Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 10 maggio 2009
Ne ha viste troppe, Bob Dylan, per preoccuparsi di quali saranno le reazioni del pubblico e della critica a quello che fa. Se va bene, bene. Se va male, amen. Non è solo questione di esperienza. Men che meno è il classico disincanto degli anziani. Dylan ce l’ha sempre avuto, questo gusto ironico (che un po’ esalta e un po’ deprime) di osservare gli altri e di misurare al colpo d’occhio l’abisso che separa lui da loro, e loro da lui. Basta vedere Don’t Look Back, il film documentario che D.A. Pennebaker realizzò in occasione del tour inglese a cavallo tra aprile e maggio 1965 e che, dopo l’uscita nel 1968, è oggi reperibile in versione homevideo. Una scena, in particolare. Dylan è a Newcastle e si incontra con un non meglio identificato “studente di scienze”, che lo avvicina qualificandosi come collaboratore part-time di un quotidiano locale. In realtà si chiama Terry Ellis e, anni dopo, sarà il cofondatore della celebre etichetta discografica Chrysalis. Giacca e cravatta, occhiali, capelli lunghetti ma pettinati a puntino, il giovanotto ostenta sicurezza e cerca di dialogare con lui su un piano di assoluta parità, se non di velata competizione. Bob non gli dà scampo. Spezza la girandola di luoghi comuni con domande sarcastiche, ma intelligenti e appropriate, e, quindi, del tutto legittime. L’altro annaspa, si irrigidisce, cerca vanamente di contrattaccare: nelle sue intenzioni vorrebbe essere brillante e a sua volta ironico; di fatto si contorce sotto il peso delle sue stesse banalità. E alla fine, manco a dirlo, fa la faccia offesa.
Dylan, all’epoca, aveva poco meno di 25 anni. Ma aveva già realizzato Blowin’ in the Wind e The Times They Are a-Changin’. E aveva già avuto la forza di chiamarsi fuori dal folk come stile codificato e immutabile, utilizzando strumenti non solo acustici ma anche elettrici per il suo nuovo album Bringing It All Back Home. Soprattutto, talento artistico a parte, possedeva un’intelligenza acuta e un carattere per nulla accomodante: nessun problema, se abbiamo idee diverse; ma che siano idee degne di tal nome, perdio! Non la solita risciacquatura di teorie altrui, di insegnamenti acquisiti, di giudizi standardizzati che si ripetono a pappagallo.
Figuratevi oggi, allora. Forte dei suoi 68 anni, e dei quasi 50 da musicista a tempo pieno, Dylan sa distinguere con estrema chiarezza i confini che separano i diversi aspetti della propria attività. Sa alla perfezione, e da tempo, che il fine ultimo di ciò che fa non è blandire i fan o accattivarsi il consenso dei critici. Il fine ultimo è offrire nuove scene a una rappresentazione di sé che si snoda da mezzo secolo e che, verosimilmente, proseguirà fino alla fine dei suoi giorni. Rappresentazione di sé: non un riflesso immediatamente autobiografico. Una lunghissima galleria di impressioni che pescano nella realtà esterna e nella irrealtà interiore. Oppure, se si preferisce, nelle finzioni esterne e nelle verità interiori. Nel bisogno di verità, quanto meno.
«Non è così facile per me rapportarmi a quel che un disco significa. È una dichiarazione, è la sua propria dichiarazione, la sua propria entità, piuttosto che essere qualcosa a proposito di qualcos'altro. Se io fossi un pittore... non dipingerei una sedia, ma le sensazioni a proposito di quella sedia...»
L’artista come terminale di un flusso, di percezione e rielaborazione. L’opera d’arte come punto di partenza di una nuova corrente, che avrà tante ramificazioni quante sono le persone che ne sono state coinvolte. Gli album, perciò, come tracce disseminate lungo un peregrinare che si svela di giorno in giorno, piuttosto che come tappe di un percorso lineare. Gli album come punti di sosta, in cui ci si ferma e ci si racconta, lungo le strade di un viaggio che in realtà non è affatto un viaggio unitario, con delle mete da raggiungere e delle spiegazioni precise per tutto, ma una successione di spostamenti eterogenei, dettati dalle ragioni più diverse: a volte un avvicinamento pieno di speranza; altre volte un allontanamento pieno di dolore, o tristezza, o rabbia.
È un po’ come per Springsteen. Il giudizio su ogni nuovo disco dipende in misura determinante dalle aspettative che si hanno: più esse sono alte, più è probabile che si rimarrà insoddisfatti. Il passato diventa un ingombro, un esempio inarrivabile, un paragone che può risultare persino imbarazzante. La passione, delusa, lascia il posto ai malumori. Disappunto individuale. Discussioni, o addirittura processi, tra i fan. Perché ci ha traditi? Perché non si è impegnato abbastanza?
Le domande sono altre. E sono quelle che possono permettere di ribaltare la prospettiva: sarebbe meglio non incidere più nulla, se non si ha sotto mano qualcosa di straordinario? Non è che si attribuisce a ogni nuovo album un compito sproporzionato e innaturale, chiedendogli di eguagliare, o persino di oltrepassare, i vertici già toccati in precedenza? Tolto il peccato mortale della malafede, quando i dischi si confezionano al solo scopo di lucrare sull’affetto degli appassionati, e tolto il vizio insormontabile, e imperdonabile, di una completa mancanza di ispirazione, un passato leggendario non può essere utilizzato come prova a carico per stroncare il presente. Al contrario: Dylan, e come lui Springsteen, portano sempre e comunque con sé il carisma di ciò che hanno fatto. Se la genialità è il prezzo da pagare per uscire dall’anonimato, bene, quel prezzo lo hanno già pagato. Eccome. Ora è sufficiente che aggiungano qualche ulteriore dettaglio al quadro che hanno già tracciato. Quel quadro che è, e che resta, grandioso.
E pertanto: com’è il nuovo album di Dylan – che egli stesso definisce “un disco romantico” ma che dell’amore riverbera i ricordi e i dubbi malinconici piuttosto che le inebrianti (in)certezze; che raccoglie dieci canzoni con parecchio blues e una robusta dose di tex-mex, provvidenziale pretesto/lasciapassare per avvalersi della fisarmonica del “lobo” David Hidalgo, e giusto un paio di ballate; coi testi, non particolarmente inventivi, scritti quasi tutti a quattro mani con Robert Hunter, già paroliere dei Grateful Dead; e con la voce di Bob ancora più roca, quasi sprofondata in se stessa, ma assai convincente – intitolato Together Through Life?
Bello. Alle condizioni che abbiamo detto, ma bello.
Dylan, all’epoca, aveva poco meno di 25 anni. Ma aveva già realizzato Blowin’ in the Wind e The Times They Are a-Changin’. E aveva già avuto la forza di chiamarsi fuori dal folk come stile codificato e immutabile, utilizzando strumenti non solo acustici ma anche elettrici per il suo nuovo album Bringing It All Back Home. Soprattutto, talento artistico a parte, possedeva un’intelligenza acuta e un carattere per nulla accomodante: nessun problema, se abbiamo idee diverse; ma che siano idee degne di tal nome, perdio! Non la solita risciacquatura di teorie altrui, di insegnamenti acquisiti, di giudizi standardizzati che si ripetono a pappagallo.
Figuratevi oggi, allora. Forte dei suoi 68 anni, e dei quasi 50 da musicista a tempo pieno, Dylan sa distinguere con estrema chiarezza i confini che separano i diversi aspetti della propria attività. Sa alla perfezione, e da tempo, che il fine ultimo di ciò che fa non è blandire i fan o accattivarsi il consenso dei critici. Il fine ultimo è offrire nuove scene a una rappresentazione di sé che si snoda da mezzo secolo e che, verosimilmente, proseguirà fino alla fine dei suoi giorni. Rappresentazione di sé: non un riflesso immediatamente autobiografico. Una lunghissima galleria di impressioni che pescano nella realtà esterna e nella irrealtà interiore. Oppure, se si preferisce, nelle finzioni esterne e nelle verità interiori. Nel bisogno di verità, quanto meno.
«Non è così facile per me rapportarmi a quel che un disco significa. È una dichiarazione, è la sua propria dichiarazione, la sua propria entità, piuttosto che essere qualcosa a proposito di qualcos'altro. Se io fossi un pittore... non dipingerei una sedia, ma le sensazioni a proposito di quella sedia...»
L’artista come terminale di un flusso, di percezione e rielaborazione. L’opera d’arte come punto di partenza di una nuova corrente, che avrà tante ramificazioni quante sono le persone che ne sono state coinvolte. Gli album, perciò, come tracce disseminate lungo un peregrinare che si svela di giorno in giorno, piuttosto che come tappe di un percorso lineare. Gli album come punti di sosta, in cui ci si ferma e ci si racconta, lungo le strade di un viaggio che in realtà non è affatto un viaggio unitario, con delle mete da raggiungere e delle spiegazioni precise per tutto, ma una successione di spostamenti eterogenei, dettati dalle ragioni più diverse: a volte un avvicinamento pieno di speranza; altre volte un allontanamento pieno di dolore, o tristezza, o rabbia.
È un po’ come per Springsteen. Il giudizio su ogni nuovo disco dipende in misura determinante dalle aspettative che si hanno: più esse sono alte, più è probabile che si rimarrà insoddisfatti. Il passato diventa un ingombro, un esempio inarrivabile, un paragone che può risultare persino imbarazzante. La passione, delusa, lascia il posto ai malumori. Disappunto individuale. Discussioni, o addirittura processi, tra i fan. Perché ci ha traditi? Perché non si è impegnato abbastanza?
Le domande sono altre. E sono quelle che possono permettere di ribaltare la prospettiva: sarebbe meglio non incidere più nulla, se non si ha sotto mano qualcosa di straordinario? Non è che si attribuisce a ogni nuovo album un compito sproporzionato e innaturale, chiedendogli di eguagliare, o persino di oltrepassare, i vertici già toccati in precedenza? Tolto il peccato mortale della malafede, quando i dischi si confezionano al solo scopo di lucrare sull’affetto degli appassionati, e tolto il vizio insormontabile, e imperdonabile, di una completa mancanza di ispirazione, un passato leggendario non può essere utilizzato come prova a carico per stroncare il presente. Al contrario: Dylan, e come lui Springsteen, portano sempre e comunque con sé il carisma di ciò che hanno fatto. Se la genialità è il prezzo da pagare per uscire dall’anonimato, bene, quel prezzo lo hanno già pagato. Eccome. Ora è sufficiente che aggiungano qualche ulteriore dettaglio al quadro che hanno già tracciato. Quel quadro che è, e che resta, grandioso.
E pertanto: com’è il nuovo album di Dylan – che egli stesso definisce “un disco romantico” ma che dell’amore riverbera i ricordi e i dubbi malinconici piuttosto che le inebrianti (in)certezze; che raccoglie dieci canzoni con parecchio blues e una robusta dose di tex-mex, provvidenziale pretesto/lasciapassare per avvalersi della fisarmonica del “lobo” David Hidalgo, e giusto un paio di ballate; coi testi, non particolarmente inventivi, scritti quasi tutti a quattro mani con Robert Hunter, già paroliere dei Grateful Dead; e con la voce di Bob ancora più roca, quasi sprofondata in se stessa, ma assai convincente – intitolato Together Through Life?
Bello. Alle condizioni che abbiamo detto, ma bello.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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