lunedì 21 settembre 2009

Inchiesta sul giornalismo italiano: un malato terminale? (di Francesco Lo Dico)

Articolo di Francesco Lo Dico
Dal quotidiano Liberal del 10 settembre 2009
Lontani dal placarsi, gli strascichi polemici legati alla vicenda Boffo-Feltri e al giro di escort del presidente del Consiglio, continuano ad alimentare risse e dibattiti sul ruolo dell’informazione. E se in merito alla querelle Giornale-Avvenire culminata con le dimissioni di Dino Boffo, la Procura di Monza ha aperto un’inchiesta a carico di ignoti ipotizzando i reati di accesso abusivo a sistema informatico o falsificazione di atto pubblico, ieri hanno destato molto clamore anche i verbali dell’interrogatorio di Giampaolo Tarantini a proposito delle ormai famigerate festicciole a palazzo Grazioli organizzate per Silvio Berlusconi. Nuovi strascichi di un giornalismo degradato, oppure semplice diritto di cronaca? Lo abbiamo chiesto ad alcune firme dell’informazione italiana.
«Più che di degrado, parlerei di confusione intenzionale tra cronaca, analisi e gossip – spiega a liberal Stefano Menichini, direttore di Europa. «La stampa italiana ha ormai mischiato insieme modalità di informazione che in altri Paesi sono separate da nette linee di demarcazione – prosegue Menichini – con il risultato che si produce nei lettori analoga confusione. In quest’ottica, allora si può parlare di degrado dei nostri mezzi d’informazione».
«Sarei cauto nel parlare di degrado – osserva il vicedirettore de Il Riformista, Stefano Cappellini. «Probabilmente ci sono stati alcuni eccessi e sono stati scavalcati dei limiti – prosegue Cappellini – ma è innegabile che la stampa ha fatto un lavoro necessario. Il problema è che si sono date notizie sgradevoli e che questo ha esacerbato le campagne a mezzo stampa con la ricerca di storie sempre più scottanti, in grado di rinserrare le fila di questa o quella compagine».
«Non sta bene che i giornalisti parlino del giornalismo – osserva Alessandro Giuli, vicedirettore de Il Foglio. «Detto questo, cadere nell’ipocondria, sprofondare in certi abissi di cattiva coscienza, eleggere a sintomi di una malattia incurabile certi episodi passeggeri, per poi innalzarne altri a indizi di uno stato di salute, fa pensare di per sé a una professione tremolante», precisa Giuli. Che entra subito nel vivo delle ultime polemiche: «Non si può sottoporre Vittorio Feltri a un linciaggio inverecondo per aver fatto il proprio mestiere sul caso Boffo, il mestiere di un giornale-partito speculare a Repubblica, e poi salutare come operazioni di alto profilo morale gli assalti alla vita privata del premier. La disfida delle dichiarazioni contrapposte non fa che premiare l’abilità dialettica di Silvio Berlusconi, a scapito di avversari molto meno versati nel fiutare gli umori del momento».
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Aldo Forbice, veterano dell’informazione italiana e conduttore di Radio 1 Zapping. «L’imbarbarimento dei media è sotto gli occhi di tutti, ma detto ciò non è accettabile puntare l’indice su una testata o su un’altra per ragioni di calcolo e di moralismo farisaico», argomenta il giornalista Rai. Che mette sull’avviso direttori e gruppi editoriali: «Libertà di stampa e calunnia sfrenata non sono categorie invocabili a seconda delle circostanze e delle famiglie giornalistiche che ne fanno uso in eguale misura. I direttori dovrebbero riflettere sul proprio ruolo e sulla percezione che i loro prodotti editoriali suscitano nei lettori. Dal mio osservatorio di Zapping, rilevo un dato incontrovertibile: la gente, di ogni estrazione e coloritura politica, è stanca di questo gioco al massacro. E basta con il ridicolo alibi dei record di vendita: i giornali non sono bibite effervescenti da piazzare a colpi di réclame, ma anche e soprattutto aree vitali per l’opinione pubblica, e risorse preziose contro talune degenerazioni del potere».
Un tema, quello del doppiopesismo, che ricorre anche nelle considerazioni di Stefano Cappellini: «Mi sembra piuttosto curiosa l’indignazione a corrente alternata. In buona sostanza, le fazioni in campo si rimproverano vicendevolmente asprezze e cadute di stile che entrambe sostengono come lecite e moralmente degne se rivolte contro il proprio bersaglio politico. Bisogna uscire dal doppiopesismo in voga – ammonisce Cappellini – Non si può continuare a dire che se Repubblica indaga sul premier tutto va bene, mentre se a farlo è un giornale di destra, si accusa chi lavora di becerume. Uno strabismo che porta a una visione continuamente distorta della realtà».
Sugli ultimi veleni sgocciolati sulla nostra carta stampata, si esprime in modo netto Nicoletta Tiliacos, giornalista de Il Foglio. «Esempi poco edificanti sono sempre esistiti nella storia del giornalismo italiano, ma a ben guardare la situazione attuale, mi sembra evidente una contrapposizione tra diversi modi di fare informazione. In questa particolare fase c’è da una parte l’ottimo giornalismo offerto da Avvenire, coraggioso nel prendere posizione all’interno del dibattito pubblico, capace di rischiare l’isolamento e di pagare a caro prezzo la propria autonomia di giudizio. E dall’altra c’è quello, pessimo, di Vittorio Feltri».
Sullo stato dell’arte della nostra informazione, opera un distinguo anche Roberto Alfatti Appetiti, firma del Secolo d’Italia: «Si tratta di una questione molto semplice e nient’affatto peculiare del nostro tempo: accanto al buon giornalismo continua a sopravvivere quello cattivo, malevolo e mal referenziato. La nostra carta stampata si è da sempre suddivisa in fazioni molto ben riconoscibili. Ed è legge antica che fare giornalismo all’ombra di un qualche gonfalone significhi soprattutto cedere autonomia di giudizio, in favore degli ordini di reggimento».
Di tendenze e costumi antichi, parla anche Stefano Cappellini: «I quotidiani non hanno certo indossato l’elmetto di recente. Una certa militanza, frenetica e un po’ corriva nell’avventarsi contro l’avversario, c’è sempre stata dacché il giornalismo italiano esiste. Semmai oggi ci troviamo a costatarne un cambio di indirizzo. La materia di discussione messa in pagina si è trasformata in qualche caso da inquisizione su temi pubblici di natura strettamente politica, a processo sommario che giudica e mette alla berlina la privatezza. Si affastellano articoli su articoli dedicati a questioni scabrose e cronachette squallide».
Le sempre più frequenti incursioni della stampa nelle vicende private di questo o quel personaggio, hanno per Aldo Forbice un movente preciso: «Lobby e gruppi editoriali scatenano campagne promozionali a difesa dei propri interessi, scatenando violente offensive contro concorrenti e gruppi avversi. Il tutto a ritmo di business e di ragioni di possesso». «Basti pensare che Corriere e Repubblica– prosegue Forbice – gareggiano ogni giorno in numero di pagine dedicate al pettegolezzo e alla spigolatura maliziosa. Nel vedere dedicate alla vicenda Boffo sette pagine, ho provato grande vergogna per il nostro mestiere».
«Non sento di volermi impancare a giudice ed esclamare “O tempora, o mores” – commenta Nicoletta Tiliacos, che a proposito delle traversie dell’ex direttore di Avvenire aggiunge: «Il caso Boffo mi sembra l’ulteriore riprova di una tentazione diffusa. Quella di usare le vicende private dell’individuo contro l’uomo pubblico. Una tendenza che, sotto certi punti di vista, riguarda anche il trattamento riservato a Silvio Berlusconi».
«La verità è che i giornali inseguono la china scandalistica perché non riescono più a convogliare l’attenzione dei lettori su temi politici basilari come le riforme, la sanità, l’istruzione pubblica. Un grave pericolo per il sistema di equilibri che regge la democrazia. Se il pubblico sembra anestetizzato, va stimolato e riaccostato alla politica. E invece si decide di catturarne l’attenzione con un gossip sempre più invelenito», chiosa Aldo Forbice.
«Tutto sommato, mi pare fuori luogo conclamare la malattia del giornalismo italiano – precisa Alessandro Giuli –. Anche in passato si è chiamata in correo la stampa e accusato di nefandezze firme illustri poi entrate nella storia del giornalismo. Se proprio occorre attribuire un malanno al nostro mestiere, e alla percezione che esso induce, allora mi sembra più adatto parlare di pigrizia».
In fatto di eventi storici che hanno scandito la storia della stampa italiana, offre un prezioso contributo Stefano Menichini: «L’avvento della tv commerciale ha prodotto un’assoluta dominanza dei meccanismi mediatici sulla costruzione dell’opinione pubblica. La ricerca di stili sintetici, rapidi, pieni di colpi a effetto, ha sospinto anche i quotidiani a inseguire la televisione sul terreno della spettacolarizzazione. Una gara che ha prodotto come risultato il livellamento verso il basso di tutta l’informazione». Dai nuovi media a quelli nuovissimi come internet, il passo è breve.
«La proliferazione di commentari, mezze testate e organi di stampa ufficiosi sulla rete – spiega Alessandro Giuli – ha impigrito buona parte dei professionisti dell’informazione, sempre più nevrotici e abituati a posture innaturali».
Stefano Cappellini rileva invece che «Tangentopoli ha senz’altro alzato il livello dello scontro e ha accordato le battaglie giornalistiche su ottave più acute. Fino a venticinque anni fa vigeva un sostanziale riserbo sulle questioni personali di questo o quel personaggio pubblico».
Ulteriori elementi di analisi provengono dalle parole di Nicoletta Tiliacos: «Non è facile stabilire su due piedi quali processi ed eventi storici abbiano condotto alla situazione attuale – dice Tiliacos –, ma mi pare che la personalizzazione della politica abbia molto influito sul modo di fare informazione. La maniacale attenzione dedicata oggi a fatti privati, un tempo non meritava suoi quotidiani che brevi parentesi. Ma la mia è solo una constatazione. Ci sarebbe molto da discutere su cosa è meglio o peggio, in merito a vecchie e nuove abitudini della carta stampata».
«A sfogliare i nostri giornali, si ha la sensazione che è forse arrivato a compimento quel lento trapasso dal primato delle idee a quello dell’ideologia – chiosa Alfatti Appetiti – Un tempo si assisteva a battaglie a mezzo stampa ispirate in primo luogo da contese culturali. Oggi i giornali hanno ceduto lo scettro alla battaglia politica pura. Un terreno di scontro irto d’insidie, tese da gruppuscoli e sottoreggimenti sempre più numerosi. La nostra stampa è attraversata da una sempre più netta libanizzazione, che trasforma uomini e cose in minuscoli lacerti da agguantare o scartare a seconda delle evenienze».
E di libanizzazione, stavolta all’interno dei sindacati che rappresentano la professione, parla anche Aldo Forbice. «È stupido accanirsi contro le querele sporte da questo o quel politico, o promulgare iniziative in difesa della libertà di stampa. Ci dimentichiamo che a suo tempo, anche Prodi e D’Alema adirono le vie legali. E queste amnesie non fanno il bene del nostro sindacato, che esprime posizioni faziose».
In mezzo a tanto sconforto, arriva uno spiraglio da Stefano Menichini. «La modernizzazione dei giornali, che peraltro ha premiato in fatto di vendite quelli più spregiudicati, ha dato la stura a una mescolanza di stili che però lascia qualche margine ai piccoli giornali. La loro sopravvivenza testimonia che tra i lettori c’è voglia di un’informazione diversa».
Francesco Lo Dico è nato a Palermo nel 1979, sceneggiatore, scrittore e giornalista, scrive per il quotidiano Liberal.

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