Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 5 aprile 2009
Vasco Rossi che canta le sue canzoni dal vivo è coinvolgente. Viscerale nei pezzi rock. Viscerale, su tutt’altro registro, nelle ballate. Ma è quando ne parla giù dal palco, senza più nessun obbligo di fare spettacolo, che diventa persino commovente. È lì che si vede che la sua identificazione è totale: che ogni parola che ha scritto l’ha tirata fuori dal fondo di se stesso, tra la vasta sofferenza che gli costa lo sforzo di capire e quella briciola di soddisfazione che gli offre, ammesso che lui abbia ancora voglia di accettarla, il fatto di esserci riuscito. Una doppia sfida che conosce bene, ma che col tempo si fa via via più difficile: primo, guardare in faccia le cose che ti attraversano la vita, senza abbassare gli occhi se quello che vedi non ti piace. Secondo, impastare i concetti e le emozioni per tutto il tempo necessario a cavare fuori quella manciata di frasi che, sommate alla musica, fanno una canzone. Una buona canzone. O almeno (non ve lo diceva la nonna, che non tutte le ciambelle vengono col buco?) una canzone sincera.
Il nuovo dvd, nella consigliabilissima versione a due dischi, mostra l’uno e l’altro. Vasco che canta. Vasco che parla. Vasco che non si preoccupa affatto di apparire diverso da com’è, coi suoi 56 anni disordinati ma niente affatto allo sbando, sgualciti per un verso e vigorosi per l’altro. Il tour, naturalmente, è quello del 2008, intitolato, così come l’ultimo album, Il mondo che vorrei. Tredici tappe, e venti serate, disseminate sull’arco di poco meno di cinque mesi, inframmezzati da una lunghissima pausa che si è protratta dal 10 luglio al 5 settembre. Inizio a Genova il 22 maggio e chiusura a Torino il 5 ottobre. Un totale di circa 800 mila spettatori. Una macchina produttiva enorme che, per spostarsi di città in città, ha avuto bisogno di più di 50 autoarticolati. Quattro giorni per montare, lavorando 24 ore su 24. Due e mezzo per smontare. 180 mila watt di potenza sonora. Trenta metri di palco, più altri trenta di strutture laterali, e ventidue di altezza. Centonovanta tonnellate di zavorra per l’ancoraggio a terra.
Il nuovo dvd, nella consigliabilissima versione a due dischi, mostra l’uno e l’altro. Vasco che canta. Vasco che parla. Vasco che non si preoccupa affatto di apparire diverso da com’è, coi suoi 56 anni disordinati ma niente affatto allo sbando, sgualciti per un verso e vigorosi per l’altro. Il tour, naturalmente, è quello del 2008, intitolato, così come l’ultimo album, Il mondo che vorrei. Tredici tappe, e venti serate, disseminate sull’arco di poco meno di cinque mesi, inframmezzati da una lunghissima pausa che si è protratta dal 10 luglio al 5 settembre. Inizio a Genova il 22 maggio e chiusura a Torino il 5 ottobre. Un totale di circa 800 mila spettatori. Una macchina produttiva enorme che, per spostarsi di città in città, ha avuto bisogno di più di 50 autoarticolati. Quattro giorni per montare, lavorando 24 ore su 24. Due e mezzo per smontare. 180 mila watt di potenza sonora. Trenta metri di palco, più altri trenta di strutture laterali, e ventidue di altezza. Centonovanta tonnellate di zavorra per l’ancoraggio a terra.
Le immagini del filmato sono quelle dello stadio Dall’Ara di Bologna. La consueta platea sterminata ed entusiasta che accoglie Vasco dappertutto, da un capo all’altro dell’Italia. In più, per l’occasione, Valentino Rossi in prima fila: più ancora che la fama planetaria è l’amicizia personale ad assicurargli un posto privilegiato a ridosso della scena, ma la sostanza non cambia. È qui come tutti. Come un qualsiasi fan di vecchia data che non desidera altro che godersi lo show, lasciandosi attraversare dai suoni dalle luci dalle emozioni, muovendosi a tempo quando gli va, cantando in coro se gli viene.
Il concerto è potente: per registrare i pezzi nuovi Vasco va a Los Angeles, perché è lì «il centro del rock », ma per suonare dal vivo gli va benissimo la sua pattuglia di veterani. Innanzitutto il tris proveniente dalle file, più volte rimescolate, della Steve Rogers Band (Maurizio Solieri alle chitarre, Claudio “Gallo” Golinelli al basso e Andrea “Cucchia” Innesto al sax); poi Alberto Rocchetti alle tastiere, Frank Nemola alla tromba e Clara Moroni ai cori; infine, in trasferta dagli Usa, Stef Burns pure lui alle chitarre e Matt Laugh alla batteria. Un gruppo vero. Gente che ci dà dentro e se la spassa, ma che non perde il controllo. Bicchieri (boccali) sempre belli pieni: però senza esagerare, così non ti sbrodoli.
Vasco fa il resto. Sa già che sarà un trionfo, ma non si atteggia nemmeno per un attimo alla superstar calata dai cieli, discesa una tantum dall’Olimpo della Hit parade per concedersi all’adorazione dei comuni mortali. Ci sarà anche una scenografia della madonna e un oceano di fan, ma l’obiettivo non è mica battere i record di allestimento e di affluenza, per menarne gran vanto. L’obiettivo è stare bene. Noi che facciamo lo show. Voi che lo guardate. Noi che lo viviamo da qui. Voi che lo vivete da lì.
Lo stadio è avvolto nel buio, quando lui comincia a parlare. Il palco si tinge di un blu scuro, denso, come la notte che fa il primo passo verso l’aurora. Qua e là si accendono piccoli bagliori istantanei e discontinui. Come se l’impianto luci, gigantesco, stesse battendo le ciglia prima di svegliarsi del tutto. «Spinoza – scandisce lentamente Vasco – diceva che chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza. Noi siamo qui questa sera per portarvi un po’ di gioia. GIOIA. GIO-IA-A-A.»
E poi ci sei dentro. Quasi due ore e mezza di canzoni che partono dall’ultimo disco e risalgono indietro verso le grandi cose del passato, verso quel passato che si riaccende di colpo e fa tutt’uno col presente. È il bello dei concerti dal vivo, quando sono così tanti anni che sei sulla breccia: decine di migliaia di persone e non c’è praticamente nessuno che sia lì per caso. All’origine le tue canzoni appartenevano solo a te: nascevano dalla tua vita, dalle tue esperienze, dai tuoi ricordi. Oggi sono vita ed esperienze e ricordi di tanti altri. Di tantissimi altri. Strano: età così diverse e ci capiamo al volo. I ragazzi di oggi e quelli di ieri. Non siamo mica uguali uguali, e non facciamo finta di esserlo, ma ce n’è quanto basta per intendersi. Per simpatizzare. Strano? Ma dai. È come dovrebbe sempre, purché i rapporti non si siano deteriorati fino a marcire. Eccoci qua. Padri e figli, fratelli maggiori e minori, amici di generazioni differenti. In cammino sulle strade della vita. E ogni tanto la strada ci svanisce sotto i piedi e non si capisce più niente di dove stiamo andando.
«Il concerto è sempre un momento di gioia e divertimento, dunque colgo solo lati positivi. I giovani hanno potenza, energia, immaginazione, sono più predisposti di noi ad affrontare le sfide: ogni generazione si adatta al mondo che cambia. Non sono pessimista ma questa è una civiltà al tramonto. I tempi si son fatti veloci, in 5-10 anni cambia tutto. Si vive alla giornata, c’è mancanza di valori, tutto è vero e niente è vero.»
Chi detiene il potere, evidentemente, ha bisogno che le persone rimangano disorientate, fino a convincersi che non c’è nient’altro da fare che tirare avanti alla meno peggio. La tristezza sopravviene dopo. È il segno che si è girato a vuoto per troppo tempo. È una conseguenza.
Il concerto è potente: per registrare i pezzi nuovi Vasco va a Los Angeles, perché è lì «il centro del rock », ma per suonare dal vivo gli va benissimo la sua pattuglia di veterani. Innanzitutto il tris proveniente dalle file, più volte rimescolate, della Steve Rogers Band (Maurizio Solieri alle chitarre, Claudio “Gallo” Golinelli al basso e Andrea “Cucchia” Innesto al sax); poi Alberto Rocchetti alle tastiere, Frank Nemola alla tromba e Clara Moroni ai cori; infine, in trasferta dagli Usa, Stef Burns pure lui alle chitarre e Matt Laugh alla batteria. Un gruppo vero. Gente che ci dà dentro e se la spassa, ma che non perde il controllo. Bicchieri (boccali) sempre belli pieni: però senza esagerare, così non ti sbrodoli.
Vasco fa il resto. Sa già che sarà un trionfo, ma non si atteggia nemmeno per un attimo alla superstar calata dai cieli, discesa una tantum dall’Olimpo della Hit parade per concedersi all’adorazione dei comuni mortali. Ci sarà anche una scenografia della madonna e un oceano di fan, ma l’obiettivo non è mica battere i record di allestimento e di affluenza, per menarne gran vanto. L’obiettivo è stare bene. Noi che facciamo lo show. Voi che lo guardate. Noi che lo viviamo da qui. Voi che lo vivete da lì.
Lo stadio è avvolto nel buio, quando lui comincia a parlare. Il palco si tinge di un blu scuro, denso, come la notte che fa il primo passo verso l’aurora. Qua e là si accendono piccoli bagliori istantanei e discontinui. Come se l’impianto luci, gigantesco, stesse battendo le ciglia prima di svegliarsi del tutto. «Spinoza – scandisce lentamente Vasco – diceva che chi detiene il potere ha sempre bisogno che le persone siano affette da tristezza. Noi siamo qui questa sera per portarvi un po’ di gioia. GIOIA. GIO-IA-A-A.»
E poi ci sei dentro. Quasi due ore e mezza di canzoni che partono dall’ultimo disco e risalgono indietro verso le grandi cose del passato, verso quel passato che si riaccende di colpo e fa tutt’uno col presente. È il bello dei concerti dal vivo, quando sono così tanti anni che sei sulla breccia: decine di migliaia di persone e non c’è praticamente nessuno che sia lì per caso. All’origine le tue canzoni appartenevano solo a te: nascevano dalla tua vita, dalle tue esperienze, dai tuoi ricordi. Oggi sono vita ed esperienze e ricordi di tanti altri. Di tantissimi altri. Strano: età così diverse e ci capiamo al volo. I ragazzi di oggi e quelli di ieri. Non siamo mica uguali uguali, e non facciamo finta di esserlo, ma ce n’è quanto basta per intendersi. Per simpatizzare. Strano? Ma dai. È come dovrebbe sempre, purché i rapporti non si siano deteriorati fino a marcire. Eccoci qua. Padri e figli, fratelli maggiori e minori, amici di generazioni differenti. In cammino sulle strade della vita. E ogni tanto la strada ci svanisce sotto i piedi e non si capisce più niente di dove stiamo andando.
«Il concerto è sempre un momento di gioia e divertimento, dunque colgo solo lati positivi. I giovani hanno potenza, energia, immaginazione, sono più predisposti di noi ad affrontare le sfide: ogni generazione si adatta al mondo che cambia. Non sono pessimista ma questa è una civiltà al tramonto. I tempi si son fatti veloci, in 5-10 anni cambia tutto. Si vive alla giornata, c’è mancanza di valori, tutto è vero e niente è vero.»
Chi detiene il potere, evidentemente, ha bisogno che le persone rimangano disorientate, fino a convincersi che non c’è nient’altro da fare che tirare avanti alla meno peggio. La tristezza sopravviene dopo. È il segno che si è girato a vuoto per troppo tempo. È una conseguenza.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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