martedì 9 giugno 2009

Quelli che ricordano Demetrio Stratos, viandante della musica (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 7 giugno 2009
Aveva ragione. Mille volte ragione, e a prescindere dai risultati. Come gli esploratori di un tempo che si spingevano in luoghi sconosciuti senza alcuna altra certezza che quella: non ci è mai andato nessuno. Vero. L’esito del viaggio è imprevedibile. Vero. Potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua, uno di quei casi in cui il rapporto tra le energie impiegate e i risultati raggiunti è sproporzionato. È persino fallimentare. Non importa. Andremo lo stesso, che gli altri siano d’accordo oppure no. Non è una crociera in cerca di clienti. Non è un’impresa commerciale in cerca di soci, con cui dividere gli eventuali profitti. È l’ennesimo tentativo, l’ennesimo azzardo, di uomini che guardano la linea dell’orizzonte e si chiedono cosa c’è, cosa ci potrebbe essere, al di là di quello che riescono a vedere da qui.
Demetrio Stratos è morto il 13 giugno 1979, ad appena 34 anni. Morto a New York, in un letto del Memorial Hospital in cui si era ricoverato per sottoporsi alle cure più avanzate e costose, nella speranza che esistesse una terapia capace di fermare l’aplasia midollare, il male che lo aveva aggredito all’improvviso e portato, così rapidamente, così assurdamente, in prossimità del punto di non ritorno. Avesse saputo di non avere scampo, di sicuro avrebbe preferito morire altrove. Non sulla riva opposta dell’Oceano Atlantico. Non nella metropoli simbolo degli Stati Uniti d’America. In un posto qualsiasi del suo e del nostro Mediterraneo, invece. Una piccola casa sulla costa. Una grande finestra affacciata sul mare. Giugno: il mese lo hai scelto bene, Destino. Adesso fa’ il favore: scegli bene anche il giorno dell’addio. Un giorno limpido di cielo azzurro e di sole, di quelli che vedi lontano a perdita d’occhio. Di quelli che chiudi gli occhi e senti il profumo dell’estate che si annuncia. Che ti avvolge (ti abbraccia) come se potesse essere per sempre.
Demetrio Stratos era nato ad Alessandria d’Egitto il 22 aprile 1945. Famiglia greca. Nome autentico Efstratios Demetriou. I primi dodici anni di vita li trascorre sprofondato nell’andirivieni di viaggiatori di etnia e di cultura diversa, a prefigurare un futuro nel segno della massima libertà di spostamento, in senso fisico e soprattutto interiore. Ad alimentare una curiosità istintiva, un’apertura totale, una sensazione di appartenenza che va al di là delle singole nazioni e dei singoli popoli, per espandersi all’umanità nel suo insieme.
In Italia arriva nel 1962. Milano, facoltà di architettura del Politecnico. La passione per la musica, che aveva studiato fin da piccolo, che via via diventa più di un hobby ma non ancora un lavoro. Lui suona le tastiere e per il momento non canta. Fa quello che capita: molte serate nei locali col suo complessino “da ballo” e qualche turno da session man in sala di registrazione. Apprendistato necessario, non sempre entusiasmante ma utile. Un giorno la voce solista del gruppo ha un incidente e dà forfait. Demetrio lo sostituisce. Scopre (inizia a scoprire) le proprie possibilità.
Nel 1967 diventa il cantante de I Ribelli. Un hit come Pugni chiusi e poco altro. Uno dei tanti gruppi che si muovevano d’istinto, con l’istinto e la spregiudicatezza dei giovani, cercando di tracciare la via italiana al beat. E, quindi, al rinnovamento definitivo della nostra scena musicale. Ma il meglio arriva dopo. Arriva con gli anni Settanta che disconoscono qualsiasi limite prefissato alla libertà d’espressione. Il rock che rimescola tutti i generi e rifiuta qualsiasi pregiudizio. Non solo le imposizioni che calano dall’alto. Anche, o soprattutto, l’ottusità che emana dal basso, inducendo la maggior parte del pubblico a rinchiudersi da sé nella gabbia dell’ovvio. Del kitsch.
É l’uovo di Colombo. Le porte (della percezione) non si aprono verso l’interno ma verso l’esterno. La visuale completa si rivela a poco a poco. La prima impressione è quasi sempre errata: e questo, semplicemente, fatalmente, colpevolmente, perché in effetti non si tratta dell’impronta di quello che sta fuori di noi ma di una proiezione di quel che abbiamo dentro. Incrostazioni che crediamo profondità, solo perché sono così spesse da impedirci di accedere a ciò che è davvero profondo. Materiali di risulta accumulati in decenni di cattive abitudini e di ostinata pigrizia, che scambiamo per la nostra identità solo perché ci siamo assuefatti ad averli intorno, come i cumuli di immondizia per le strade di città sventurate e corrotte.
Nel 1970 Stratos lascia I Ribelli. Due anni dopo forma gli Area. Musica ambiziosa, come tutto ciò che non è disposto a ricalcare le orme altrui, e di difficile definizione, come tutto quello che sfugge agli stereotipi. Eppure, quanto meno nelle intenzioni, lontanissima da qualsiasi forma di elitarismo: non c’è bisogno di essere speciali; basta smetterla di essere banali. Non c’è bisogno di essere (restare) una minoranza compiaciuta della propria inarrivabile finezza. Basta non seguire il gregge: e dopo aver scoperto tutt’altri pascoli – e tutt’altri pastori – tornare indietro e condividere le belle novità. Venite anche voi. Ce n’è davvero per tutti. Più di quanto immaginiate. Più di quanto abbiate mai immaginato. Di quanto vi abbiano permesso di immaginare.
L’idea, sacrosanta e insidiosa, è che i più vivano, e scelgano, al di sotto delle loro potenzialità. Le credono convinzioni e sono soltanto convenzioni. Il recinto li rassicura. Il recinto li imprigiona. Stratos comincia a svellere i paletti con gli Area. Poi incide i suoi dischi da solista, ed è come se passasse da una vanga, benché acuminata, all’esplosivo. «Partiamo da questo concetto – dice rivolgendosi al pubblico in apertura di un pezzo intitolato Diplofonia, Triplofonia, Investigazioni – della voce sappiamo pochissimo, quasi niente».
Il suggerimento, implicito, è che ci sia da ripensare non solo l’utilizzo della voce all’interno della musica, ma il fatto stesso che la voce sia al servizio della musica. La musica come la intendiamo e la frequentiamo di solito. Avviluppata nella sua rete, meravigliosa e tuttavia ingannevole, di regole armoniche e seduzioni melodiche. Demetrio Stratos aveva capito. Aveva allungato le dita e cominciato a strapparne le maglie. E chissà che squarcio smisurato avrebbe prodotto, se avesse avuto il tempo di continuare.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao!
Solo per informarvi dell'uscita della prima biografia completa dedicata a Demetrio Stratos con foto inedite e diversi contributi, tra cui la prefazione di Gabriele Salvatores. Si intitola "Demetrio Stratos - Gioia e rivoluzione di una voce" (Aereostella edizioni), autore Antonio Oleari.