Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 5 luglio 2009
Saranno abbastanza, i dieci giorni che sono ormai passati dalla morte (improvvisa, controversa, celebrata al di là di ogni senso della misura) di Michael Jackson, cosiddetto “Re del Pop”? Saranno abbastanza per spezzare il monopolio delle emozioni, più che mai di massa, e tornare a ragionare, con un minimo di obiettività, sull’effettivo valore di Jacko, sul doppio binario del valore artistico e di quello umano?
Fate voi. La sostanza non cambia: l’apoteosi di Michael Jackson – che è appena cominciata e che purtroppo ha tutta l’aria di essere destinata a protrarsi pressoché all’infinito, nel solito intreccio perverso di credulità da parte del pubblico e di cinismo da parte dell’industria dello spettacolo – è una vera e propria allucinazione collettiva. A differenza di quello che si va ripetendo per ogni dove, non si tratta affatto né di un grandissimo artista né, tanto meno, di una persona degna di chissà quale ammirazione. Escluso quel tanto di pietà che è dovuto a chiunque muoia relativamente giovane, la sua scomparsa non giustifica nessun altro tipo di partecipazione interiore. Non è una tragedia che si è abbattuta su un individuo incolpevole, come quelle che avvengono ogni giorno sui posti di lavoro e che, solo qui in Italia, falciano più di un migliaio di vittime all’anno: è l’epilogo di un’esistenza condotta nel segno dell’egocentrismo assoluto, fino a sprofondare in un isolamento patologico e delirante. Se non avesse goduto dello status di popstar e di tutti i salvacondotti morali che ne derivano, le sue innumerevoli bizzarrie, per non dire di peggio, sarebbero state accolte in maniera assai meno benevola. E stigmatizzate, di conseguenza, per quello che erano realmente: i segni esteriori di una personalità profondamente disturbata, incapace di stabilire un rapporto equilibrato, e via via più maturo, con se stesso e con gli altri.
Quali che ne siano state le cause, a partire dal pessimo abbinamento tra un padre-padrone che pensava solo ad arricchirsi sulle spalle dei figlioli e l’essersi ritrovato fin da bambino sotto le luci della ribalta, come membro più piccolo e però più dotato di quella nidiata di cuccioli musical-canterini che andava sotto il nome di Jackson Five, gli esiti che si sono prodotti hanno ben poco di apprezzabile. E trovano il loro filo conduttore nel rifiuto della realtà, sostituita da una finzione onnipresente e costellata di ogni sorta di artifici.
Cominciamo dall’aspetto fisico. Anche volendo prendere per buona la spiegazione che egli stesso ha fornito e che addebita (accredita...) il continuo schiarimento dell’epidermide alla vitiligine, a dar da pensare rimane tutto il resto. Michael, com’è noto, ha inanellato una tale quantità di cambiamenti estetici da cancellare completamente le sue fattezze originarie: via i capelli ricci in perfetto stile afroamericano; via il naso camuso da black boy; zigomi rialzati e labbra ridisegnate. Risultato finale, una maschera così innaturale da diventare grottesca. Una sorta di fumetto vivente. Ma non un “bel” fumetto armonioso e rasserenante. Al contrario: un’immagine estremizzata e quasi caricaturale, da graphic novel a tinte fosche. Ecco a voi Jacko, l’enigmatico e inquietante Peter Pan del Duemila. Vive in una dimora fiabesca e misteriosa, chiamata Neverland Ranch. Si circonda di adolescenti e addirittura di bambini. Li ama davvero come un fratello maggiore, che vuole donare un po’ della sua fortuna a chi certe cose le può soltanto sognare, o c’è dell’altro? Qualcosa di oscuro... Qualcosa di misterioso ed inquietante...
Poi ci sono i comportamenti. L’ipocondria conclamata e maniacale che lo ha indotto ad abusare dei farmaci fino a incappare, a quanto sembra, in un cocktail mortale. La predilezione per i giovanissimi amici che lo ha portato a essere accusato di pedofilia, per poi uscirne la prima volta grazie a un risarcimento multimilionario e la seconda per effetto di un’assoluzione in extremis. Gli sconcertanti tentativi di mettere su famiglia: il primo matrimonio, durato meno di due anni, con la figlia di Elvis Presley; il secondo, con l’infermiera Deborah Rowe, durato poco di più; i tre figli che non si sa nemmeno se siano davvero suoi ma che in ogni caso sono stati costretti (per tutelarne la privacy...) a comparire in pubblico con delle maschere che ne nascondessero i volti; la liquidazione della stessa Rowe con una ricchissima buonuscita, come se una madre potesse essere licenziata alla stregua di un qualsiasi collaboratore che ha esaurito il proprio ruolo.
Infine, ecco la dimensione artistica. O presunta tale, secondo la pessima abitudine a non distinguere più tra arte e intrattenimento. Bene: in tutta la sua lunga carriera, che al di là del prologo coi succitati Jackson Five è cominciata nel 1979 con Off the Wall, Michael Jackson ha prodotto un unico album davvero notevole, che ovviamente è Thriller e che però, attenzione, deve gran parte della sua riuscita alla presenza di Quincy Jones nelle vesti di arrangiatore-produttore. Il resto, con buona pace dei fan, è roba ordinaria. Che quando tutto va bene è accattivante, mentre negli altri casi, non proprio sporadici, è risaputa e artificiosa. Quanto alla celeberrima We Are The World (scritta insieme a Lionel Richie) è poco più di una filastrocca, che sul piano musicale è elementare fino a essere esile e su quello “poetico” è zuccherosa fino a risultare stucchevole. È piaciuta moltissimo? Certo che sì. Ma non è che la popolarità sia di per sé un attestato di grandezza artistica. Inoltre, lo straordinario successo di We Are The World è legato in misura determinante alla partecipazione di una sfilza di star, a cantare qualche verso da sole e ad ingrossare il coro tutte insieme, e alle finalità umanitarie dell’intera operazione.
Che ve ne sembra, dunque? Siete ancora convinti che si tratti di un magnifico artista, e di una splendida persona, di cui piangere la scomparsa con la costernazione che va riservata ai migliori? Fate voi. Quello che sappiamo noi è che il cordoglio planetario è un rito cui è difficilissimo sottrarsi. Non sia mai che vi vedano con gli occhi asciutti e lo sguardo distratto o persino infastidito, mentre tutti versano calde lacrime e si sentono buoni e generosi come angioletti del paradiso.
Fate voi. La sostanza non cambia: l’apoteosi di Michael Jackson – che è appena cominciata e che purtroppo ha tutta l’aria di essere destinata a protrarsi pressoché all’infinito, nel solito intreccio perverso di credulità da parte del pubblico e di cinismo da parte dell’industria dello spettacolo – è una vera e propria allucinazione collettiva. A differenza di quello che si va ripetendo per ogni dove, non si tratta affatto né di un grandissimo artista né, tanto meno, di una persona degna di chissà quale ammirazione. Escluso quel tanto di pietà che è dovuto a chiunque muoia relativamente giovane, la sua scomparsa non giustifica nessun altro tipo di partecipazione interiore. Non è una tragedia che si è abbattuta su un individuo incolpevole, come quelle che avvengono ogni giorno sui posti di lavoro e che, solo qui in Italia, falciano più di un migliaio di vittime all’anno: è l’epilogo di un’esistenza condotta nel segno dell’egocentrismo assoluto, fino a sprofondare in un isolamento patologico e delirante. Se non avesse goduto dello status di popstar e di tutti i salvacondotti morali che ne derivano, le sue innumerevoli bizzarrie, per non dire di peggio, sarebbero state accolte in maniera assai meno benevola. E stigmatizzate, di conseguenza, per quello che erano realmente: i segni esteriori di una personalità profondamente disturbata, incapace di stabilire un rapporto equilibrato, e via via più maturo, con se stesso e con gli altri.
Quali che ne siano state le cause, a partire dal pessimo abbinamento tra un padre-padrone che pensava solo ad arricchirsi sulle spalle dei figlioli e l’essersi ritrovato fin da bambino sotto le luci della ribalta, come membro più piccolo e però più dotato di quella nidiata di cuccioli musical-canterini che andava sotto il nome di Jackson Five, gli esiti che si sono prodotti hanno ben poco di apprezzabile. E trovano il loro filo conduttore nel rifiuto della realtà, sostituita da una finzione onnipresente e costellata di ogni sorta di artifici.
Cominciamo dall’aspetto fisico. Anche volendo prendere per buona la spiegazione che egli stesso ha fornito e che addebita (accredita...) il continuo schiarimento dell’epidermide alla vitiligine, a dar da pensare rimane tutto il resto. Michael, com’è noto, ha inanellato una tale quantità di cambiamenti estetici da cancellare completamente le sue fattezze originarie: via i capelli ricci in perfetto stile afroamericano; via il naso camuso da black boy; zigomi rialzati e labbra ridisegnate. Risultato finale, una maschera così innaturale da diventare grottesca. Una sorta di fumetto vivente. Ma non un “bel” fumetto armonioso e rasserenante. Al contrario: un’immagine estremizzata e quasi caricaturale, da graphic novel a tinte fosche. Ecco a voi Jacko, l’enigmatico e inquietante Peter Pan del Duemila. Vive in una dimora fiabesca e misteriosa, chiamata Neverland Ranch. Si circonda di adolescenti e addirittura di bambini. Li ama davvero come un fratello maggiore, che vuole donare un po’ della sua fortuna a chi certe cose le può soltanto sognare, o c’è dell’altro? Qualcosa di oscuro... Qualcosa di misterioso ed inquietante...
Poi ci sono i comportamenti. L’ipocondria conclamata e maniacale che lo ha indotto ad abusare dei farmaci fino a incappare, a quanto sembra, in un cocktail mortale. La predilezione per i giovanissimi amici che lo ha portato a essere accusato di pedofilia, per poi uscirne la prima volta grazie a un risarcimento multimilionario e la seconda per effetto di un’assoluzione in extremis. Gli sconcertanti tentativi di mettere su famiglia: il primo matrimonio, durato meno di due anni, con la figlia di Elvis Presley; il secondo, con l’infermiera Deborah Rowe, durato poco di più; i tre figli che non si sa nemmeno se siano davvero suoi ma che in ogni caso sono stati costretti (per tutelarne la privacy...) a comparire in pubblico con delle maschere che ne nascondessero i volti; la liquidazione della stessa Rowe con una ricchissima buonuscita, come se una madre potesse essere licenziata alla stregua di un qualsiasi collaboratore che ha esaurito il proprio ruolo.
Infine, ecco la dimensione artistica. O presunta tale, secondo la pessima abitudine a non distinguere più tra arte e intrattenimento. Bene: in tutta la sua lunga carriera, che al di là del prologo coi succitati Jackson Five è cominciata nel 1979 con Off the Wall, Michael Jackson ha prodotto un unico album davvero notevole, che ovviamente è Thriller e che però, attenzione, deve gran parte della sua riuscita alla presenza di Quincy Jones nelle vesti di arrangiatore-produttore. Il resto, con buona pace dei fan, è roba ordinaria. Che quando tutto va bene è accattivante, mentre negli altri casi, non proprio sporadici, è risaputa e artificiosa. Quanto alla celeberrima We Are The World (scritta insieme a Lionel Richie) è poco più di una filastrocca, che sul piano musicale è elementare fino a essere esile e su quello “poetico” è zuccherosa fino a risultare stucchevole. È piaciuta moltissimo? Certo che sì. Ma non è che la popolarità sia di per sé un attestato di grandezza artistica. Inoltre, lo straordinario successo di We Are The World è legato in misura determinante alla partecipazione di una sfilza di star, a cantare qualche verso da sole e ad ingrossare il coro tutte insieme, e alle finalità umanitarie dell’intera operazione.
Che ve ne sembra, dunque? Siete ancora convinti che si tratti di un magnifico artista, e di una splendida persona, di cui piangere la scomparsa con la costernazione che va riservata ai migliori? Fate voi. Quello che sappiamo noi è che il cordoglio planetario è un rito cui è difficilissimo sottrarsi. Non sia mai che vi vedano con gli occhi asciutti e lo sguardo distratto o persino infastidito, mentre tutti versano calde lacrime e si sentono buoni e generosi come angioletti del paradiso.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.
6 commenti:
Ottimo, Federico.
L'unico pezzo coraggioso su Jackson che ho letto finora. Oltre al mio.
Vedo che sul Jackson songwriter la pensiamo più o meno uguale, tu però sei più tranciante sul personaggio. Io almeno ho salvato in corner il performer.
Ciao.
Claudio.
Sono d'accordo, anche se sulla mia bacheca facebookiana i commenti sono stati meno benevoli. Peccato che Federico non sia iscritto al socialnetwork in questione, sono sicuro che avrebbe avuto piacere a confrontarsi...
Io mi sono confrontato :-)
Grazie a entrambi. I commenti su Facebook non li ho ancora letti e non è che abbia così voglia di replicare, ma figuratevi se mi possono sorprendere. Proprio perché siamo in piena agiografia il "rischio" di passare da miscredenti è altissimo. Inoltre, non è che abbia molto da aggiungere a quello che ho scritto. Ai superfan si può rivolgere un'unica domanda (dalle molte alternative, quanto al termine di paragone): se Michael Jackson è stato un genio, Jimi Hendrix come lo dobbiamo definire?
James Brown, Marvin Gaye, Sly & Family Stone, Prince... solo stando alla musica nera, e ho fatto solo qualche nome a caso...
Egr. Sig. Zamboni, non leggo nel suo articolo nulla riguardo alle innumerevoli donazioni a ospedali, associazioni benefiche, etc effettuate da Jackson...
A proposito della da Lei definita "stucchevole" "We are the world",perchè non ricordare che era stata composta per raccogliere fondi contro la fame in Africa?Relativamente ai processi per pedofilia, Le consiglio di documentarsi su come si è sviluppata l'intera vicenda e sulle persone che avevano effettuato la denuncia.
Marzia Maneri
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