martedì 2 giugno 2009

Dentro il labirinto di Dio: "Le vie dei canti" di Bruce Chatwin

Da La Voce del Ribelle, anno 2 numero 8 (maggio 2009)
Mensile diretto da Massimo Fini
Rubrica "Usciti ieri"
Nel maggio ’68 l’Occidente sembra prendere fuoco. Gli studenti erigono barricate. Le manifestazioni, dalle università alle fabbriche, riempiono le strade e le piazze. Eppure il giovane Bruce Chatwin, inglese di Sheffield, non ancora trentenne, volge altrove il suo sguardo. Troppo distanti, i suoi interessi, preso com’è dalla preparazione di una mostra dedicata all’arte nomade delle steppe asiatiche nel periodo tra il V e il VI secolo avanti Cristo per conto dell’Asia House Gallery di New York. L’idea è di «scrivere un testo basilare che restituisse ai nomadi un posto importante nella storia. Ciò che mi interessava di più – spiegò – erano gli individui sfuggiti alla classificazione archeologica, i nomadi, che avevano lasciato tracce sul terreno e non avevano costruito piramidi». Inizia proprio nell’anno della contestazione, il “viaggio” che porterà Chatwin, all’epoca insofferente studente di archeologia, tra le tribù nomadi dell’Afghanistan, dell’Africa, della Mauritania e della Persia. Ben lontano dal clichè, che pure gli è stato cucito addosso, di eccentrico autore di pittoreschi reportage in luoghi esotici incontaminati dal turismo di massa, nelle sue opere Chatwin si dimostra un esploratore dell’animo umano e delle civiltà tutt’altro che superficiale. Senza pregiudizi, né verso gli uomini né nei confronti delle culture cui si avvicinava. Di quel viaggio – che per lui rappresentava un’esigenza insopprimibile piuttosto che un lavoro – ne ha scritto, a coronamento di vent’anni di studi sul campo, in Le vie dei canti, il libro che Chatwin inseguì per anni e che fece appena in tempo a scrivere, prima che la morte lo portasse via nel gennaio 1989 e a soli 49 anni, beffando la smorfia dell’invecchiamento e facendosi mito. Icona esistenziale e marchio commerciale dell’inquietudine delle generazioni post-ideologiche degli anni Ottanta e Novanta.
L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1987, arrivò nel nostro paeese – grazie all’Adelphi di Roberto Calasso, che di Chatwin fu amico prima ancora che editore – l’anno successivo. Per gli aborigeni – spiega – la terra è tutta segnata da un intrecciarsi di “vie dei canti” o “piste del sogno”, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi: erano quelle le “impronte degli antenati” o la “via della legge”. Dietro questo fenomeno, che apparve subito enigmatico agli antropologi occidentali, si cela una vera metafisica del nomadismo. Le vie dei canti, pur essendo strutturato come un racconto, in quanto ci accompagna in un itinerario di incontri e avventure picaresche nel profondo dell’Australia, è anche e soprattutto un percorso di idee – una musica, diremmo – che muove da un interrogativo: perché l’uomo, fin dalle origini, ha sentito un impulso irresistibile a spostarsi, a migrare? E poi: perché i popoli nomadi tendono a considerare il mondo come perfetto, mentre i sedentari tentano incessantemente di mutarlo? Perché il canto era il principale oggetto di scambio per gli aborigeni e in che misura i sistemi adottati in seguito rappresentano varianti di quel modello originario e universale? In realtà, Chatwin non cerca risposte, né tantomeno ha tesi da sostenere. Non è la curiosità morbosa o dottorale del ricercatore a muoverlo, ma il desiderio di (ri)scoprire la radice stessa del proprio essere, una via di fuga dal disagio esistenziale provocato dalla moderna civilizzazione di massa.
«La vera casa dell’uomo – aveva annotato su uno dei suoi irrinunciabili quanto ormai “mitici” moleskine neri, tanto rari all’epoca quanto oggetto di un merchandising sfrenato oggi – non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi». Sembra una frase di Jack Kerouac o di uno dei tanti emulatori della filosofia beat celebrata nel suo On the road, ma Chatwin, al contrario, non prescinde mai da una consapevolezza di fondo: non c’è innovazione che non poggi saldamente su qualcosa di radicato, non c’è viaggio fine a se stesso o senza destinazione. E la destinazione è l’autenticità: «Nessun uomo può vagabondare senza una base. Bisogna avere una sorta di cerchio magico a cui si appartiene e non è necessariamente il posto in cui si è nati o in cui si è stati allevati. È un posto con cui ci si identifica».
Chatwin, non a caso, non amava essere definito uno scrittore di viaggi: «Mi ha sempre irritato. Per questo ho scritto qualcosa su due personaggi che non si sono mai mossi da casa». Dopo il successo di In Patagonia (1977), infatti, scrisse il romanzo Sulla collina nera (1982), ambientato nel Galles celtico, «il centro emotivo della mia vita». Una zona che Susannah Clapp – editor, amica e confidente dello scrittore inglese, nonché autrice della biografia Con Chatwin (Adelphi 1998) – descrive così: «Zona di cieli alti e chiese basse, di vecchie famiglie di contadini, di coloni solitari e stravaganti. Dagli anni Sessanta si è popolata di alternativi. I più irrequieti non sempre sono stati ben accolti dalla gente del posto, tanto che nei paesi comparivano spesso cartelli con la scritta QUI NIENTE HIPPIE». Motivo di più per Chatwin di sentirsi a casa. Tanto era il fastidio per gli esponenti della “controcultura” della contestazione, ai quali imputava di aver corrotto a colpi di marxismo e, nel nome di un implicito etnocentrismo, tradizioni secolari.
Scrittore di talento, ma anche mercante d’arte, archeologo, giornalista e fotografo, Chatwin era, come sostiene l’amico Salman Rushdie, politicamente un «ingenuo»? Stenio Solinas – tra i primi in Italia a promuoverne la figura e, non a caso, autore della prefazione a L’alternativa nomade, la prima biografia italiana di Chatwin (Settimo Sigillo, 1994) a cura di Nicholas Murray – ritiene di no. Al contrario, aveva idee precise. In Compagni di solitudine (Ponte alle grazie, 1999), nel tracciare la sua “educazione intellettuale”, Solinas così delinea la personalità “politica” dello scrittore di Sheffield: «Non si era appassionato al comunismo sovietico, né ai cataclismi della rivoluzione culturale cinese, né al marxismo in salsa hippie-pacifista. Rifiutava ogni totalitarismo, non credeva alle “magnifiche sorti e progressive”, e quindi ad un concetto indefinito di progresso. Non riteneva i sistemi di governo esportabili come fossero un paio di scarpe; detestava “l’internazionalismo specioso”. Non amava il sistema capitalistico basato sul consumo e sul profitto, ma rifuggiva da ogni terzomondismo d’accatto così come da ogni neocolonialismo di ritorno».
Temi quanto mai attuali, oggi, che renderebbero preziosa una voce come quella di Chatwin, ben lontana dal riduttivo clichè di istrionico conversatore troppo occupato a dissipare il proprio talento, di dandy postmoderno innamorato solo di se stesso, che per troppo tempo ha fatto di Chatwin un’icona in bianco e nero dell’avventura fine a se stessa. Certo, del mito Chatwin aveva, oltre a una dichiarata vocazione, le physique du rol. Alto più di un metro e ottanta, capelli biondo cenere, fronte spaziosa incendiata da penetranti occhi azzurri, era, per citare le parole del noto mercante d’arte John Kasmin, di un «fascino quasi oltraggioso». Bisessuale, piaceva agli uomini come alle donne. «Non si tratta solo di bellezza – ha sottolineato Susan Sontag – è un’aura, una luce negli occhi. Ci sono poche persone al mondo con una presenza che incanta e ammalia». Proprio come nell’immagine più celebre che lo ritrae come un giovane e affascinante uomo con gli scarponi da montagna appesi al collo e uno zaino sulle spalle. Che ci guarda e ci rinnova la domanda di sempre: che ci faccio qui?
Roberto Alfatti Appetiti
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3 commenti:

Claudio Ughetto ha detto...

Questo, alla fine, è "l'anarco-individualista" che piace a me.

Jack Azzarà ha detto...

Ho letto l'articolo e come suonatore di didgeridoo e amante dell'Australia sono rimasto favorevolmente colpito. Il suonatore che compare nella figura a pagina 50 dovrebbe essere Dubrasko Lapaine; potrebbe dirmi dove ha recuperato la foto?

Grazie Jack Azzarà

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie.
Per Jack: la domanda andrebbe girata alla redazione de La Voce del Ribelle... francamente non saprei. A me è piaciuta molto la foto (rarissima, credo) del Chatwin "invecchiato" a pagina 49...