomeni abbastanza singolari per quegli anni: l’uno musicale l’altro artistico in senso più generale.
Musicalmente i brani erano composti come dei veri pezzi classici (suite e poemi sinfonici, suddivisi perfino in movimenti ognuno dei quali con una propria fisionomia ritmica) con sonorità spessissimo ricercate; i testi erano spesso mitologici, poetici, legati cioè a realtà visionarie, poco reali nel senso che il termine poteva assumere negli anni Sessanta-Settanta (da questo, forse, il non essere troppo amati -come tanta altre cose dal contenuto simile- da certa intellettualità impegnata di sinistra).
Dal punto di vista generale, infine, mutava il significato stesso del prodotto discografico, che per una multiforme combinazione di musica, testi, grafica della copertina e (perché no?), biografia dei protagonisti, si trasformava in un oggetto artistico –molto appetibile- a tutto tondo, in una vera opera d’arte dalle significanze intrecciate ora da un tema unico ora dalla struttura melodica delle composizioni, che spesso proprio per i richiami colti, esclusivi, a volte perfino esoterici, nel senso di conoscenze poste un paio di gradini più su rispetto al pop, si trasformava, a sua volta, in arte chiusa in se stessa, riservata ad una vera e propria élite.
Dal popolare al misterioso dunque... e comunque lo si ricordi, il progressive -con annessi e connessi- fu la breve e forse ultima stagione delle grandi-piccole meraviglie musicali del vecchio Continente.

Marco Iacona è dottore di ricerca in "Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee". Si occupa di storia del Novecento. Scrive tra l'altro per il bimestrale "Nuova storia contemporanea", il quotidiano "Secolo d'Italia" e il trimestrale "la Destra delle libertà". Per il quotidiano di An nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in 12 puntate. Ha curato saggi per Ar e Controcorrente edizioni. Nel 2008 ha pubblicato: "1968. Le origini della contestazione" globale" (Solfanelli).

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