giovedì 16 luglio 2009

Poesia senza lustrini, con Patti Smith la musica diventa essenziale (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 12 luglio 2009
Nessuna scenografia, nel concerto di Patti Smith che si è svolto lunedì scorso qui nella Capitale, all’interno della rassegna “Roma incontra il mondo”: il palco spoglio, le luci ridotte all’essenziale, nulla che possa aggiungere, o togliere, suggestione alla musica. Addosso i vestiti di tutti i giorni, come in un incontro tra amici che hanno solo voglia di stare insieme e che, all’abbigliamento, non ci badano affatto. Sì, Patti portava dei pantaloni, l’altra sera. No, non mi ricordo se fossero proprio jeans. Mi ricordo bene quello che ha detto, però. Mi ricordo benissimo come lo ha detto.
Patti può scegliere, a differenza di altri. Non è legata indissolubilmente al suono dei suoi dischi. Non ha nessun bisogno di stupire (stordire) il pubblico con salti e piroette, e plotoni di coristi, e drappelli di ballerini. Sa che non bisogna confondere il dipinto con la cornice. Le insegne al neon sono fatte per abbagliare: ti ingozzano di luce e di colore come anticipo, e promessa, di altri tipi di eccesso. La luce dei falò, che piacevano tanto a Joe Strummer, è fatta per radunarsi quando è calata l’oscurità e le parole tornano a essere importanti. Autentiche. Disinteressate. Pezzi di legno che alimentano il fuoco. E ognuno mette quelli che ha. Quelli che ha raccolto per conto suo, da qualche parte lungo la strada.
Patti è nata come poetessa, molto prima che arrivasse lo splendido esordio discografico di Horses. I musicisti hanno i concerti. I poeti hanno i reading. Hanno solo le loro parole, e la loro capacità di farle risuonare con la stessa intensità con cui le hanno viste affiorare dentro di sé, nel momento in cui le hanno scritte. Tanti altri cantano: e credono che l’abilità consista nel disporre ordinatamente le parole sui fili della melodia. Patti recita: e recitare davvero significa prendere per mano chi ti sta davanti e correre indietro, insieme, verso la sorgente di tutte quelle frasi (e di tutti quei silenzi). Tanti altri girano in tondo: perché quello che spacciano per un lago è solo uno stagno, e quindi non c’è proprio nessuna sorgente da raggiungere e da ritrovare. Patti si inerpica su sentieri poco battuti e su rocce affilate: ma prima o poi ti ci porta, lì dove l’acqua è un filo di luce incontaminata che ti ristora anche solo a guardarla.
«La poesia è negli eroi e gli eroi sono nella gente. La poesia è la visione dal basso che conquista le altezze. È l'umiltà di Madre Teresa, l'umanità di Papa Luciani. A volte mi sorprendo a pensare che Giovanni Paolo I sia al mio fianco, mentre cammino. È incredibile, perché non mi sento cattolica. Non penso al Papa, ma all'uomo, che ho sempre sentito molto vicino a me. Poesia è il verseggiare di Arthur Rimbaud o le parole di Jean Genet. Poesia è tutto ciò che rompe gli argini senza essere annunciato. Poesia è Pasolini, la scomodità. Il Gesù che lui dipinge ne Il vangelo secondo Matteo è il mio Gesù, pieno di energia spirituale, politica e intellettuale.»
La poesia si insegue, ogni volta che si prova a tirarla fuori dal cuore e a fissarla su un foglio. E poi, ammesso che la si sia raggiunta, la si deve inseguire di nuovo, ogni volta che si prova a tirarla via da quel foglio (un po’ scrigno e un po’ prigione) e a rimetterla in gioco, affidandola daccapo alla vita reale. Un accidente di rischio, come no. Lei è una creaturina così delicata. Tu ci sei così affezionato. E se poi si sporca, maneggiata distrattamente da gente che non è pronta a capirla? E se poi si danneggia? Patti corre il rischio. Sa che non ci sono alternative. Sa che la poesia, se è davvero buona, è anche robusta. Molto più robusta di quanto può sembrare. Va al tappeto e si rialza. Perde un match (truccato?) e pensa subito a quello successivo. Niente nascondigli. Niente scuse. Vada come vada, purché a viso aperto. Un ring vale l’altro: sono i pugili a renderlo diverso. Un palcoscenico vale l’altro: sono gli artisti a fare la differenza.
Tanti altri non si fidano. Pensano che il pubblico vada innanzitutto impressionato, fin dalla prima occhiata. Pensano che uno spettacolo riuscito, uno spettacolo “di successo”, presupponga qualcosa di grandioso. Un sacco di faretti colorati. Un sacco di watt. Un congruo numero di musicisti schierati uno accanto all’altro. Una congrua quantità di strumenti tra i quali scegliere di volta in volta. Uh, quante chitarre. Uh, quante tastiere. Uh, che batteria maestosa. La grandiosità dei mezzi come “garanzia” della grandiosità dello show. La logica dozzinale del kolossal. La potenza produttiva come piedistallo. E il piedistallo è altissimo, in effetti. Così alto che la statua si vede appena. Ma fa una tale impressione, da lontano...
Patti si presenta in scena col solo Lenny Kaye, il chitarrista che la accompagna fin dagli inizi. Più tardi, di tanto in tanto, si aggiungerà sua figlia, Jesse Smith, al pianoforte. Tutto rigorosamente acustico, e assolutamente privo di percussioni. Il ritmo è nelle parole. Nei versi. Il ritmo si riverbera dalla voce alla chitarra e viceversa. Patti si abbandona alla corrente del canto. Lenny la asseconda, e la sprona. La stesura originaria fissa solo i confini di massima. Le traiettorie, al loro interno, rimangono libere. È una specie di danza: ci si avvicina, ci si allontana, si inventano continuamente passi diversi o variazioni di passi acquisiti; ma non c’è un singolo istante in cui il filo invisibile che li lega arrivi a spezzarsi – o anche solo a far temere che possa accadere. È una specie di rito, che rievoca (e rigenera) l’abusata definizione di “sacerdotessa del rock”: gli sciamani che si lanciano sulle tracce di forze misteriose nel tentativo di aprire dei varchi nella rete delle percezioni ordinarie, non soltanto per loro stessi ma per tutti quelli che assistono. Per tutti quelli che capiscono.
C’è un’energia da risvegliare, innanzitutto. Un’energia sopita, o ancora peggio distorta, che deve tornare a fluire in ciascuno di noi. L’esperienza diretta al posto delle pseudo emozioni rubacchiate nei programmi televisivi, o raccattate in qualunque altro baraccone dell’industria dell’intrattenimento. “People have the power”, canta Patti. Ricordatevelo, dice e ripete: “Il popolo ha il potere”. Poiché il potere è nell’energia. E l’energia è il cuore stesso della vita.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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