Dal Secolo d'Italia di giovedì 21 maggio 2009
Il personaggio che ispirò Tintin, per alcuni. Un uomo politico troppo colluso con i tedeschi per essere considerato in buona fede. Eppure, proprio in quanto a fede – cattolica – il fondatore del movimento Rex ne aveva tanta, fino a ostentarla. Fino a scrivere nel 1982 a Giovanni Paolo II. Insomma, chi era veramente Léon Degrelle? Domanda alla quale è difficile dare una risposta. Nato a Bouillon, in Belgio, nel 1906, fu giornalista, militante della gioventù cattolica e poi fondatore del movimento Rex, come detto, una delle realtà nate in Europa a cavallo degli anni Trenta e considerata da autorevoli studiosi come una delle tipologie di “fascismo sconosciuto”. Affascinato dalla tradizione mistica e spirituale, Degrelle ha fatto la campagna di Russia ed è rimasto fedele alle sue idee fino alla fine. L’indagine “sulla mente” di Léon Degrelle, a partire dai suoi scritti, è adesso – insieme ad altri temi – oggetto di studio contenuto nel nuovo di libro di Jonathan Littell Il secco e l’umido (Einaudi, pp.120, euro 18.00, traduzione di Margherita Botto). Ricordiamo che Littell si era già rivelato al pubblico italiano con l’uscita, due anni fa, di Les Bienveillantes, in italiano Le benevole, pubblicato da Einaudi. E anche stavolta lo scrittore statunitense naturalizzato francese si rifà allo stesso schema: assumere e illustrare la storia del ’900 dalla parte dei cosiddetti “carnefici”. Tuttavia, per il pubblico che si cimenta per la prima volta in una lettura sulla biografia del padre del rexismo belga, la maggiore innovazione e curiosità sta proprio nella spiegazione che Littell dà, in ampi stralci del saggio, della passione e della somiglianza con l’eroe delle bandes dessinées Tintin, il popolarisssimo personaggio dei fumetti creato da Hergè.
La ricostruzione che Littell vuole fare della vita di Degrelle è pressoché totale. Così, viene raccontato che, reduce dalla Russia, dopo la guerra, il leader rexista si rifugiò nella Spagna franchista dov’è poi morto nel 1994. Lì si fece costruire, nei pressi di Malaga, una sontuosa casa di residenza, denominata “La Carlina”, appollaiata in cima a un’altura, che incarna con enfasi smisurata il suo «acuto senso della rappresentazione e mette in scena al tempo stesso la sua estetica medioevale-fascisteggiante un po’ desueta, la sua megalomania e la sua ossessione per la verticalità, a sua volta espressa e governata da un circuito chiuso di immagini inconsce che rinviano le une alle altre». Già da queste descrizioni si capisce che, attraverso Il secco e l’umido, Littell vuole indagare la psicologia di uno dei personaggi più particolari e controversi dell’intero Novecento e della ”tentazione” fascista. Ma non solo. Lo scrittore, che attualmente vive a Barcellona, vuole anche svelare presunte verità sul conto di Degrelle. Come avrebbe finanziato il suo castello in Spagna? Gli storici avrebbero dimostrato che nei primi tempi dell’esilio viveva del bottino di rapine nelle gioiellerie di Bruxelles. «Poi – aggiunge su questo Littel – creò un’impresa di lavori pubblici che, grazie ai suoi contatti amichevoli con i pezzi grossi del regime franchista, ottenne l’appalto per costruire molte basi della Nato in Spagna. Ma questo affare segnò anche la fine della “Carlina”: insoddisfatti della qualità dei lavori, gli americani si rifiutarono di pagare Degrelle, che fu protagonista di un clamoroso fallimento e costretto a vendere il palazzo. Poco male: ci sarebbero stati altri affari, e Léon Degrelle non è morto povero. E se ha trascorso quarantanove anni a vivacchiare psichicamente, nel mondo materiale ha vissuto come un principe detronizzato, cullando i suoi rimpianti, fra le braccia di belle ragazze e in un lusso sfacciato, sotto il sole radioso della penisola iberica».
Così come lo scrittore americano non dimentica di raccontare aneddoti di vita vissuta, legati anche ad episodi in cui si parla del rapporto col Führer. «Degrelle si divertirà a lungo – spiega Littell – a mettere in scena un Hitler quanto mai sorprendente. La descrizione del loro primo incontro, nell’estate del 1936, si mantiene su un registro colloquiale: “Sin dal primo contatto è stata una cosa straordinaria. Come l’ho capito a fondo e come lui ha capito me”. Ma quando parla del 1944 siamo su un piano ben diverso: “Vedo ancora Hitler che mi stringe fra le braccia ... era l’uomo affettuoso, senza complicazioni… Vedendo i miei stivali, mi dice: “Senta, Léon, che numero porta?”. “Il 42”. “Ah, be’, io il 43”. Poi prende dall’armadio un paio di stivali, ci caccia dentro, in punta, un pezzo del Völkischer Beobachter, io mi provo gli stivali, ecco come andavano le cose! Era l’uomo che mi preparava i panini prima che me ne andassi! Era l’uomo che quando stavo per andar via mi portava una bottiglia di champagne, lui che non poteva vedere l’alcol…».
Per quanto aspetti del genere, ossia resoconti privati e inediti di personalità che sono sempre al centro di studi che cercano di raccontarli nella maniera più dettagliata possibile, abbiano destato interesse, è riguardo a Tintin che la vicenda di Degrelle ha provocato le maggiori curiosità. Degrelle rivendicherà a lungo, e per tutta la vita, il suo “lato Tintin” come amava definirlo. Nei suoi ultimi anni di vita scrisse anche un libro in cui si attribuiva la diretta paternità del personaggio di Hergé, ma a dissuaderlo dal pubblicarlo fu, in parte, l’intervento – che in Belgio suscitò scalpore – di un celebre conoscitore ed esperto di Tintin, Stéphane Steeman. E molti anni dopo la morte di Degrelle cominciò a circolare clandestinamente un volumetto intitolato Tintin mon copain, un album in carta patinata datato Natale 2000 e pubblicato a Klow, capitale della Sildavia, da una casa editrice inesistente quanto questa città. Sulla copertina, figurava un disegno di dubbio gusto di Tintin in uniforme delle SS tedesche. Quanto al testo, lo stesso Steeman, che aveva letto il manoscritto originale, giudica la versione pubblicata abbastanza simile ai suoi ricordi; ma l’iconografia, abbondante e nefanda, sarebbe stata in gran parte aggiunta da una persona che gravitava nella cerchia di Degrelle, e che avrebbe fatto pubblicare a proprie spese il libro così manipolato. In questo testo, dove non mancano sproloqui di vario genere e “rivelazioni” che, con il pretesto di difendere Hergé, mirano a metterlo nei guai il più possibile. Ma Degrelle è d’altronde da sempre considerato come unico modello di ispirazione del celebre reporter a fumetti. Il coraggioso ragazzo con il ciuffo a banana fece del resto la sua prima apparizione nel siupplemento del quotidiano cattolico Vingtième Siècle, nella cui redazione il disegnatore Hergé era diventato amico del suo coetaneo Léon Degrelle.
Jonathan Littell si lascia prendere dalla curiosità investigativa che ruota attorno a tutta la vicenda, e spiega: «Esiste una fotografia, che circolava ampiamente intorno al 1936 che è riprodotta nel libro. Degrelle racconta di aver dilapidato i proventi delle sue prime pubblicazioni per comperare questi pantaloni da golf, “abbigliamento di suprema eleganza”, a cui dedica un intero capitolo. A sentir lui, “Hergé era abbagliato da un simile lusso”; i pantaloni gli parevano “il non plus ultra dell’originalità”. Così, “per Hergé fu naturale far indossare (con la matita) dei pantaloni da golf, in tutto simili ai miei, al giovane Tintin che era ancora nudo”. E Degrelle assicura di essere stato l’unico, nella cerchia di Hergé, a portare quel tipo di pantaloni ». In realtà, stando a quanto espressamente dichiarato da Littell, in maniera abbastanza pertinente e certosina, «all’epoca era un capo di abbigliamento estremamente diffuso fra la borghesia belga, come, in una certa misura, i calzoni da cavallerizzo (una moda che sarebbe stata ripresa dai militari, soprattutto tedeschi, alcuni anni dopo)».
L’eroe dei fumetti belga non è del resto nuovo a situazioni similari a quelle narrate da Littell: da sempre, infatti, il personaggio creato da Georges Remi, meglio conosciuto come Hergè, è tirato per la giacca, insieme a tutto il suo armamentario da reporter e al cane Milù. Si è sempre cercato di aggiungere al corredo di Tintin simbologie politiche che, di volta in volta, lo hanno accostato ai movimenti della destra francese e francofona negli anni Ottanta e Novanta, a partire dai monarchici dell’Action francaise fino a Troisieme Voie, per passare, in Spagna, a emblema degli autonomisti catalani, con tanto di bandiera giallorossa in pugno. Se lo sono conteso in tanti: anche in Italia dove i radicali lo arruolarono come testimonial per un referendum. Ma il biondo e giovane giornalista fortunatamente è abituato a viaggiare in tutto il mondo, dal Congo al Tibet, dalla Russia agli Stati Uniti. Itinerari che in qualche modo sono retaggio di una mentalità novecentesca in cui si tendeva a schierare tutto e tutti, con qualche sofferenza di troppo per gli spiriti liberi. Dei quali cui, paradossalmente, Tintin è la migliore icona.
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Giornalista attento alle culture e alle dinamiche giovanili, lavora per E-Polis e collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.
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