Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 17 maggio 2009
Più che un gruppo un esperimento. Più che un progetto da realizzare, un’ipotesi ancora vaga da scandagliare per saperne di più. Per vedere se ha la forza di crescere. Per liberarne le potenzialità, se davvero ci sono. Per liberarsi delle sue false promesse, che ci sono sempre.
Era stato così con i CCCP, negli anni Ottanta. Con i CSI negli anni Novanta. Ed è stato così con i PGR, dal 2001 a oggi. Ci si incontra per caso o per destino, nel bel mezzo di vagabondaggi individuali. Ci si affianca, poiché la direzione di marcia è all’incirca la stessa e il piacere della compagnia tende a far dimenticare il bisogno di indipendenza e l’orgoglio della solitudine. Ci si stringe intorno alla tavola di una locanda o intorno al fuoco di un bivacco: uno comincia a intonare un canto che conosce, o che gli sta venendo in mente proprio adesso, e gli altri ci mettono del loro. Le sere sono più lunghe, quando si è in viaggio. Si fa amicizia con più facilità, quando si è lontani da casa. Giusto rallegrarsi. Meglio non farsi illusioni. Al di là di ciò che può sembrare, ora che si siede vicini e si dividono volentieri il vino e i pensieri, il fumo e le emozioni, ognuno resta il viandante che era. Quello che si è messo in cammino da solo. Quello che ha le proprie rotte incise nel cuore e tornerà a seguirle per conto suo, o prima o dopo.
CCCP, CSI e PGR sono vissuti di questo. Convergenze più o meno prolungate ma pur sempre temporanee: aggregazioni robuste per un verso e precarie per l’altro.
Andirivieni di comprimari intorno a un “centro di gravità permanente” che per quasi vent’anni, fino allo scioglimento dei CSI, è coinciso con Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, e che dopo la rottura del loro sodalizio si è ridotto a quest’ultimo. Un processo di continue composizioni e scomposizioni in cui la leadership restava implicita finché tutto andava bene, salvo manifestarsi in modo perentorio, e talvolta brutale, quando affioravano i contrasti. Eppure, ogni volta, la rottura di un equilibrio diventava il prologo di un riassetto. Di un nuovo inizio. Il terremoto aveva lasciato più macerie che vittime. Le macerie non deprimevano nessuno: qualcosa si recupera sempre, se sei disposto a scavare; qualcosa si impara comunque, se sei disposto ad apprendere.
Oggi, invece, lo scioglimento dei PGR sembra essere l’epilogo definitivo. Non solo del gruppo in quanto tale, ma di tutta la rete di relazioni artistiche che si era sviluppata in precedenza e che, dopo una lunga fase di espansione, si era drasticamente spezzata nel 2004 con l’abbandono di Ginevra Di Marco e di Francesco Magnelli. Accanto a Ferretti erano rimasti solo Giorgio Canali e Gianni Maroccolo. E l’assottigliarsi della formazione, purtroppo, aveva enfatizzato la centralità del primo a scapito dei secondi. Ancora più che in passato, la voce e i testi di Ferretti erano diventati l’asse portante, tramutando la propria forza in un limite alla creatività altrui. Per quanto le parole fossero ricche di significato e di invenzione, e per quanto l’interpretazione riuscisse a valorizzarle, esse finivano col togliere spazio alla musica in quanto tale, confinandola a un ruolo di supporto. Canali e Maroccolo facevano del loro meglio – e qua e là riuscivano nel miracolo di innalzare l’accompagnamento a creazione autonoma – ma per lo più l’amalgama tra le due componenti rimaneva incompleto. Avrebbero dovuto essere canzoni, sia pure nell’accezione meno ovvia e orecchiabile del termine: erano recitativi di grande suggestione e, spesso, di indubbia profondità, ma che quasi mai davano l’idea di una fusione totale, e originaria, con la musica sulla quale si stagliavano.
«Ho sempre cercato – sottolinea Canali nell’intervista rilasciata al Mucchio in occasione dell’uscita del nuovo album, Ultime notizie di cronaca – di fare delle sonorizzazioni per la vocalità, il testo, le parole di Giovanni, e credo che un suono possa far arrivare un concetto meglio di un altro».
“Delle sonorizzazioni”. “Un suono”. Non sembrano affatto termini scelti a caso, giusto per non ripetere troppe volte la parola “musica”. E non sembra per nulla casuale, analogamente, che la soddisfazione per il risultato finale si sposi alla mancanza di rimpianti per il concludersi dell’avventura. Mettersi totalmente al servizio di qualcun altro è stressante: e persino innaturale, se si possiede a propria volta una visione artistica ben precisa. Nonostante la stima che si può portare a un artista carismatico, alla lunga si avverte la necessità di influire maggiormente sul progetto nel suo insieme; si coltiva l’aspirazione a definire i contenuti, piuttosto che ad abbellire i contorni.
Simmetricamente, ora che i PGR sono ufficialmente sciolti, resta tutta da verificare la possibilità stessa che Giovanni Lindo Ferretti continui a incidere dischi. Come ha dimostrato in Reduce (Mondadori 2006, pag. 120, euro 13), le sue capacità di scrittura gli consentono di esprimersi anche al di fuori di un contesto musicale. Anzi: nella fissità della stampa certe osservazioni acquistano ulteriore risalto. E quello che perdono in emotività, nel caso in cui il lettore non sia capace di farle risuonare da solo dentro di sé, lo guadagnano sul piano concettuale. Non solo squarci di visione poetica ma vere e proprie affermazioni sul mondo. Sul posto dell’Uomo, nel mondo. Esaurito il ribellismo generico della gioventù, ecco il rifiuto consapevole della modernità progressista. E addirittura, con grande sconcerto dei sostenitori di un tempo, l’adesione al cattolicesimo di matrice preconciliare, con tutto quello che ne consegue di ammirevole o di insopportabile per chi se lo trovi di fronte, magari senza aspettarselo.
Ma lui, almeno per il momento, continua a restare innanzitutto un artista. Ciò che in altri sarebbe banale e fastidiosa ripetizione di affermazioni di principio, con un’allarmante tendenza a irrigidirsi nel dogma, nelle sue pagine e nei suoi versi continua a bruciare di curiosità per il mistero dell’esistenza, nelle sue più piccole come nelle sue più grandi manifestazioni. Non è un teologo, da giudicare in base alle risposte. È un uomo che cerca da così tanto tempo che le sue domande vibrano ancora di dubbio e di paura, persino quando restano implicite. Persino a sua insaputa.
Era stato così con i CCCP, negli anni Ottanta. Con i CSI negli anni Novanta. Ed è stato così con i PGR, dal 2001 a oggi. Ci si incontra per caso o per destino, nel bel mezzo di vagabondaggi individuali. Ci si affianca, poiché la direzione di marcia è all’incirca la stessa e il piacere della compagnia tende a far dimenticare il bisogno di indipendenza e l’orgoglio della solitudine. Ci si stringe intorno alla tavola di una locanda o intorno al fuoco di un bivacco: uno comincia a intonare un canto che conosce, o che gli sta venendo in mente proprio adesso, e gli altri ci mettono del loro. Le sere sono più lunghe, quando si è in viaggio. Si fa amicizia con più facilità, quando si è lontani da casa. Giusto rallegrarsi. Meglio non farsi illusioni. Al di là di ciò che può sembrare, ora che si siede vicini e si dividono volentieri il vino e i pensieri, il fumo e le emozioni, ognuno resta il viandante che era. Quello che si è messo in cammino da solo. Quello che ha le proprie rotte incise nel cuore e tornerà a seguirle per conto suo, o prima o dopo.
CCCP, CSI e PGR sono vissuti di questo. Convergenze più o meno prolungate ma pur sempre temporanee: aggregazioni robuste per un verso e precarie per l’altro.
Andirivieni di comprimari intorno a un “centro di gravità permanente” che per quasi vent’anni, fino allo scioglimento dei CSI, è coinciso con Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti, e che dopo la rottura del loro sodalizio si è ridotto a quest’ultimo. Un processo di continue composizioni e scomposizioni in cui la leadership restava implicita finché tutto andava bene, salvo manifestarsi in modo perentorio, e talvolta brutale, quando affioravano i contrasti. Eppure, ogni volta, la rottura di un equilibrio diventava il prologo di un riassetto. Di un nuovo inizio. Il terremoto aveva lasciato più macerie che vittime. Le macerie non deprimevano nessuno: qualcosa si recupera sempre, se sei disposto a scavare; qualcosa si impara comunque, se sei disposto ad apprendere.
Oggi, invece, lo scioglimento dei PGR sembra essere l’epilogo definitivo. Non solo del gruppo in quanto tale, ma di tutta la rete di relazioni artistiche che si era sviluppata in precedenza e che, dopo una lunga fase di espansione, si era drasticamente spezzata nel 2004 con l’abbandono di Ginevra Di Marco e di Francesco Magnelli. Accanto a Ferretti erano rimasti solo Giorgio Canali e Gianni Maroccolo. E l’assottigliarsi della formazione, purtroppo, aveva enfatizzato la centralità del primo a scapito dei secondi. Ancora più che in passato, la voce e i testi di Ferretti erano diventati l’asse portante, tramutando la propria forza in un limite alla creatività altrui. Per quanto le parole fossero ricche di significato e di invenzione, e per quanto l’interpretazione riuscisse a valorizzarle, esse finivano col togliere spazio alla musica in quanto tale, confinandola a un ruolo di supporto. Canali e Maroccolo facevano del loro meglio – e qua e là riuscivano nel miracolo di innalzare l’accompagnamento a creazione autonoma – ma per lo più l’amalgama tra le due componenti rimaneva incompleto. Avrebbero dovuto essere canzoni, sia pure nell’accezione meno ovvia e orecchiabile del termine: erano recitativi di grande suggestione e, spesso, di indubbia profondità, ma che quasi mai davano l’idea di una fusione totale, e originaria, con la musica sulla quale si stagliavano.
«Ho sempre cercato – sottolinea Canali nell’intervista rilasciata al Mucchio in occasione dell’uscita del nuovo album, Ultime notizie di cronaca – di fare delle sonorizzazioni per la vocalità, il testo, le parole di Giovanni, e credo che un suono possa far arrivare un concetto meglio di un altro».
“Delle sonorizzazioni”. “Un suono”. Non sembrano affatto termini scelti a caso, giusto per non ripetere troppe volte la parola “musica”. E non sembra per nulla casuale, analogamente, che la soddisfazione per il risultato finale si sposi alla mancanza di rimpianti per il concludersi dell’avventura. Mettersi totalmente al servizio di qualcun altro è stressante: e persino innaturale, se si possiede a propria volta una visione artistica ben precisa. Nonostante la stima che si può portare a un artista carismatico, alla lunga si avverte la necessità di influire maggiormente sul progetto nel suo insieme; si coltiva l’aspirazione a definire i contenuti, piuttosto che ad abbellire i contorni.
Simmetricamente, ora che i PGR sono ufficialmente sciolti, resta tutta da verificare la possibilità stessa che Giovanni Lindo Ferretti continui a incidere dischi. Come ha dimostrato in Reduce (Mondadori 2006, pag. 120, euro 13), le sue capacità di scrittura gli consentono di esprimersi anche al di fuori di un contesto musicale. Anzi: nella fissità della stampa certe osservazioni acquistano ulteriore risalto. E quello che perdono in emotività, nel caso in cui il lettore non sia capace di farle risuonare da solo dentro di sé, lo guadagnano sul piano concettuale. Non solo squarci di visione poetica ma vere e proprie affermazioni sul mondo. Sul posto dell’Uomo, nel mondo. Esaurito il ribellismo generico della gioventù, ecco il rifiuto consapevole della modernità progressista. E addirittura, con grande sconcerto dei sostenitori di un tempo, l’adesione al cattolicesimo di matrice preconciliare, con tutto quello che ne consegue di ammirevole o di insopportabile per chi se lo trovi di fronte, magari senza aspettarselo.
Ma lui, almeno per il momento, continua a restare innanzitutto un artista. Ciò che in altri sarebbe banale e fastidiosa ripetizione di affermazioni di principio, con un’allarmante tendenza a irrigidirsi nel dogma, nelle sue pagine e nei suoi versi continua a bruciare di curiosità per il mistero dell’esistenza, nelle sue più piccole come nelle sue più grandi manifestazioni. Non è un teologo, da giudicare in base alle risposte. È un uomo che cerca da così tanto tempo che le sue domande vibrano ancora di dubbio e di paura, persino quando restano implicite. Persino a sua insaputa.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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