Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 21 giugno 2009
Jeff Buckley è morto all’improvviso dodici anni fa, il 29 maggio 1997. Annegato nel Wolf River, un affluente del Mississippi che bagna la città di Memphis. Una fine tragica che arrivava a chiudere una vita sofferta. Una fine stupida per un verso, e maledettamente romantica per un altro. O per molti altri.
“Quella notte – scrive David Browne in Dream Brother, l’ottima biografia apparsa in inglese nel 2000 e tradotta in italiano l’anno successivo (Giunti, pagg. 311, € 14,46) – mentre nuotava nell’acqua del fiume, Jeff si sentiva libero come non gli accadeva da tempo. Il semplice fatto di essere in acqua era già un segno di cambiamento. Anche se era cresciuto non lontano dalle spiagge californiane, non ne era mai stato un assiduo frequentatore. (...) L’acqua lo inquietava, era troppo misteriosa, sfuggiva a ogni controllo. Ma quella massa liquida esprimeva un sentimento diverso: ascoltarsi mentre imitava la voce vigorosa di Robert Plant in Whole Lotta Love, nuotando tra le due sponde del fiume, lo faceva sentire in pace con se stesso”.
Quello che accadde in seguito è tristemente noto. Jeff si era immerso con addosso i jeans e, addirittura, con gli stivali ai piedi. Il fiume era percorso da chiatte e rimorchiatori, che al loro passaggio generavano gorghi e mulinelli. Jeff si allontanò dalla riva, sottovalutando il pericolo o ignorandolo del tutto. Passò un rimorchiatore e lui si tenne alla larga. Quindi fu la volta di una grande chiatta, e provò a fare altrettanto. Keith Foti, che era sulla riva e lo teneva d’occhio, lo vide spostarsi. Nella luce sempre più fioca dell’imbrunire, che ormai cedeva il posto alla sera, riuscì ancora a vedere la testa che emergeva dall’acqua. Ma poi distolse lo sguardo per qualche istante. E, quando lo portò nuovamente sul fiume, non scorse più alcuna traccia dell’amico.
“Foti – scrive ancora Browne – prese a chiamare Jeff ma non ottenne risposta. Gridò ancora e seguitò a urlare per quasi dieci minuti. Dall’altra parte del fiume, Gordon Archibald, un anziano dipendente del porticciolo, stava passeggiando con un amico accanto alle barche ormeggiate quando udì un grido d’aiuto. Turbato, guardò con attenzione la superficie dell’acqua. Ma non vide nulla, né riuscì a udire distintamente nulla.”
Jeff se ne andò così, a poco più di trent’anni. Prima che il dono della sua splendida voce riuscisse a sanare del tutto le ferite del passato: suo padre, il Tim Buckley di Goodbye and Hello e di Starsailor, era stato a sua volta uno dei più grandi cantanti della propria generazione; ma per seguire la sua strada di artista, e inseguire il successo, aveva mollato la famiglia ancora prima che lui nascesse, per poi morire di overdose quando suo figlio non aveva ancora compiuto nove anni. La morte aveva cristallizzato l’assenza, già così grave, in un abbandono definitivo. Più nessuna possibilità di recupero. Di riavvicinamento. Di riconciliazione.
Jeff era cresciuto con l’unico conforto del suo smisurato talento, che gli permetteva sia di suonare con estrema facilità, eccellendo nella chitarra, sia di cantare qualsiasi cosa, forte di un’estensione di cinque ottave e di un’espressività lancinante. Jeff scriveva musiche piene di rifrazioni e parole toccanti. Interpretate da altri sarebbero state ottime composizioni. Interpretate da lui diventavano capolavori indimenticabili. Così come lo diventavano, reinventando gli originali, le sue cover di brani altrui, a cominciare da Hallelujah di Leonard Cohen.
Eppure, la piena consacrazione tardava ad arrivare. Nemmeno un album del livello di Grace – un esordio di stupefacente maturità: come ha detto Ben Harper, «Jeff ha realizzato il suo quinto album per primo. Ai più ci vogliono cinque album per fare un disco di quella bellezza. E Jeff ha fatto quello che avrebbe potuto essere il suo quinto album per primo» – era bastato a imporlo all’attenzione del grandissimo pubblico. Lui era troppo avanti. La massa, istupidita dal pop a scartamento ridotto, ancora troppo indietro. Non è che ne fosse sorpreso: «L’industria musicale – aveva affermato nel 1993 – è il genere di commercio più puerile che esista. Nessuno sa cosa sta vendendo e perché, ma se funziona continua a venderlo». La mancanza di sorpresa, però, non cancella affatto l’amarezza. Al contrario: stabilizza un’impressione in un giudizio. In un dato di fatto. In una condanna a doppio taglio, che si ritorce contro chi ha l’intelligenza di emetterla – e la saldezza morale di tenerne conto.
Jeff era esigente innanzitutto con se stesso e, giustamente, più che mai guardingo nei confronti dell’industria musicale. Sapeva quanto fosse difficile emergere, specie se non si è disposti ad assecondare la mediocrità circostante e a venire a patti coi furbacchioni dello show-business. Ma sapeva anche che non aveva nessuna intenzione di cedere. La fama ha senso solo se è il riconoscimento di un valore autentico. Se no è mera notorietà. I dischi e i concerti sono inviti a un incontro profondo tra esseri umani con qualcosa di importante e di prezioso in comune. Altrimenti sono solo un passatempo. Un trastullo. Se non proprio un inganno e, quindi, una truffa.
Jeff è morto il 29 maggio del 1997. Il secondo album, il doppio Sketches for My Sweetheart the Drunk, uscì postumo l’anno seguente e, giocoforza, venne realizzato con quello che c’era: brani in attesa di rifinitura o persino, conoscendo i precedenti, di una revisione così spinta da sfiorare la riscrittura. Da allora, poco altro: alcuni live, tra cui quello all’Olympia, e qualche riedizione del vecchio materiale, arricchito (arricchito?) da versioni alternative dei brani già noti. Una serie che oggi, ancora una volta a metà strada tra la celebrazione artistica e lo sfruttamento commerciale, si allunga con questo Grace Around the World che scodella una nutrita selezione di altre performance dal vivo. Proposte, tanto per non dissuadere a priori nessun possibile acquirente, in tre diverse combinazioni di cd e dvd, secondo un’impostazione che sta ormai diventando uno standard e che però, qui come altrove, va valutata con la dovuta cautela: cosa stiamo facendo, davvero? Stiamo omaggiando l’artista o stiamo ossequiando il suo mito enfatizzato dal marketing? Jeff Buckley avrebbe avuto parecchio da dire, al riguardo.
“Quella notte – scrive David Browne in Dream Brother, l’ottima biografia apparsa in inglese nel 2000 e tradotta in italiano l’anno successivo (Giunti, pagg. 311, € 14,46) – mentre nuotava nell’acqua del fiume, Jeff si sentiva libero come non gli accadeva da tempo. Il semplice fatto di essere in acqua era già un segno di cambiamento. Anche se era cresciuto non lontano dalle spiagge californiane, non ne era mai stato un assiduo frequentatore. (...) L’acqua lo inquietava, era troppo misteriosa, sfuggiva a ogni controllo. Ma quella massa liquida esprimeva un sentimento diverso: ascoltarsi mentre imitava la voce vigorosa di Robert Plant in Whole Lotta Love, nuotando tra le due sponde del fiume, lo faceva sentire in pace con se stesso”.
Quello che accadde in seguito è tristemente noto. Jeff si era immerso con addosso i jeans e, addirittura, con gli stivali ai piedi. Il fiume era percorso da chiatte e rimorchiatori, che al loro passaggio generavano gorghi e mulinelli. Jeff si allontanò dalla riva, sottovalutando il pericolo o ignorandolo del tutto. Passò un rimorchiatore e lui si tenne alla larga. Quindi fu la volta di una grande chiatta, e provò a fare altrettanto. Keith Foti, che era sulla riva e lo teneva d’occhio, lo vide spostarsi. Nella luce sempre più fioca dell’imbrunire, che ormai cedeva il posto alla sera, riuscì ancora a vedere la testa che emergeva dall’acqua. Ma poi distolse lo sguardo per qualche istante. E, quando lo portò nuovamente sul fiume, non scorse più alcuna traccia dell’amico.
“Foti – scrive ancora Browne – prese a chiamare Jeff ma non ottenne risposta. Gridò ancora e seguitò a urlare per quasi dieci minuti. Dall’altra parte del fiume, Gordon Archibald, un anziano dipendente del porticciolo, stava passeggiando con un amico accanto alle barche ormeggiate quando udì un grido d’aiuto. Turbato, guardò con attenzione la superficie dell’acqua. Ma non vide nulla, né riuscì a udire distintamente nulla.”
Jeff se ne andò così, a poco più di trent’anni. Prima che il dono della sua splendida voce riuscisse a sanare del tutto le ferite del passato: suo padre, il Tim Buckley di Goodbye and Hello e di Starsailor, era stato a sua volta uno dei più grandi cantanti della propria generazione; ma per seguire la sua strada di artista, e inseguire il successo, aveva mollato la famiglia ancora prima che lui nascesse, per poi morire di overdose quando suo figlio non aveva ancora compiuto nove anni. La morte aveva cristallizzato l’assenza, già così grave, in un abbandono definitivo. Più nessuna possibilità di recupero. Di riavvicinamento. Di riconciliazione.
Jeff era cresciuto con l’unico conforto del suo smisurato talento, che gli permetteva sia di suonare con estrema facilità, eccellendo nella chitarra, sia di cantare qualsiasi cosa, forte di un’estensione di cinque ottave e di un’espressività lancinante. Jeff scriveva musiche piene di rifrazioni e parole toccanti. Interpretate da altri sarebbero state ottime composizioni. Interpretate da lui diventavano capolavori indimenticabili. Così come lo diventavano, reinventando gli originali, le sue cover di brani altrui, a cominciare da Hallelujah di Leonard Cohen.
Eppure, la piena consacrazione tardava ad arrivare. Nemmeno un album del livello di Grace – un esordio di stupefacente maturità: come ha detto Ben Harper, «Jeff ha realizzato il suo quinto album per primo. Ai più ci vogliono cinque album per fare un disco di quella bellezza. E Jeff ha fatto quello che avrebbe potuto essere il suo quinto album per primo» – era bastato a imporlo all’attenzione del grandissimo pubblico. Lui era troppo avanti. La massa, istupidita dal pop a scartamento ridotto, ancora troppo indietro. Non è che ne fosse sorpreso: «L’industria musicale – aveva affermato nel 1993 – è il genere di commercio più puerile che esista. Nessuno sa cosa sta vendendo e perché, ma se funziona continua a venderlo». La mancanza di sorpresa, però, non cancella affatto l’amarezza. Al contrario: stabilizza un’impressione in un giudizio. In un dato di fatto. In una condanna a doppio taglio, che si ritorce contro chi ha l’intelligenza di emetterla – e la saldezza morale di tenerne conto.
Jeff era esigente innanzitutto con se stesso e, giustamente, più che mai guardingo nei confronti dell’industria musicale. Sapeva quanto fosse difficile emergere, specie se non si è disposti ad assecondare la mediocrità circostante e a venire a patti coi furbacchioni dello show-business. Ma sapeva anche che non aveva nessuna intenzione di cedere. La fama ha senso solo se è il riconoscimento di un valore autentico. Se no è mera notorietà. I dischi e i concerti sono inviti a un incontro profondo tra esseri umani con qualcosa di importante e di prezioso in comune. Altrimenti sono solo un passatempo. Un trastullo. Se non proprio un inganno e, quindi, una truffa.
Jeff è morto il 29 maggio del 1997. Il secondo album, il doppio Sketches for My Sweetheart the Drunk, uscì postumo l’anno seguente e, giocoforza, venne realizzato con quello che c’era: brani in attesa di rifinitura o persino, conoscendo i precedenti, di una revisione così spinta da sfiorare la riscrittura. Da allora, poco altro: alcuni live, tra cui quello all’Olympia, e qualche riedizione del vecchio materiale, arricchito (arricchito?) da versioni alternative dei brani già noti. Una serie che oggi, ancora una volta a metà strada tra la celebrazione artistica e lo sfruttamento commerciale, si allunga con questo Grace Around the World che scodella una nutrita selezione di altre performance dal vivo. Proposte, tanto per non dissuadere a priori nessun possibile acquirente, in tre diverse combinazioni di cd e dvd, secondo un’impostazione che sta ormai diventando uno standard e che però, qui come altrove, va valutata con la dovuta cautela: cosa stiamo facendo, davvero? Stiamo omaggiando l’artista o stiamo ossequiando il suo mito enfatizzato dal marketing? Jeff Buckley avrebbe avuto parecchio da dire, al riguardo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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