lunedì 20 luglio 2009

Michael Bublé canta il remake amorevole dell'America che non c'è (di Federico Zamboni

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 19 luglio 2009
Sembra un atleta che sta per scendere in campo, mentre attende che arrivi il momento di uscire da dietro le quinte e fare la sua comparsa sul palcoscenico del Madison Square Garden. Un campione che ha un ottimo passato e che è finalmente arrivato dove sperava, ma che non sottovaluta affatto l’importanza dell’appuntamento. La consapevolezza lo porta a concentrarsi. La soddisfazione di essere lì gli fa brillare gli occhi. Intravvede quello che succederà tra poco, se tutto andrà come deve, e gli viene da sorridere, pregustando la soddisfazione dell’incontro che si sta per realizzare tra lui e il pubblico. Canterà le canzoni che ama per persone che le amano a loro volta. E che amano il modo in cui lui le interpreta. Pensa che sarà bello. Pensa che sarà delizioso, almeno a tratti. E però, come sempre, sarà anche impegnativo. Molto impegnativo.
Il concerto di stasera – di cui viene restituito un ampio estratto in questo cd/dvd che, nella parte filmata, unisce le performance canore a un bel ritratto dell’uomo e dell’artista – arriva alla fine di un tour che va avanti da due anni e che lo ha portato a suonare in tutto il mondo. New York è la tappa finale. La ciliegina sulla torta. La realizzazione di un sogno. La prima volta che è venuto in città, dopo aver inciso il suo album d’esordio, è andato a comprarlo fingendo di essere un acquirente qualsiasi. Il commesso ha detto subito di sì, come se si trattasse di una richiesta alla quale era abituato. Lui si è goduto la sensazione, mentre l’altro spariva da qualche parte a prendergli il cd. Okay: non lo aveva riconosciuto (per questo c’era tempo) ma non si era nemmeno sorpreso. Bene. Benissimo. L’album iniziava ad avere un buon seguito, evidentemente. Poi il commesso è tornato. E quando gli ha dato l’album, beh, non era affatto quello che si aspettava. Niente Michael Bublé. Michael sì, ma non Bublé. Bolton. Michael Bolton. Al diavolo.
Oggi, nel dicembre 2008, non succederebbe più. Oggi il suo nome è celebre, e anche la sua faccia. Gli ultimi sei anni hanno trasformato le speranze in realtà. Il lungo apprendistato ha dato i suoi frutti. Il ragazzo di Vancouver, che in piena era grunge si era appassionato, complice il nonno, ai grandi crooner del passato più o meno remoto, da Bing Crosby a Frank Sinatra e a Tony Bennet, è diventato un professionista di prim’ordine. Addirittura una star internazionale. Non sembrava affatto probabile, all’inizio. Un modo di cantare agli antipodi del rock, del rap, di qualsiasi cosa arrivata dopo l’avvento di Elvis. Nulla da offrire al bisogno di differenziarsi delle nuove generazioni. Nessuna traccia di disordine. Di quel disordine che sarà anche la forma più rozza di ribellione ma che almeno un pregio ce l’ha: si fa riconoscere al colpo d’occhio. E persino il più stupido degli adolescenti lo sa per istinto: agli adulti il disordine non piace. Adorano il controllo, loro. Adorano il potere. Adorano stabilire cosa si può fare e non fare. Magari gli piace ancora il rock, ma solo per il suono. O tutt’al più per qualche suggestione disseminata qua e là. Bella, quell’idea di libertà assoluta che li aveva attratti a suo tempo. Peccato che, come hanno imparato in seguito, sia fatalmente destinata a rivelarsi niente di più che un ideale romantico. L’attrazione è diventata astrazione. La dura “t” si è trasformata in una morbida “s”. Un piccolissimo passo indietro sulla scalinata dell’alfabeto. Un cambiamento così naturale. Così inevitabile. Così decisivo.
Michael Bublé ha saltato il passaggio. Si è risparmiato il testacoda. Non essendosi esaltato nel salire (troppo) in alto, non si è nemmeno immiserito nello scendere (troppo) in basso. Non avendo nessun motivo per ribellarsi – «la mia famiglia mi ha dato così tanto amore che non sapevo più cosa farne» – non ha mai avvertito la necessità di trovarsi un linguaggio, e un’identità, da contrapporre a quelli che gli venivano trasmessi dall’ambiente nel quale era nato. Il nonno gli ha fatto ascoltare i Mills Brothers. A lui sono piaciuti. Volendo bene al nonno ha visto in quella musica un’opportunità, piuttosto che un’imposizione. Gli è venuta voglia di cantarla. Ha provato e ha avuto l’impressione che avrebbe potuto riuscirci, se ci si fosse impegnato. Ha iniziato a impegnarsi e ha visto che migliorava. E perché non continuare, allora?
Il resto è arrivato un po’ per volta. Non proprio una strada spianata, ma neppure un sentiero proibitivo. Molto lavoro, che irrobustisce il talento, e un pizzico di fortuna, che irrobustisce le speranze. Nel 2000, quando ormai aveva circa 25 anni, gli capitò di cantare al matrimonio della figlia di Brian Mulroney, ex primo ministro canadese. Tra gli invitati c’era David Foster, produttore di cantanti del calibro di Barbra Streisand e Céline Dion, e tanto bastò. L’apprezzamento non si limitò ai complimenti. L’impressione positiva si addensò in un giudizio professionale. Il giudizio lievitò in una chance discografica ad alto livello. Warner Brothers, Michael. Warner Brothers.
Il nucleo fondamentale della storia (della sceneggiatura?) è questo. Il ragazzo non aveva solo una bella voce. Aveva la faccia giusta per quella voce. E il modo di fare ideale per quel genere di repertorio, la cui parola d’ordine è accarezzare chi ascolta facendogli pensare che la vita è bella. E che, se anche le cose non dovessero andare per il meglio già adesso, potranno farlo senz’altro in seguito. Michael è un ottimo interprete, e non soltanto in senso canoro. Michael incarna il tipico ottimismo statunitense, in una sorta di clonazione di un’epoca irrimediabilmente perduta. Il benessere a portata di chiunque se lo meriti. Le emozioni che non diventano mai laceranti. La vita individuale che si staglia sullo sfondo di una società che magari non ti regala nulla ma che fondamentalmente è corretta. Dacci dentro e qualcosa raccoglierai, o prima o dopo.
Michael ha fatto questo. Ha recuperato una lunga serie di standard e ne ha fatto, quand’anche senza volerlo, l’occasione per rievocare un’America che non c’è più. Il suo remake è amorevole. La sua dedizione sincera. Il passato rivive davanti ai nostri occhi con una partecipazione così evidente, così accattivante, che viene voglia di crederci. E sia pure, ma solo per il tempo dello show.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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