domenica 13 settembre 2009

Beatles "remastered", quando il mito diventa marketing (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 13 settembre 2009
Hanno pianificato tutto con la massima attenzione. Aspetti sostanziali e particolari di contorno. Seduzioni intrinseche e suggestioni accessorie. Come si dice in questi casi, anche se spesso a sproposito, non doveva essere solo un’uscita discografica ma un “evento”. Qualcosa che si proietta al di là del suo ambito naturale e che investe l’immaginario collettivo. Qualcosa che fissa, o promette di farlo, una linea di demarcazione tra il prima e il dopo.
Nel caso specifico, il prima era la discografia dei Beatles che abbiamo ricevuto in eredità dal passato: i vecchi dischi in vinile che vennero pubblicati negli anni Sessanta, dall’esordio a 45 giri di Love Me Do nell’ottobre del 1962 fino all’epilogo su long playing di Let It Be nel maggio del 1970, e che in seguito sono stati riproposti su cd, in coincidenza col passaggio dall’analogico al digitale. Il dopo, frutto di un lavoro certosino che si è protratto per quattro anni e che si è svolto, manco a dirlo, in quegli studi di Abbey Road dove trenta e più anni fa nacquero gli album più importanti a cominciare da Sgt. Pepper’s, è la rimasterizzazione integrale di tutto ciò che i “Fab Four” hanno inciso.
Ai discografici è una parola che piace molto, “rimasterizzato”. Sanno che di regola funziona, ai fini delle vendite. Sanno che è di per sé una pubblicità permanente, incorporata nella natura stessa del prodotto. Una volta piazzato sugli scaffali, il disco la mostrerà (la esibirà) per tutto il tempo in cui rimarrà esposto. Come minimo ci sarà un bollino appiccicato sulla confezione. Altrimenti la parolina magica, “remastered”, verrà inglobata nelle indicazioni di copertina, se non addirittura nel titolo. Voilà. Prima del ritocco era solo un vecchio album che giaceva più o meno dimenticato negli archivi. Dopo il ritocco è come se nascesse a nuova vita. Quelli che lo conoscono perfettamente provano il desiderio di ascoltarlo nella versione aggiornata, magari per riaccendere la passione che aveva suscitato in loro anni addietro e che, col tempo, aveva finito con l’assopirsi. Quelli che non ne sanno nulla, di solito perché appartengono a una generazione successiva, vi si accostano più volentieri, avendo l’impressione di non procedere a un oscuro recupero individuale, da topo d’archivio, ma di partecipare a una gioiosa riscoperta collettiva, da invitato ai festeggiamenti ufficiali.
Il messaggio è sottinteso, al di là del fatto che venga anche ribadito esplicitamente dalla pubblicità. Il messaggio è che nel frattempo la tecnologia si è evoluta, si è perfezionata, e perciò può migliorare a tal punto la resa sonora del’originale da giustificare – quasi da esigere – una rielaborazione da cima a fondo. Il messaggio è che la musica creata dagli artisti avesse in sé qualcosa di importante – quasi di essenziale – che a suo tempo non era stato possibile trasferire nei dischi. E se questo è vero, o verosimile, per quanto riguarda i lavori realizzati dagli anni Settanta in poi, lo è a maggior ragione per ciò che risale a periodi ancora più lontani. Quando la stereofonia era appena agli albori e gli strumenti venivano registrati alla rinfusa su una stessa pista. Quando le sale d’incisione non offrivano nemmeno l’ombra degli innumerevoli sistemi di controllo che sarebbero subentrati in seguito. Quando, nel bene e nel male, si era costretti a fare di necessità virtù e si puntava tutto sulla forza espressiva della musica, piuttosto che sulla magnificenza dei suoni.
I Beatles, dal canto loro, attraversarono proprio la lunga transizione che separa le due fasi. Nacquero con le canzoni da due minuti o poco più e approdarono via via a brani di ben altra levatura, non solo di maggior durata ma soprattutto di crescente complessità. Nel loro rapido progredire, che del resto fu condiviso da tanti altri musicisti della stessa generazione, poter contare su attrezzature più versatili significava davvero poter realizzare delle composizioni più articolate e significative. Se ne avessero avuta la disponibilità già allora, quando ancora lavoravano e creavano insieme, non c’è dubbio che la loro musica sarebbe stata diversa e, con ogni probabilità, migliore.
Allo stesso tempo, però, i loro dischi appartengono in modo indissolubile all’epoca nella quale sono apparsi. I Beatles sono ciò che hanno fatto, e non fatto, nella realtà del loro tempo. Fare ipotesi su come sarebbe andata in circostanze diverse è un esercizio del tutto legittimo (e una bella tentazione, come qualsiasi fantasticheria modellata su qualcosa di eccezionale) ma bisogna stare attenti a non farsi prendere la mano. I Beatles – il loro spirito, la loro musica, la loro verità – sono racchiusi non solo nelle note che hanno suonato e nelle parole che hanno cantato ma anche nel modo in cui le une e le altre si sono andate a riversare nei dischi. Ci sono dei difetti? Pazienza. Ci sono dei limiti tecnici che rendono il risultato finale inferiore alle possibilità? Non importa. I Beatles vanno presi per come si sono manifestati realmente, difetti e limiti tecnici inclusi. Vanno conosciuti, e assaporati, nello stesso modo in cui lo hanno fatto i loro contemporanei.
È questo ciò che lascia perplessi nell’iniziativa, voluta e gestita dai soli discografici, di sottoporre tutto il loro repertorio a una così vasta opera di maquillage. I Beatles, hanno riferito i tecnici del suono impegnati nell’operazione, «non hanno mai telefonato». Secondo loro va interpretato come un avallo: chi tace acconsente. Ma forse è l’opposto. Forse, o probabilmente, a Paul McCartney e a Ringo Starr l’intera operazione (improba sul piano tecnico e improbabile su quello artistico, superba nella forma e superflua nella sostanza) non interessava affatto. Sapendo meglio di chiunque altro che i Beatles sono una leggenda, meravigliosa quanto si vuole ma incorniciata in un passato che risale ormai a più di 40 anni fa, sanno anche che alle leggende non si può aggiungere nulla. Tex a colori non è certo più suggestivo del vecchio Tex in bianco e nero. La suspense del miglior Hitchcock non aumenta in alta definizione. Applicata a ciò che è già noto, e artisticamente compiuto, la tecnologia è solo una variante del packaging. Che è a sua volta una branca del marketing. Che è a sua volta il braccio armato del business.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

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