mercoledì 23 settembre 2009

Quando il punk si accompagna a ritmi céliniani (di Giovanni Tarantino)

Articolo di Giovanni Tarantino
Dal Secolo d'Italia di martedì 22 settembre 2009
«Quant’è vero iddio mi piazzo una capanna in Nicaragua, in Messico o in Belize grattandomi tutto il giorno e scrivendo qualche cosa ogni tanto». Mollare tutto, fuggire, rompere con il mondo che ci circonda. Farla finita con la monotonia del quotidiano, fatto di impegni, fatiche, stress, come quelle di «chi lavora tutta la vita come un fottutissimo servo della gleba medievale …». Disprezzo del conformismo e del tran tran borghese? Dell’abitudine? Rifiuto anarchico del mondo contemporaneo? Sì, ma non solo. Questi e altri sono i principali temi affrontati, con un linguaggio spregiudicato, come già si intuisce dai precedenti virgolettati, in questo Céline è fuori stanza, ultimo romanzo di Maurizio Makovec (Coniglio Editore, pp.194, euro 13,50).
Il sottotitolo del libro, come si legge dalla copertina, recita: «Il futuro è una rapina!». Una provocazione anarcoide e ribellistica non tanto dissimile dal «No future » che fu slogan dei punk settantasettini, quelli dei tempi dei Sex Pistols per capirci. Ma non solo. Anche una canzone degli Amici del Vento, gruppo musicale tra i pionieri di quel genere denominato “alternativo”, dal titolo Andare via, esprimeva la rabbia dei giovani a cavallo di quella stagione con versi di questo tenore: «Non ha più senso questo mondo di cartone, di rotocalchi e di pubblicità per televisione che ti riempie la testa di sogni e di chimere che non hanno più nemmeno il colore della tua fantasia». Proprio la televisione, e ancora di più Sky e il calcio in pay tv, vengono presi di mira da Maurizio Makovec nella quarta di copertina, come simbolo del degrado culturale contemporaneo. Del resto, allo stesso modo di Makovec, anche gli Amici del Vento proponevano una fuga dal becero contesto sociale che li circondava: «Andare via, lontano… non per i soldi ma per vedere che razza di uomo sia / inseguendo un sogno pazzo oltre i confini dell’ipocrisia ». Salvo poi concludere, in maniera probabilmente ravveduta rispetto all’impeto iniziale: «Chiusi nel buio del cassetto ci sono i sogni e le mie fughe ma la mia guerra rimane qua, rimane qua».
Una cosa è certa: il romanzo di Makovec, non sappiamo fino a che punto in maniera inconsapevole, sembra raccogliere l’eredità di quei fermenti legati a una stagione culturalmente tanto dissacratoria quanto libertaria. Il tuttom in un romanzo definito «picaresco metaromanzo dei giorni nostri, ma anche esilarante ritratto generazionale, l’istantanea di uno spaccato sociale in cui la prima persona riesce facilmente a diventare coro». Potremmo definirlo a tal punto anche come un manifesto del nuovo individualismo, dove l’io viene anteposto al collettivo. Non è casuale infatti il rimando del titolo a Louis-Ferdinand Auguste Destouches, scrittore e medico francese meglio conosciuto col nome de plume di Céline. Personaggio al quale Makovec, durante la sua carriera ha de dicato più volte attenzione. Nato a Viterbo nel 1972 Maurizio Makovec si è laureato in letteratura comparata presso l’Università di Siena, proprio con una tesi sull’autore di Viaggio al termine del dela notte. Successivamente ha vissuto in Marocco, a Bologna, a Siena e a Caen. Attualmente vive e lavora nella sua città natale presso un’azienda privata, dove si occupa di rapporti con la stampa. Già collaboratore del quotidiano romano Il Tempo, nel 2003 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio dal titolo Lacchè, fighette e dottorandi (Edizioni Clinamen). E nel 2005 ha pubblicato il saggio Céline e l’Italia con Settimo Sigillo.
E ancora Céline riecheggia e presenzia in maniera preponderante e determinante in questo romanzo in cui «tra prevaricatori, cialtroni, geni folli e filosofi da bar, si affastellano le rocambolesche avventure di Ferdinando Letizia» – alter ego dell’autore ma dal nome Ferdinando come quello del “maestro” Céline – «novello John Fante alle prese con il suo primo romanzo e con la noia piena della vita di provincia».
Che si aggira frastornato per le vie di una Viterbo claustrofobica che sembra suggerirgli una fuga, anche se «l’unica cosa da cui sembra saper fuggire è il rischio di finire in Accademia». Rischio perpetuato dalle volontà e dalle conoscenze familiari, che sin dalle prime righe lascia presagire il pericolo, rappresentato dall’ordine e dalla rigidità della vita militare, per uno spirito non allineato come quello del protagonista del libro. Così Ferdinando Letizia si inventa scrittore, «affronta il duro mondo editoriale, si nutre di indignazioni che straripano dal comico, di occasioni mancate e proget ti assurdi partoriti in notti etiliche, il tutto alla ricerca di una stabile instabilità che gli consenta di starsene in pace». Non gli man cheranno le disavventure tipiche di chi, consapevole lettore di Alain de Benoist e conoscitore del fascismo libertario e di sinistra, si sentirà incompreso dai coetanei, ogni qual volta gli verrà la cattiva progetidea di intrattenersi in discussioni politiche, metapolitiche o presunte tali. Ma il leit-motiv del romanzo sarà il costante tentativo di ricerca di tale stabilità che permea nella domanda delle domande: «Ce la farà il nostro eroe con qualche macchia e nessuna paura a trovare la svolta che gli permetta di campare senza lavorare e di restare immune al ciarpame che lo circonda?». Che si tratti di una sorta di vocazione jüngeriana e post-moderna al “darsi la macchia” come l’anarca che non si lascia contaminare dal potere? Forse, in maniera più scanzonata e, sul piano lessicale, meno aristocratica e raffinata. Elementi che nel panorama della nuova narrativa italiana hanno un’accezione tutt’altro che negativa.
Giovanni Tarantino è nato a Palermo il 23 giugno 1983. Giornalista attento alle culture e alle dinamiche giovanili, lavora per E-Polis e collabora con il Secolo d’Italia. Si è laureato in Scienze storiche con una tesi dal titolo Movimentisti. Da Giovane Europa alla Nuova destra.

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