domenica 3 maggio 2009

Senza compromessi, il funk di montagna del "giovane" Neil Young (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 3 maggio 2009

Essere giovani è forte. All’inizio, nella seconda metà degli anni Cinquanta e soprattutto nel decennio successivo, l’insegnamento del rock (and roll) fu innanzitutto questo: i ragazzi non sono solo degli abbozzi di adulti, da considerare alla stregua di un apprendista più o meno maldestro al cospetto di un lavoratore fatto e finito. I ragazzi sono forze della natura che muoiono dalla voglia di liberarsi, di sprigionarsi, di stagliarsi sullo sfondo di un muro, di uno stadio, di un orizzonte sconosciuto che ancora non riescono a vedere ma che già li reclama. I ragazzi, per loro fortuna e a loro rischio, ancora non conoscono così a fondo la paura e il dubbio, e la sconfitta, da barattare i propri slanci con un po’ di sicurezza.
Essere giovani è forte. È un valore in se stesso. È un universo parallelo – che si ripopola, provvidenzialmente, a ogni nuova generazione, e che ad ogni nuova generazione, fatalmente, si svuota quasi del tutto – in cui si entra senza nessun merito ma dal quale si merita eccome di essere espulsi. Non è solo questione di età: la differenza tra restare all’interno con onore e uscire con ignominia non la fa l’età in quanto tale; la fa l’invecchiamento del cuore, la disponibilità mansueta, codarda, a omologarsi in tutto e per tutto. Il fallimento del rock, a partire dagli anni Settanta, è stato questo: nella maggior parte dei casi, purtroppo, i ragazzi di talento avevano solo talento. Nessuna tempra morale. Nessuna determinazione a battersi non solo per se stessi ma per gli altri. Individualisti nel senso peggiore del termine, intossicati di successo ancor più che di droga.
Eppure, se non altro, i fallimenti collettivi hanno un pregio: fanno risaltare le figure di quei pochi che hanno tenuto duro e hanno seguitato ad andare dritti per la loro strada, convinti che il rivoluzionario convertito faccia ancora più schifo del cortigiano precoce. Per restare nell’ambito del rock, ci sono quelli che con l’andare del tempo hanno fatto una pessima fine – lasciandosi scivolare di buon grado nella melma del pop più ruffiano, nel cui tiepido abbraccio sguazzano tutti contenti esibendo le loro abbronzature patinate e i loro migliori sorrisi – e quelli che in un modo o nell’altro sono rimasti in piedi a darci dentro sul serio, cacciatori per passione e non (non sia mai) bracconieri per profitto.
«Uhm, lungo la strada per venire qui, Stone Gossard... ha detto che un suo amico, Lonnie, chiama la musica di Neil, uh… “funk di montagna”. Lui era “il re del funk di montagna.” Ho pensato che fosse forte».
Neil è Neil Young. Stone Gossard è il chitarrista dei Pearl Jam. La frase è di Eddie Vedder, a sua volta cantante dei Pearl Jam. L’occasione, che risale al 12 gennaio 1995, è la cerimonia di ingresso dello stesso Young nella “Rock'n'Roll Hall of Fame”. Come qualsiasi altra, naturalmente, la definizione di Gossard è opinabile. Però ha ragione Vedder: è forte. Una bella, robusta, azzeccata (e azzardata) combinazione di termini in cui coesistono un’impressione immediata di potenza e un sottofondo di pericolo: re, funk, montagna. Il re fa quello che crede e, se non è solo un innocuo ornamento delle democrazie liberali, non ne deve rispondere a nessuno. Il funk è il lato oscuro della black music: non così immediato come il blues, non così suadente come il soul, non così celebrato come il jazz. La montagna è durezza e difficoltà: riparo naturale per chi sia abbastanza in gamba da viverci, minaccia costante per chi vi si accosti in modo avventato.
Piaccia o non piaccia – nei suoi esiti artistici e nei suoi atteggiamenti personali – Neil Young ha innanzitutto questo pregio: non si arruffiana nessuno. Non rincorre le mode, non replica i dischi in funzione del loro esito commerciale, non è disposto a cedere i suoi pezzi a uso pubblicitario. Preferisce sbagliare qualcosa, e fare molto, piuttosto che eclissarsi chissà dove e lasciare che la sua immagine sia ingigantita dall’assenza, nel presupposto, quasi sempre falso, che il protrarsi dell’elaborazione incrementi le probabilità di ottenere un capolavoro. La sua prospettiva è completamente diversa: dieci canzoni, o giù di là, equivalgono a un album. Quando le canzoni sono state scritte si incidono. Quando si è finito di inciderle si pubblicano. E lo stesso, più o meno, vale per l’approccio espressivo: battere nuove strade significa sondarne le possibilità, vuoi con un’incursione isolata, vuoi con una serie di esplorazioni successive, e non abiurare per sempre a ciò che si è fatto in precedenza.
Album dopo album, canzone dopo canzone, Neil Young si spinge in direzioni diverse. Anche contraddittorie, certo. Come ha ben sintetizzato Antonio Lodetti sul Giornale, recensendo quest’ultimo Fork in the Road, “Esistono e convivono – spesso contraddicendosi – mille Neil Young. Dal rocker solitario all’indiano metropolitano folk e psichedelico dei Buffalo Springfield, dal ‘country boy’ disincantato di Harvest e di mille altre belle pagine acustiche a quello protopunk che ha ispirato i Pearl Jam. La mappa dei suoi dischi è frastagliata come la sua personalità. Unico comun denominatore: l’impegno sociale. Sempre contro la guerra, la violenza, l’ingiustizia”.
Davvero non poco, specie di questi tempi. Ma la tensione morale è solo la premessa: Fork in the Road regge la scena con le proprie forze. La maggior parte dei pezzi, ad eccezione della mediocre Johnny Magic, è carica di un’energia fremente che scandisce il viaggio e che invita a seguire di buon passo questo “giovanotto di 63 anni” che non si dà per vinto, nonostante l’aneurisma cerebrale che lo ha colpito nel 2005 e che, per poco, non se l’è portato via. Le pause, Off the Road e Light a Candle, sono le piccole soste in cui lasciar rifluire i pensieri e le emozioni: i momenti in cui risalta ancora di più, forse, la consapevolezza che lui è lo stesso che tanti anni fa compose Harvest e Tonight’s the Night. Testardo e combattivo e improvvisamente introverso, oggi come allora. Pieno di fede nella sua arte. Pieno a volte di dolore, a volte di rabbia, per la società che c’è intorno. E però determinato, sempre, a fare a modo suo, a non sprecare, a non sporcare, il dono del suo talento. Ancora un passo. Ancora una canzone. Essere giovani è forte. Restare integri per tutta la vita è straordinario.

Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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