domenica 19 aprile 2009

Mauro Pagani: la vitalità sprecata degli anni Settanta. E tutto finì in tragedia (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 19 aprile 2009
Sonny non esiste. È un personaggio di fantasia. È il protagonista di questo romanzo che si intitola Foto di gruppo con chitarrista (Rizzoli, pagg. 364, euro 17,50) e che segna l’esordio letterario, a 63 anni compiuti, di un musicista intelligente, e affermato, come Mauro Pagani. Sonny, nel libro, è un coetaneo di Mauro. È nato anche lui nell’immediato dopoguerra ed è anche lui lombardo. E in realtà si chiama Paolo. Sonny è un soprannome: lui era un ragazzo che adorava il blues e un po’ cantava e un po’ suonava l’armonica, e allora il batterista della sua prima band si è messo a chiamarlo così, come il leggendario Sonny Boy Williamson. La battuta è diventata un gioco. Il gioco si è trapiantato nella realtà. Magari succedeva lo stesso, ma le circostanze ci hanno messo del loro: lui ha rotto i ponti con la famiglia e a poco più di vent’anni si è trasferito a Milano. Per vivere da solo. Per provare a vivere di musica. Come hai detto che ti chiami? Mi chiamo Sonny. Va bene alle persone che frequenta, specie nel giro dei musicisti, e va bene a lui. Sonny. Sonny Boy Williamson. Una suggestione leggera, ma persistente. Un riferimento che resta segreto fino a quando vuoi tu. Che non sei obbligato a spiegare, ma che in certi casi può essere bello da svelare. Da raccontare. A una donna. A un amico. A uno sconosciuto che ama a sua volta il blues. Sonny. Sonny Boy Williamson. Era uno pseudonimo anche il suo: lo sapevate?

Il romanzo copre dieci anni, all’incirca. Si apre nel dicembre 1969, poco prima della strage di Piazza Fontana, e si chiude il giorno dei funerali di Demetrio Stratos, il geniale cantante degli Area che il 13 giugno 1979 venne stroncato da un’aplasia midollare fulminante. Si parte che si è ragazzi e si arriva che non lo si è più. Magari non ancora adulti (e chissà cosa significa esattamente, e chissà se lo si diventerà mai del tutto) ma di certo cambiati. Invecchiati quanto basta a non nutrire più gli stessi sogni, a non accarezzare più le stesse illusioni, a non inseguire più le stesse chimere. Sembrava un mondo sconfinato e non lo era. Sembrava che la primavera della propria giovinezza dovesse espandersi per ogni dove, come una natura che genera il più grandioso risveglio dei prati e dei fiori e dei boschi e riconquista alla propria armonia tutto ciò che le è stato sottratto. A poco a poco si capisce – si è costretti a capire – che non è così. L’entusiasmo collettivo è durato assai meno di quanto si credeva. L’apertura reciproca si è ristretta. La curiosità per ciò che non si conosce si è affievolita. La primavera è stata, ancora una volta, nulla di più che una stagione passeggera.

Eppure, ricorda oggi lo stesso Mauro Pagani, «Milano, in quegli anni, era una città splendida formata da case, tante case, dove ci potevi trovare dentro della gente fantastica. Dal 1970 al 1980 ho vissuto all'interno di una casa-comune, assieme alla mia compagna di allora... Il problema degli affitti, all’epoca, non lo prendevamo nemmeno in considerazione». Non è una difesa d’ufficio. Men che meno un panegirico. Il romanzo non occulta affatto le tante zone d’ombra, individuali e collettive, di quel periodo, ma non avalla nemmeno, giustamente, le demonizzazioni a senso unico che sono emerse negli ultimi anni. Senza mai affermarlo esplicitamente, come si conviene a un racconto che evita qualsiasi tentazione didascalica, Pagani restituisce a quegli anni la complessità e la vitalità che vanno puntualmente smarrite nei giudizi sommari di chi liquida i Settanta come un lunghissimo tunnel, oscuro e malsano, che ostacola il passaggio dall’ottimismo ruspante dei Sessanta a quello rampante degli Ottanta. Nessuna assoluzione indiscriminata, ma dietro gli “anni di piombo” – e soprattutto prima degli “anni di piombo” – c’erano energie potenti e spesso sincere, che avrebbero meritato miglior sorte e che, invece, sono rimaste schiacciate tra due varianti della stessa sete di potere: di qua il cinismo di chi lo deteneva già, di là la iattanza di chi mirava a conquistarlo.

Come ha scritto l’ex leader di Lotta Continua Adriano Sofri, recensendo il romanzo sulle pagine di Repubblica, «Nel suo racconto, brusco e avventuroso e trascinante come si deve, quegli anni convulsi riguadagnano senza smancerie una cordialità e un’ospitalità umana non più ritrovata. Leggendo, io l’ho insieme riconosciuta e avvertita distante: perché i politici-politici, o almeno alcuni di noi, la comunità pronta e fraterna la guastammo spesso con una sicumera e un’arroganza, come se volessimo prenderci deridendo un anticipo del mondo che ci era dovuto. Una rapacità, in acconto sulla rivoluzione. La musica, forse perché è per i suoi il vero pegno presente del futuro che la rivoluzione promette, riparava dall’arroganza, sebbene non ne venisse riparata, come nella soggezione che la politica voleva imporle».
E la politica, infatti, rimane comunque sullo sfondo, via via che si snoda la vicenda di Sonny. Il vero filo conduttore non è la società italiana del tempo, ma le difficoltà alle quali vanno incontro i musicisti che, pur avendo talento e determinazione, non raggiungono mai il successo. E che perciò, come Sonny, finiscono con l’accontentarsi di ingaggi di routine, nei locali da ballo o sulle navi da crociera. Sonny resiste meglio che può, e nel suo caso l’amore per la musica è talmente grande da fargli accettare di buon grado la necessità di suonare un repertorio fin troppo collaudato davanti a un pubblico fin troppo accomodante, ma anche per lui gli anni passano e le probabilità di emergere si assottigliano. Di tanto in tanto, nel libro, lui e Mauro Pagani (che scrive di sé in terza persona e, nel ruolo di comprimario, evidenzia con ammirevole franchezza anche i propri difetti) si incontrano di nuovo e parlano di come vanno le cose. Sonny sempre in giro per il mondo a sbarcare il lunario, Mauro ormai celebre a inanellare esperienze di primo piano, dalla PFM in poi. Tra loro c’è stima, c’è simpatia, ci sono almeno le basi di un’amicizia profonda e disinteressata. Nessuna invidia da parte di Sonny, nessuna spocchia da parte di Mauro. Ma le domande, quand’anche rimangano implicite, non possono non incombere: è il musicista migliore, quello che ha avuto successo? E, se non lo è, perché è toccata a lui?
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

La ringrazio per Blog intiresny