C'è un film che le televisioni mandano spesso in onda in seconda serata o nella programmazione pomeridiana che nella superficialità di un certo approccio italiano al cinema non è mai stato valorizzato in tutta la sua valenza metapolitica. Si tratta di Chi ucciderà Charley Varrick?, tutt’altro che un B-movie ma un vero capolavoro firmato da Don Siegel, il cineasta che aveva già diretto due grandi film libertari come L’invasione degli ultracorpi, grande metafora contro il maccartismo e il totalitarismo, e Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo. E quando, in quel film del 1973, il regista celebrava sugli schermi la figura di Charley Varrick, un “ultimo degli indipendenti” magnificamente interpretato da Walter Matthau, eravamo del resto nella stagione forse meno popolare in tutto l’Occidente per la metafora esistenziale e politica del singolo. E allo stesso modo in cui nel film il protagonista si trova coinvolto in una solitaria lotta senza quartiere contro un’offensiva concentrica di polizia, servizi segreti, potere bancario e criminalità organizzata, così nell’immaginario occidentale l’ipotesi di una sfera esistenziale sganciata dagli apparati sembrava del tutto fuori corso, contrastata e condannata all’isolamento. In Italia, poi, l’egemonia concettuale del sistema politico-istituzionale sembrava tutta giocarsi intorno alle categorie di collettivo, di organico e di primato degli apparati centralizzati.
Quell’icona, “the last of the indipendent”, il libertario allo stato puro, irrompeva in realtà come l’ospite inatteso e il modello segreto di tutto un sommovimento culturale e politico-culturale che stava investendo l’Europa e l’Occidente nella fase post-sessantottina. Un sommovimento che metteva in evidenza nel suo complesso l’essenza più propria d autori, filoni, letture, suggestioni, icone che evocavano una vocazione libertaria. Se ne è parlato recentemente in riferimento alla più profonda ispirazione del poeta americano Ezra Pound. E la stessa considerazione potrebbe essere fatta per la letteratura di Céline, di Ernst Jünger o di Knut Hamsun, per il cinema di Sam Peckinpah, di John Milius o di Clint Eastwood, per i libri di Hermann Hesse, Jack Kerouac e Charlie Bukowski o per la saga tolkieniana di Frodo Baggins, per un libro come Il gabbiano Jonathan Livingston o per le descrizioni di viaggio di Bruce Chatwin. O per la musica di Giorgio Gaber o di Francesco Guccini. Ma la stessa matrice – non altra – emergeva nella stessa riscoperta postuma dei testi di Marinetti e dei futuristi, di Leo Longanesi o di Indro Montanelli, del giovane Papini e di Saint-Exupéry, di Giuseppe Berto e di André Malraux, o nel rievocare l´avventura fiumana di Gabriele d ´Annunzio o le epopee immaginifiche dei corsari, dei confederali americani o dei ribelli d´ogni sorta... Sino alla passione per Capitan Harlock o per gli indiani d’America...
Era l’intuizione che stava al cuore di un best seller giovanile che, negli Stati Uniti nel 1974 e in Italia nel 1981, si impose improvvisamente con il passaparola spontaneo, senza sponsorizzazioni mediatiche: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Dove si leggeva: «Non voglio più entusiasmarmi per grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto il momento di ricostituire questa risorsa... Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos dei vecchi tempi». Intuizioni che spiegano la cifra del nuovo libertarismo emergente. Una sensibilità che di manifestò in tutta evidenza, ad esempio, nei film di Sergio Leone. Lo spiegò, nel 1983, Diego Gabutti – un ex anarco-situazionista che, proprio riflettendo su quella cinematografia, mandava in libreria C’era una volta il West, un saggio con il quale spiegava che il libertarismo cambiava di segno, non guardava più a sinistra... – descrivendo, tra l’altro, la biblioteca personale di Leone. C’erano il Ramayana e il Mahabharata. E poi Tacito, Céline, molte biografie, Carlyle, Plutarco, Malraux. E c’erano le edizioni complete delle opere di Bakunin, ad esempio. Capivo la presenza del mito, ma quella della politica mi suonava stonata...». Sergio Leone, non aveva e non voleva avere niente a che fare con la sinistra. Eppure i libertari lo intrigavano. In Giù la testa, ad esempio, James Coburn, un una certa scena del film, getta nel fango un libro di Bakunin, poi monta a cavallo e segue i messicani: quasi a dire che il vero libertarismo non deve essere complicato dalle teorie, dalle costruzioni intellettualistiche e ideologiche... Sergio Leone, d’altronde, spiegò in questa chiave il suo rifiuto di girare come regista Il Padrino: «Era soprattutto una storia corale. Protagonista era la famiglia, non le singole persone o gli individui che la componevano. Era un mosaico con tante figure, ciascuna delle quali rimaneva necessariamente sullo sfondo. Nei miei film, invece, si gioca tutto sull’individuo singolo. Come nel Cavaliere della valle solitaria e nella tragedia classica. Non ho interesse – spiegava il cineasta a Gabutti – e nemmeno molta simpatia per i gruppi organizzati e per la folla. Mi interessa il singolo, buono o cattivo che fosse. C’era una volta il west, per esempio, prima d’ogni altra cosa, è proprio un inno carico di nostalgia a questa figura che scompare nei vapori di una presunta civilizzazione. Treni, masse operaie, città...».
Ma non c’è solo il cinema a tracciare l’emergere di questa tendenza libertaria nell’Occidente degli ultimi trent’anni. Pensiamo, anche, a un grande autore come Erst Jünger, il decano novecentesco della letteratuta tedesca, scomparso ultracentenario nel 1998. È stato lui a scrivere: «L´obbligo scolastico è, essenzialmente, un mezzo di castrazione della forza naturale, e di sfruttamento. Lo stesso vale per il servizio militare obbligatorio. Respingo come una scemenza l ´obbligo scolastico, come ogni vincolo e ogni limitazione della libertà». Non solo: «L´importante per me resta è la libertà del singolo». E fu proprio Jünger a delineare, nel romanzo Eumeswil, la figura dell’anarca, il libertario dell’epoca post-ideologica. Il suo è nuovo atteggiamento politico- esistenziale: né sudditi né ribelli, né sottomesi né impauriti. L’anarca non ha niente a che vedere con la ribellione degli anarchici ottocenteschi. Il segreto è non farsi penetrare interiormente dalla logica del dominio. D’altronde, quando il potere si ridefinisce a rete e l’interazione dei saperi diventa la chiave del sistema sociale, la libertà passa solo attraverso la capacità di riuscire a porsi a/ traverso e al di là del potere.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
3 commenti:
Trovo interessante e stimolante, sebbene discutibile nella tesi, quest'escursione di Luciano Lanna sul libertarismo di destra e sulla sua contestualizzazione nell'attualità.
Mi verrebbe voglia di preparare una risposta articolata, una roba che però non può stare nello spazio di un commento.
E scrivi, allora! :-)
Un abbraccio.
Cercherò. Tra sabato e domenica, prima sono incasinato.
Ciao!
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