Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 28 giugno 2009
Sa quanta bellezza c’è nella musica, e quanta ce ne lasciamo sfuggire solo perché è racchiusa in un repertorio che abbiamo scordato fino a rimuoverlo, lasciando che sprofondasse nell’oblio come i volumi del Cimitero dei Libri Dimenticati di Carlos Ruiz Zafón. Lo sa e muore dalla voglia di farcelo scoprire. Anche se la distanza da colmare è cospicua, e il guado può risultare disagevole, soprattutto all’inizio, non smette di incitarci. Avendo attraversato il fiume già da molto tempo, e avendovi trovato una vegetazione assai più ricca e più varia, vorrebbe con tutto il cuore che anche noi facessimo altrettanto. Suvvia: ci sarà pure da bagnarsi (e l’acqua sembra parecchio fredda, prima che ci si abitui) ma vale la pena. Ci sarà da fare attenzione a certi sassi scivolosi sul fondo, ma il trucco per uscirne sani e salvi è elementare: basta non pretendere di camminare svelti svelti, e un po’ frenetici, come facciamo di solito. Un passettino alla volta, permettendo ai piedi di saggiare le superfici abbastanza a lungo da padroneggiare i punti di appoggio, e il gioco è fatto. Ma no che non si affonda. Ma figuratevi se vi dicevo di venire anche voi, se c’era il rischio di annegare.
«La musica – dice Angelo Branduardi durante il bellissimo concerto che ha tenuto mercoledì scorso a Roma, nello splendido scenario di piazza San Giovanni (la basilica a destra della platea e un po’ più indietro, che se vuoi vederla devi girare la testa, ma per avvertirne la presenza, e forse il senso di protezione, basta sapere che c’è) – è la più astratta delle arti, e proprio per questo è la più vicina a Dio». Ma è il benvenuto a una festa, non una lectio magistralis. Le frasi inanellano concetti impegnativi, però lo fanno con la serenità, e la benevolenza, di un invito a mettersi a proprio agio, in attesa di quel che seguirà. La sobrietà dello studioso pondera attentamente ogni parola. L’entusiasmo dell’appassionato la fa vibrare di una partecipazione assoluta. Il giovane menestrello – come è stato definito chissà quante volte, da quando a metà degli anni Settanta si fece conoscere attraverso album come La luna, Alla fiera dell’Est e Cogli la prima mela, con la tipica tendenza dei media a utilizzare i luoghi comuni e a ripeterli all’infinito, come se avessero appena scovato l’immagine ideale, la sintesi par excellence – è diventato un uomo maturo che non ha mai smesso di affinarsi. Che ha camminato e camminato e camminato sul suo percorso di crescita, quello che va dall’attrazione istintiva all’amore consapevole, senza mai stancarsi. E che ormai sa benissimo, poiché ne fa esperienza diretta e continua, che la comprensione intellettuale e i fremiti emotivi possono coesistere perfettamente. Alla fine di un iter, beninteso. All’atto del ricongiungimento, tutt’altro che ovvio e a portata di mano, tra l’innocenza delle emozioni e la sagacia dei ragionamenti. Tra la spontaneità del bambino che gioca per puro divertimento e l’accortezza dell’adulto che si applica in vista di uno scopo.
«Credo che sia opportuno segnalare – affermava più di dieci anni fa in una lunga intervista a Rosario Pantaleo, pubblicata nel 1998 sulla (benemerita e semi sconosciuto) rivista L’isola che non c’era – che tutta la musica popolare e folclorica è, molto spesso, brutta. È inutile “menarcela”: la famosa canzone popolare Bella donna lumbarda fa schifo. Possiamo anche dire che è una canzone nata dall’ispirazione popolare e tutto quanto vogliamo, però è giusto anche dire che la genuina ispirazione popolare è finita con l’alfabetizzazione. È finita nel momento in cui, nel tardo Rinascimento, c’è stato l’avvento della tecnicizzazione della musica, con conseguente appropriazione dei suoi modi. Nel momento in cui si è stati in grado di distinguere un “do maggiore” da una sedia, l’ispirazione popolare è scemata sempre di più limitandosi, molto spesso, all’imitazione della musica colta (imitata male, però!). Su questo tema ci sono però due eccezioni molto evidenti da sottolineare: la prima è la musica irlandese e la seconda è la musica napoletana che sono, per motivi assolutamente inspiegabili, esempi di repertorio musicale di straordinario livello. E questo non solo per motivi storici, sociologici e quant’altro, ma solo perché sono due stili musicali belli e basta».
Insomma: la modernità ci ha diseducati. Abbiamo perso l’immediatezza viscerale di chi si affida a ciò che sente (senza nemmeno elaborarlo in termini così concettuali, peraltro) in nome di una promessa, quanto mai illusoria, di controllo e di efficienza. L’arte si è ridotta a tecnica. Il popolo si è ridotto a pubblico. Tanti autori di canzoni, per restare nell’ambito della musica, si mettono a comporre per puro obbligo lavorativo, sfornando – vedi Sanremo – brani che con ogni probabilità non piacciono davvero neanche a loro. Nel deserto della mancanza di una vera ispirazione, cui nessuna conoscenza teorica può porre rimedio, cuciono i cascami delle mode del momento (o di quella “moda permanente” che è l’immaginario di massa, magazzino e discarica delle fascinazioni pregresse) e sperano che almeno qualcuno abbocchi, preferendo la familiarità di questo patchwork di infimo livello al disorientamento provocato da colori e disegni e tessuti che non ha mai visto e che, mannaggia, lo sfidano a giudicare di testa propria, invece di inchinarsi ai dettami del gusto corrente.
Peccato. Perché poi, come si è vesto benissimo anche nel concerto di mercoledì scorso, le possibilità di cambiare atteggiamento ci sono eccome. Tutta la prima parte è stata dedicata a musiche del passato remoto, che Branduardi va recuperando dal 1996, anno di inizio di quella serie “Futuro Antico” di cui è in uscita il sesto episodio: non adattamenti in chiave pop, come venne fatto a suo tempo con Mozart e Vivaldi e Albinoni; esecuzioni rigorose e all’insegna della correttezza filologica, con strumenti perduti come la ghironda o la tiorba.
E il pubblico? Il pubblico, che senza neppure saperlo non vede l’ora di ritornare a essere popolo, si è immerso in questa bellezza di cui ignorava l’esistenza. Come un cittadino dell’entroterra che si trova per la prima volta al cospetto del mare. E un po’ è perplesso. E un po’ è contento. E poi comincia a camminare sul bagnasciuga. E scopre che è bello, cazzo.
«La musica – dice Angelo Branduardi durante il bellissimo concerto che ha tenuto mercoledì scorso a Roma, nello splendido scenario di piazza San Giovanni (la basilica a destra della platea e un po’ più indietro, che se vuoi vederla devi girare la testa, ma per avvertirne la presenza, e forse il senso di protezione, basta sapere che c’è) – è la più astratta delle arti, e proprio per questo è la più vicina a Dio». Ma è il benvenuto a una festa, non una lectio magistralis. Le frasi inanellano concetti impegnativi, però lo fanno con la serenità, e la benevolenza, di un invito a mettersi a proprio agio, in attesa di quel che seguirà. La sobrietà dello studioso pondera attentamente ogni parola. L’entusiasmo dell’appassionato la fa vibrare di una partecipazione assoluta. Il giovane menestrello – come è stato definito chissà quante volte, da quando a metà degli anni Settanta si fece conoscere attraverso album come La luna, Alla fiera dell’Est e Cogli la prima mela, con la tipica tendenza dei media a utilizzare i luoghi comuni e a ripeterli all’infinito, come se avessero appena scovato l’immagine ideale, la sintesi par excellence – è diventato un uomo maturo che non ha mai smesso di affinarsi. Che ha camminato e camminato e camminato sul suo percorso di crescita, quello che va dall’attrazione istintiva all’amore consapevole, senza mai stancarsi. E che ormai sa benissimo, poiché ne fa esperienza diretta e continua, che la comprensione intellettuale e i fremiti emotivi possono coesistere perfettamente. Alla fine di un iter, beninteso. All’atto del ricongiungimento, tutt’altro che ovvio e a portata di mano, tra l’innocenza delle emozioni e la sagacia dei ragionamenti. Tra la spontaneità del bambino che gioca per puro divertimento e l’accortezza dell’adulto che si applica in vista di uno scopo.
«Credo che sia opportuno segnalare – affermava più di dieci anni fa in una lunga intervista a Rosario Pantaleo, pubblicata nel 1998 sulla (benemerita e semi sconosciuto) rivista L’isola che non c’era – che tutta la musica popolare e folclorica è, molto spesso, brutta. È inutile “menarcela”: la famosa canzone popolare Bella donna lumbarda fa schifo. Possiamo anche dire che è una canzone nata dall’ispirazione popolare e tutto quanto vogliamo, però è giusto anche dire che la genuina ispirazione popolare è finita con l’alfabetizzazione. È finita nel momento in cui, nel tardo Rinascimento, c’è stato l’avvento della tecnicizzazione della musica, con conseguente appropriazione dei suoi modi. Nel momento in cui si è stati in grado di distinguere un “do maggiore” da una sedia, l’ispirazione popolare è scemata sempre di più limitandosi, molto spesso, all’imitazione della musica colta (imitata male, però!). Su questo tema ci sono però due eccezioni molto evidenti da sottolineare: la prima è la musica irlandese e la seconda è la musica napoletana che sono, per motivi assolutamente inspiegabili, esempi di repertorio musicale di straordinario livello. E questo non solo per motivi storici, sociologici e quant’altro, ma solo perché sono due stili musicali belli e basta».
Insomma: la modernità ci ha diseducati. Abbiamo perso l’immediatezza viscerale di chi si affida a ciò che sente (senza nemmeno elaborarlo in termini così concettuali, peraltro) in nome di una promessa, quanto mai illusoria, di controllo e di efficienza. L’arte si è ridotta a tecnica. Il popolo si è ridotto a pubblico. Tanti autori di canzoni, per restare nell’ambito della musica, si mettono a comporre per puro obbligo lavorativo, sfornando – vedi Sanremo – brani che con ogni probabilità non piacciono davvero neanche a loro. Nel deserto della mancanza di una vera ispirazione, cui nessuna conoscenza teorica può porre rimedio, cuciono i cascami delle mode del momento (o di quella “moda permanente” che è l’immaginario di massa, magazzino e discarica delle fascinazioni pregresse) e sperano che almeno qualcuno abbocchi, preferendo la familiarità di questo patchwork di infimo livello al disorientamento provocato da colori e disegni e tessuti che non ha mai visto e che, mannaggia, lo sfidano a giudicare di testa propria, invece di inchinarsi ai dettami del gusto corrente.
Peccato. Perché poi, come si è vesto benissimo anche nel concerto di mercoledì scorso, le possibilità di cambiare atteggiamento ci sono eccome. Tutta la prima parte è stata dedicata a musiche del passato remoto, che Branduardi va recuperando dal 1996, anno di inizio di quella serie “Futuro Antico” di cui è in uscita il sesto episodio: non adattamenti in chiave pop, come venne fatto a suo tempo con Mozart e Vivaldi e Albinoni; esecuzioni rigorose e all’insegna della correttezza filologica, con strumenti perduti come la ghironda o la tiorba.
E il pubblico? Il pubblico, che senza neppure saperlo non vede l’ora di ritornare a essere popolo, si è immerso in questa bellezza di cui ignorava l’esistenza. Come un cittadino dell’entroterra che si trova per la prima volta al cospetto del mare. E un po’ è perplesso. E un po’ è contento. E poi comincia a camminare sul bagnasciuga. E scopre che è bello, cazzo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
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