Dal Secolo d'Italia, edizione di giovedì 30 aprile 2009
Oggi sono già vent'anni che Sergio Leone ci ha lasciato. In quel 30 aprile del 1989 era solo un sessantenne e aveva firmato da regista otto pellicole, quanto bastava per farlo considerare uno dei più grandi cineasti dell'intero Novecento. Un grande regista italiano, un grande artista del nostro incandescente secolo breve. I suoi film - da Per un pugno di dollari a Giù la testa sino a C'era una volta in America - continuano a costituire dei veri e propri cult per intere generazioni, i ragazzi under 35 citano a memoria interi dialoghi delle sue pellicole, la pagina di Sergio Leone su facebook battie in numero di fan quella di tutti gli altri autori di cinema: sono oltre 50mila i suoi appassionati già registrati. Non solo: le grandi istituzioni culturali e le università di tutto il mondo continuano a studiarlo. Anche se, nonostante tutto ciò, Leone è ancora un outsider, non ha mai goduto dei consensi di un certo establishment: «Molto dipende dal fatto - ha ricordato tempo fa la vedova, Carla Ramalli, intervistata da Paolo Conti sul Corriere della Sera - che Sergio non era un uomo di sinistra e la sinistra non lo ha mai perdonato per questo. Gli davano dell'uomo di destra, quasi del fascista».
D'altronde non fu mai premiato con l'Oscar. «La morte lo ha preso troppo presto» ha annotato sul Giornale il critico Massimo Bertarelli. Nonostante ciò, per la sua importanza nello sviluppo del cinema nel 1992 Clint Eastwood, nel suo film Gli spietati, inserì nel titolo di coda la dedica «A Sergio». Su tutto la sua grande vocazione: «Il cinema - disse una volta - dev'essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito». Spiegò prima di girare C'era una volta in America: «Fare un film di contestazione o di critica sarebbe al tempo stesso temerario e ridicolo, una dimostrazione di ambizione mal riposta, priva di qualunque credibilità. Un film è invece un racconto di fantasia, una favola... scritta naturalmente per gli adulti, ma sempre una favola». Lunedì prossimo, 4 maggio, a Roma l’associazione Italia Protagonista ricorderà, non a caso, il grande cineasta: alle ore 18, al Cinema Nuovo Olimpia, ci sarà un significativo omaggio a Leone con la proiezione di un documentario sulla vita e le opere del compianto cineasta romano nel quale, oltre ad alcune tra le più celebri scene cult tratte dai suoi film, compaiono interviste al regista, ai suoi familiari, agli attori e ad alcuni dei suoi storici collaboratori che raccontano aneddoti imperdibili sul suo modo di fare cinema. Un evento che, tenendo conto di quanto sottolineato sinora, non nasconde l’irriducibilità dell’opera di Leone alla cultura di sinistra: non a caso intrverranno il maestro Gian Luigi Rondi, presidente del Festival internazionale del film di Roma, il figlio del regista, Andrea Leone, e il presidente dell’associazione, il senatore Maurizio Gasparri.
Qualche anno fa lo storico Giorgio Cingolani – rievocando le mitologie della destra italiana degli anni ’70 – ha spiegato come i giovani di destra «si ritrovavano nei film di Sergio Leone perché riconoscevano tutti temi cari al loro mondo: il disprezzo per l’utilitarismo, il coraggio, la vita avventurosa...». In Francia, alla fine di quello stesso decennio, uscì un libro di Pascal Ory, docente di storia all’università di Nanterre, intitolato L’anarchismo di destra, con un sottotitolo molto significativo: “Da Céline a Clint Eastwood”, in cui la cinematografia di Sergio Leone la faceva da padrona. In proposito, lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni – che per Leone scrisse Per qualche dollaro in più, poi Il buono, il brutto e il cattivo e Giù la testa – ricorderà nella sua bella autobiografia Pane e cinema (Gremese): «Tra le motivazioni che mi hanno portato a fare cinema ce n’è una più forte delle altre: il mio incontro con Louis Destouches, in arte Céline. L’incontro fatale, la vera svolta. Avevo sedici anni, c’era la guerra, e una mattina, a Padova, dopo una grandinata di bombe americane, le sirene avevano dato il segnale di cessato allarme. Mi diressi verso casa, quando su una bancarella di libri usati vidi e comprai Viaggio al termine della notte, di Céline. Quella vecchia copia, polverosa e ingiallita, è anche ora davanti a me». Quel romanzo, prosegue lo sceneggiatore, è stato il sogno di tanti registi, lo avrebbero voluto realizzare Renoir, Carné, Clément...». E, alla fine, anche Leone: «Aveva visto la copia del romanzo sul mio tavolo, quella polvertosa e ingiallita. Lo lesse e mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai tutto il mio entusiasmo. Lui andò anche in Francia con l’intenzione di realizzarlo...».
Il tratto céliniano è del resto palese in molte suggestioni de Il buono, il brutto e il cattivo e in Giù la testa, dal disincanto nichilistico nei confronti della guerra al ridimensionamento del rapporto consueto tra vincitori e vinti... E sarà un passione, quella per il capolavoro di Céline, che unirà Leone a un ltro grande regista nonconformista: Sam Peckinpah, l’autore di un indimenticabile western come Il mucchio selvaggio. E non a caso il cineasta californiano (ma mezzo irlandese e mezzo pellerossa) verrà celebrato in Il mio nome è nessuno, un film del 1973, realizzato da Tonino Valeri ma su un’idea di Sergio Leone che ne era anche il produttore. Il nome del regista americano appare infatti visibile su una tomba di fronte alla quale i due protagonisti – Henry Fonda e Terence Hill – celebrano il tramonto dell’epopea del West. Molto, infatti, accomunava Peckinpah a Leone, a cominciare dalla passione per Viaggio al termine della notte, un romanzo – diceva il cineasta romano – in grado di evidenziare al massimo «le contraddizioni della vita del mondo moderno».
A cominciare da una certa idea dell’America. «Uno dei primi amori della mia generazione – ha raccontato Leone – è l’America come ce l’ha mostrata Hollywood... Poi col tempo cominciai a capire che gli americani non sono aquile e, anzi, hanno il dannato vizio d’annacquare il vino delle loro idee mitiche con l’acquetta dell’american way of life di cui, tra parentesi, non importa niente a nessuno che abbia la testa avvitata sulle spalle. C’è una visione dell’America totalitaria e quasi sovietica. Un mondo senza conflitti, Abele senza Caino. Per un pugno di dollari nasceva anche da qui. Volevo rendere conto anche del ghigno crudele dell’America, ero stufo dei suoi sorrisi brillanti d’ingegneria dentaria. L’igiene e l’ottimismo sono i tarli che rodono il legno americano...»
In uno straordinario libro-intervista di Diego Gabutti – in cui, oltretutto, il noto giornalista segnava, nel 1984, il passaggio dalla sua formazione anarco-situazione a un libertarismo oltre la sinistra, preludio di quanto stava avvenendo nella cultura italiana in quella stagione – e intitolato C’era una volta in America (Rizzoli), Leone definisce il suo primo film della “trilogia del dollaro” nient’altro che «un film sull’America e la mia giovinezza nel cinema». Leone, d’altronde, era figlio di Roberto Roberti, regista-pioniere dell’industria cinematografica italiana ai tempi del muto e di Bice Walerian, un’attrice di quegli anni. Cresciuto praticamente a Cinecittà, rivelò subito una stupefacente abilità tecnica nel girare per i colossal dei mitici anni Cinquanta le scene di battaglia e le sequenze di massa. Tutte di stampo mitico le sue prime collaborazioni, tra le quali Quo Vadis? di Mervyn Le Roy, primo dei grandi film storici realizzati in Italia, Elena di Troia di Robert Wise, e, soprattutto, Ben Hur di William Wyler, in cui molti lo indicano come il vero artefice dell’indimenticabile corsa delle bighe. Assistente alla regia, quindi, ma anche sceneggiatore per Gli ultimi giorni di Pompei di Mario Bonnard, un colossal tutto italiano spettacolare e grandioso, in cui Sergio Leone dovette trasformarsi in regista per sostituire Bonnard ammalato. Poi la sua prima regia ufficiale con Il colosso di Rodi, sempre in ambito mitologico-avventuroso. Poi la svolta western.
«Avevo visto – ha raccontato Leone a Gabutti – quel meraviglioso film di Kurosawa, La sfida del samurai, uscito nel 1961, e pensavo che sarebbe stato possibile trasformarlo in un magnifico western. Anche John Sturges, poco tempo prima, aveva tratto un grosso western, I magnifici sette, da un altro film di Kurosawa, I sette samurai...». D’altronde lo stesso Kurosawa s’era ispirato a Pirandello per il suo Rashomon... Fu l’idea per il suo primo western: «Scrissi la sceneggiatura con Duccio Tessari, al quale continuavo a ripetere che dovevamo ispirarci all’Iliade di Omero, perché quella era l’origine di tutto, del western come della storia umana... ». Nella scelta degli attori, prevalse l’idea di trasformare i caratteristi in protagonisti. Da cui la scelta dell’americano Clint Eastwood per il ruolo dell’Uomo senza nome: «Sfogliando l’annuario degli attori vidi questa figura dinoccolata e sottile, dai lineamenti precocemente scavati, non ebbi più dubbi. Qualche ruga intorno agli occhi, un cigarillo tra le labbra, due dita di barba e avrebbe fatto la sua porca figura». E poi Gian Maria Volonté per la figura di Ramon: «Era un caratterista di razza pura. In quegli anni era molto sbilanciato a destra. Nero come l’anima di un bugiardo...». Era il 1964, e Per un pugno di dollari riscosse uno straordinario successo di pubblico. L’anno successivo ancora successo con Per qualche dollaro in più... «La critica – ricordava Leone a Gabutti – s’era divertita a gettare palate di fango su Per un pugno di dollari, bollandolo come un inno alla violenza. La criticuzza pontificava, spaghetti western di qua e spaghetti western di là, tirando sempre in ballo fenomeni di costume e regressioni di massa, persino il centrosinistra e la Madonna di Loreto....». E con quel tipo di critico Leone era lapidario: «Stempiato, contorto di modi, moscio, con l’accento blasé. Un pubblico esegeta del Posto delle fragole, che magnificava in terza pagina, senza averne capito nulla...».
Il successo dei suoi film fu il più grande schiaffo nei confronti di questi ambienti. E quando, colpito da un infarto, il regista moriva il 30 aprile dell’89, rimasero incompiuti i suoi ultimi tre sogni: il film sul Viaggio al termine della notte, il rifacimento “all’italiana” di Via col vento e il kolossal su I 900 giorni di Leningrado. Un’idea che – come ha ricordato Bertarelli – gli fece lanciare l’ultimo sberleffo a quegli intellettuali che non l’avevano mai amato: «Che ignoranti, lo confondono ancora con la battaglia di Stalingrado».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
1 commento:
"Allora non sei ancora diventato un uomo d'affari, come Morton" - "Sono soltanto un uomo" - "Una razza vecchia: verranno altri tipi come Morton e la faranno scomparire" - "Questa è una storia che non riguarda noi. Io non sono qui per il denaro, la terra o la donna. Sono qui unicamente per te: perchè ora tu mi dirai chi sei" - "Potresti non saperlo mai" - "Lo so" - (dialogo tra Armonica e Frank, da "C'era una volta il West").
Ecco, anch'io ho citato a memoria. Perchè registi così... non ne nascono più... CIAO SERGIO!!!
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