Dal Secolo d'Italia di martedì 9 giugno 2009
Poco amato dai critici dell’epoca, come la maggior parte dei fenomeni di successo popolare, accusato di rappresentare istanze troppo di destra, il cinema poliziesco italiano degli anni ’70 è prepotentemente riemerso dopo che Quentin Tarantino ha confessato di essersi formato su quel genere. A suo tempo, quel filone, ha creato nuovi divi: Maurizio Merli, Luc Merenda e Franco Gasparri. Ha poi rilanciato attori che sembravano dimenticati: Franco Nero, Tomas Milian, Enrico Maria Salerno. Ma soprattutto, nel bene e nel male, ha messo in scena l’attualità di un decennio ricco di contraddizioni e ansie ma anche violenza. «L’immaginario italiano di massa, borghese e proletario, degli anni ’70 – ha scritto il critico Anton Giulio Mancino – è stato suggestionato più da Maurizio Merli che da Francesco Rosi, da Umberto Lenzi e Dario Argento più che da Elio Petri e Marco Bellocchio...». Dopo la stagione del western italiano, s’imponeva infatti un nuovo genere in Italia: il poliziesco, che erroneamente una certa intellighenzia di allora, pensava come la variante spettacolare del cosiddetto cinema d’impegno civile. Eppure si capisce l’Italia di quegli anni molto di più con film come La polizia incrimina, la legge assolve o Mark il poliziotto piuttosto che con tanto cinema sperimentale degli stessi anni. E al poliziesco italiano dei ’70 la Cineteca Nazionale dedica quindi una rassegna, intitolata “Italia odia: il cinema italiano può sparare”, in programma alla Sala Trevi di Roma (via del Puttarello 25) da oggi sino al 18 giugno. Il cartellone, che mescola pellicole molto note e titoli dimenticati, propone tre proiezioni al giorno e una serie di incontri con attori, e registi. Si apre questo pomeriggio, alle 17, alle 17, con Napoli si ribella del 1977.
Il 1971 era stato l’anno di Dirty Harry, il film con Clint Eastwood di Don Siegel intitolato in Italia Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo. E nello stesso anno usciva in Italia Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica di Damiano Damiani. S’imponeva l’icona dell’uomo di legge libertario, insofferente alle regole, che diventava giustiziere interpretando il sentimento della maggioranza dei cittadini. Scrivono i due critici Daniele Magni e Silvio Giobbio: «Il poliziotto ribelle ha già tutte le caratteristiche del commissario che sarà al centro di tutta la produzione del genere. È un uomo solo, disilluso, in contrasto, ancora prima che con la delinquenza, con i suoi superiori e col sistema che tende a favorire i potenti». Ma sarà nel 1973, quando Enzo G. Castellari, già autori di alcuni western, di dedica al genere che vengono definiti i modelli stilistici per i futuri Callaghan all’italiana. Il film sarà La polizia incrimina, la legge assolve e, già dal titolo, evoca direttamente una certa lettura politica del clima di quegli anni. Castellari, come ha annotato Antonio Tentori, definisce i temi fondamentali del filone: «Il dilagare incontrollato di una criminalità spietata e senza scrupoli cui si contrappone un uomo solo, di solito un commissario inviso dai suoi stessi superiori, l’impossibilità di ottenere giustizia per le pastoie della legge e della burocrazia». L’anno dopo, lo stesso regista regala al suo pubblico anche il modello dell’altra variante del genere, quello del cittadino giustiziere, con il film Il cittadino si ribella. L’intero svolgersi della pellicola è pervasa da un nichilismo dovuto alla sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato nel contrastare la criminalità dilagante. Una sensazione che spiega la frase pronunciata nell’epilogo del film da un cittadino per bene al commissario interpretato da Renzo Palmer: «La gente è stufa, la gente è stufa!».
Vale per questi film quanto il politologo Giorgio Galli annotava nel suo La crisi italiana e la destra internazionale in riferimento al personaggio di Callaghan: «Nella città nessuno è più al sicuro, qualsiasi pazzo può uccidere senza difficoltà la ricca ereditiera come il povero ragazzo. E quando viene scoperto, urla subito “voglio un avvocato!”; e si avvale di tutti i cavilli legali e della comprensione umana della classe politica dell’illuminismo riformista, per tornare libero, con la possibilità di ricat tare e uccidere di nuovo». E il politologo individuava nel modello di questi nuovi commissari l’elogio del polizioto ribelle. «Un poliziotto – spiegava Galli – spesso umile e povero, isolato e incompreso, che lotta contro i ricchi e i potenti». Come Callaghan che, alla fine, butta via disgustato lo stesso distintivo della polizia.
Non a caso molti dei “poliziotteschi” italiani avevano il nome di una città come parola chiave nel titolo: da Roma violenta a Milano calibro 9, da Torino nera a Napoli violenta. E in quelle città e metropoli italiane degli anni ’70 la macchina da presa dei vari Castellari, Di Leo, Lenzi, Girolami, Massi si calarono per descrivere, con piglio post-neorealistico, i bassifondi, le periferie, i luoghi del degrado. In questi luoghi, gli inseguimenti delle Giulia Alfa Romeo della polizia. «E quella Giulia – hanno scritto Christian Uva e Michele Picchi in Destra e sinistra nel cinema italiano – sembra inserirsi perfettamente tra gli elementi di matrice politica che connotano tale genere nella sua qualità di automobile che nell’immaginario collettivo italiano è sempre stato sinonimo di persona dalla guida nervosa, dal piede pesante, tendenzialmente di destra». Non a caso l’attore Gian Maria Volonté attaccherà direttamente quei film, lanciando – dalle colonne del Messaggero nel luglio ’75 – un preoccupato allarme: «Il mercato è invaso di cinema subculturale, quello del cittadino che si fa giustizia da sé, che si traduce in un’azione tendente a fascistizzare il pubblico».
Fatto sta che quei film, con quei poliziotti interpretati, tra gli altri, da Luc Merenda, Maurizio Merli e Tomas Milian s’imposero, e non solo al botteghino, come un vero e proprio fenomeno di costume. Basti ricordare il successo clamoroso di Mark il poliziotto, un film di Stelvio Massi del 1975 sceneggiato dallo scrittore e cineasta di destra Adriano Bolzoni, in cui il divo dei fotoromanzi Franco Gasparri interpretava un commissario disincantato, reduce dalla contestazione studentesca, ritrovatosi catapultato nelle file delle forze dell’ordine quasi per caso: «Nel ’68 mi sono arruolato perché i poliziotti non rompevano la testa agli stessi poliziotti». È curioso quanto ha ricordato Massi: «Gasparri era l’idolo dei fotoromanzi della Lancio, 15 milioni di lettori al mese. E allora facemmo un calcolo: diciamo che se al cinema non vengono 15 milioni di persone, ne verranno forse la metà della metà... Ahò, sono venuti. Il film ci era costato 208 milioni e a un mese dall’uscita aveva già incassato oltre due miliardi di lire». E senz’altro Franco Gasparri è stato l’attore più amato (soprattutto dal pubblico femminile) di quel cinema, tanto che Massi lo dirigerà in ben tre film con lo stesso personaggio. Nonostante le apparenze, comunque, nessun film dell’intero filone scivolerà mai verso una deriva questurina “law and order”. Così, in Il poliziotto è marcio, Fernando Di Leo, c’è la corruzione dilagagnte nella polizia. Il protagonista è infatti un commissario colluso col potere, interpretato da Luc Merenda, cui si contrappone il padre, un vecchio maresciallo col volto di Salvo Randone. E non c’è confine tra buoni e cattivi, visto che Di Leo finisce per accomunare sotto lo stesso severo giudizio anche l’anziano militare, reo di aver «leccato le scarpe tutta la vita» e di «aver massacrato di botte dei poveracci con la benedizione dei superiori».
Il moralismo ideologico contro questo filone – che produsse centinaia di pellicole tra il 1972-73 al 1980 – arrivò a demonizzare anche opere laterali, come Un borghese piccolo piccolo, il film con Alberto Sordi di Mario Monicelli del 1977, tratto dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami. «All’epoca – scrivono Daniele Magni e Silvio Giobbio – venne accusato, incredibilmente, di essere portatore di un’ideologia destrorsa, con lo stesso atteggiamento che portò, due anni dopo, ad attaccare un capolavoro come Il cacciatore...». Memorabile, comunque, il confronto in televisione tra Monicelli e l’allora giovane, polemico, Nanni Moretti. Ma il tempo, per fortuna, riporta le cose nella giusta collocazione.
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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