Dal Secolo d'Italia di martedì 9 giugno 2009
Che fine faremo, noi che negli anni ’80 ci imbattevamo in Tolkien e Howard? Che faremo dei nostri sogni di ragazzi, delle nostre fantasie di mondi alternativi a quello che ci toccava vivere, dei nostri ideali postmaterialisti? Torneremo mai a provare le emozioni ancestrali, abissali, che ci prendevano ancora alla quinta o sesta visione di Excalibur, a certe sue scene corrusche da “crepuscolo degli dei”, come per altri davanti all’ennesimo replay del gol di Tardelli al Mundial di Spagna? Dovremo vedere la cavalcata dei Rohirrim de Il Signore degli Anelli nel chiuso dei nostri appartamenti, come briganti alla macchia, vergognandoci che il nostro cuore batta follemente al ritmo degli zoccoli in corsa?
Ecco, direte, al critico ha preso la crisi di mezz’età, gli vengono a mancare i punti di riferimento, ripiega su un passato mitizzato in mancanza di meglio. E se pure fosse? Tira un’aria di smobilitazione per le vecchie “compagnie”, molti dei cui appartenenti sono assorbiti da prosaiche responsabilità di governo e non hanno più tempo di seguire l’immaginario. Se “il compagno di scuola” di Venditti è finito in banca, qualche “camerata di strada” si è addomesticato nella routine dell’amministrazione della cosa pubblica, mettendo in soffitta i suoi miti giovanili ridotti a ferri vecchi e deponendo ogni carica alternativa, ogni alta ambizione culturale, ogni impulso a “stupire il mondo”. Chi stupisce più? Chi si stupisce più? Chi rinuncia ai calcoli, rompe il fronte del pensiero unico, si mette in gioco, anche a rischio di passare per un isolato provocatore e per un nostalgico dei bei tempi andati?
Tutto questo per dire che esiste un intera biblioteca d’area a rischio di estinzione, fatta di libri, dischi, film, fumetti che d’oggi in avanti sembreranno residuati di guerre passate, resti di ere giurassiche, cascami di una superata cultura a vocazione minoritaria. C’è da chiedersi se sia giusto esigere un simile sacrificio alla “nostra” gente, in nome di una progetto intellettuale egemonico che rischia di tradire ogni senso di appartenenza. C’è da chiedersi se ci sia ancora spazio per una base identitaria, che non venga trattata alla stregua di folclore culturale, ma come solida e monumentale piattaforma di lancio per ogni aggressiva proiezione esterna. Se questo spazio c’è, la versione a fumetti di Death Dealer vi entra di diritto. In copertina, campeggia l’omonimo dipinto di Frank Frazetta del 1973, un’icona memorabile per molti della nostra generazione: il Latore di Morte, per viso solo un’ombra punteggiata da due occhi di brace, per armi una scure insanguinata, per cavalcatura un destriero massiccio, per sfondo una landa desolata, nebbiosa, sorvolata da avvoltoi e screziata di fiamme. Da questo dipinto nasce Ombre di Mirahan di Nat Jones e Jay Fotos (edito da Magic Press, pp. 192, euro 17), in cui viene alla luce l’oscuro retroterra che sta dietro la temibile figura del Cavaliere Nero.
Era una sfida improba. Come dice Frank Frazetta junior nella postfazione, l’abilità del grande illustratore (a sinistra in un autoritratto), capace di finire un dipinto ad olio in una sera, sta soprattutto nel «rendere credibile l’incredibile. È proprio questa la qualità che separa le sue opere da quelle delle orde di imitatori che non riescono a catturarne l’essenza». Gli autori di Ombre di Mirahan non provano neppure a ricalcare lo stile inconfondibile del loro riferimento artistico, ma cercano, appunto, di catturarne l’essenza, attraverso un tratto meno realistico e una colorazione meno brillante.
Il risultato è una storia potente, a metà tra fanta sia eroica ed orrore, con guerrieri che hanno sembianze vagamente simili a quelle di “Spawn” e mostri che ricordano Swamp Thing. Nella guerra fra i regni di Oro e di Edani, il Latore di Morte appare nelle maggiori battaglie senza mai scegliere una fazione e uccidendo indiscriminatamente; i Re, allora, stipulano un trattato di pace vincolato dalla magia druidica, rispedendo il Cavaliere Neo da dove è venuto; ma il risveglio di Mirahan, il Dio dell’Oblio, richiama all’azione Death Dealer, che si impossessa delle spoglie mortali di un giovane e combatte non più per la morte, ma per la vita contro invasori non umani, mostri a tre teste e draghi. Al termine, il giovane Helland chiede al vecchio Dreovid: «Se la missione del Latore di morte è finita… significa che è morto?», al che Dreovid risponde: «No, affatto. Lui esiste oltre i confini dell’esistenza umana. È una manifestazione del mito, una creatura leggendaria… e le leggende vivono davvero per sempre». Epica da reduci dei Campi Hobbit? Paccottiglia vetero-etica per “happy few”? No, oggi tenderemmo a definirci piuttosto “infelici pochi”: pochi ancora capaci di godere e vibrare alla visione di scene di massa come a quelle di rude spirito di corpo; infelici, perché consapevoli che certi valori etici ed estetici sono ormai moneta deprezzata.
Errico Passaro. Ufficiale dell'Aeronautica Militare, dottore in giurisprudenza, è giornalista pubblicista. Ha pubblicato su testate e collane professionali un saggio in volume, oltre 100 racconti e cinque romanzi: "Il delirio", Solfanelli; "Nel solstizio del tempo", Keltia; "Gli anni dell'aquila", Settimo Sigillo; "Le maschere del potere", Nord; "Inferni", Secolo d'Italia. Dal 12 maggio è in libreria il romanzo fantasy (scritto con Gabriele Marconi) "Il Regno Nascosto" (Dario Flaccovio Editore).
1 commento:
Poster bellissimi. L'ultimo che ho postato a corredo dell'ottimo pezzo di Errico campeggiava nella mia stanza di ragazzo prima che mi lasciassi "addomesticare"...
:-)
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