domenica 27 settembre 2009

Il grunge dei Pearl Jam è un pensiero nuovo che cerca la speranza (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 settembre 2009
La giovinezza se n’è andata anche per i Pearl Jam. Ma non è solo una questione anagrafica: è un fatto esistenziale. Se esci vivo dall’adolescenza (vivo: non semplicemente sopravvissuto) è più che probabile che qualche tipo di equilibrio sia arrivato a prendere il posto della rabbia e dell’inquietudine. La rabbia che ti accendeva. L’inquietudine che ti consumava. Le emozioni così forti, così incontrollabili, da essere sempre lì lì per ritorcersi su se stesse e diventare autodistruttive.
I Pearl Jam, e in particolare il loro “cantautore” Eddie Vedder, ne avevano accumulata una riserva smisurata. Un’immensa distesa d’acqua profonda e oscura, di cui non si vedevano i limiti e di cui non si poteva sapere con esattezza fino a quali abissi si spingesse. Si osservavano le onde e si facevano ipotesi. E non era certo il caso di sottovalutare quelle che apparivano più lievi. Seattle è città di nuvole e di pioggia: il cielo sgombro è solo una pausa – o un prologo. Il grunge è terra (e mappa) di domande e di insofferenza: una canzone accattivante è solo una piccola radura che si apre tra le rocce e ti sorprende – ma che non ti deve illudere. Seattle ha l’oceano davanti e le montagne alle spalle. Forze che aleggiano anche quando non ci si pensa. Non siamo noi a comandarle. Non comandiamo quasi nulla, in effetti.
Ma c’è un’alternativa al comando: la comprensione. La capacità di dedicarsi alle cose, e alle persone, e a noi stessi, senza pretendere di controllare tutto e di asservire tutto ai nostri desideri. «In questi anni – ha dichiarato recentemente Vedder, in una bella intervista realizzata da Giuseppe Videtti e pubblicata su Repubblica – ho capito che la vita è preziosa. Non voglio più perdere d'occhio il privilegio che mi deriva dalla mia esperienza di rocker e la magnificenza di quel che ci circonda, la bellezza di una conchiglia che trovi nella sabbia, di una nuvola che si forma nel cielo, delle gocce di pioggia che si rincorrono in una pozzanghera. Siamo così tormentati dalle cattive notizie, strangolati da mille paure che non riusciamo più a vedere le meraviglie che il pianeta ci regala.»
Backspacer, il nuovo album che arriva a tre anni dal precedente Pearl Jam (altrimenti noto come Avocado, per l’immagine del frutto che campeggiava in copertina), è questo sguardo ripulito e fiducioso che si alza sul mondo e si apre alla speranza. Quello che non hai capito oggi potresti capirlo domani, o tra un attimo. O chissà quando; mentre nel frattempo, però, innumerevoli altre domande e risposte ti avranno attraversato, e riempito, la vita. “Resta con me e respira soltanto”, dice/consiglia/supplica la splendida Just Breathe che trasforma in una grande canzone un brano solo strumentale contenuto della colonna sonora, composta dallo stesso Vedder, dell’altrettanto grande Into the Wild.


Backspacer corre via veloce, anche troppo. Appena 37 minuti di durata complessiva, che si snodano all’insegna dell’immediatezza e del desiderio di lasciare da parte tutto ciò che tardava a prendere forma. Si sa come va a finire: più ci pensi su e più ti chiedi se è giusto. Più te lo chiedi e meno lo capisci. Come ha scritto Stephen King (che la sa lunga e, bontà sua, ce l’ha svelata nell’imperdibile On Writing) “Ricordate che la regola fondamentale del vocabolario è: usate la prima parola che vi viene in mente, se è appropriata e colorita. Se esitate e vi mettete a riflettere, vi verrà in mente un’altra parola, è ovvio, perché c'è sempre un’altra parola, ma probabilmente non sarà buona come la prima o altrettanto significativa.” I Pearl Jam di Backspacer sottoscriverebbero di slancio. «Nessuna di queste canzoni – spiega ancora Vedder – è diventata un compito a casa. Quelle che lo erano non sono finite nel disco». «Se una canzone o una traccia non si sviluppava nel modo giusto – aggiunge Stone Gossard, chitarrista e fondatore – allora ci dicevamo “sbarazziamocene”. Abbiamo lavorato nel modo giusto su questi pezzi, sono freschi e up-tempo e senza troppi ripensamenti.»
Loro erano determinati. Brendan O’Brien, il produttore che torna al loro fianco a undici anni da Yelds, li ha aiutati a non deviare dalle buone intenzioni. O’Brien, che da allora ad oggi ha curato molti altri artisti e in particolare Bruce Springsteen (con risultati ottimi in The Rising e via via meno convincenti in Magic e in Working On A Dream), si è dimostrato all’altezza del compito: se quello che si desiderava era una maggiore freschezza, che potesse avvicinare ai Pearl Jam anche una parte di quelli che non li hanno seguiti finora, l’obiettivo è stato senz’altro raggiunto. Backspacer non si arruffiana nessuno, ma allo stesso tempo non tiene nessuno a distanza. Nei brani più veloci è sempre godibile e spesso trascinante: la vecchia e ben nota passione per il rock elettrico e scandito, che abbraccia il grande repertorio degli anni Settanta e dei primi Ottanta e che ha due stelle fisse negli Who e nei Ramones, emerge più viva e riconoscibile che mai. A non sapere che l’album è appena uscito la sua collocazione temporale resterebbe un enigma. Per limitarsi a una sola citazione, l’apertura di Gonna See My Friend, definita da Billboard “una furiosa esplosione garage alla Stooges”, è molto più dalle parti dell’hard rock che non del metal. Quanto ai brani lenti, va da sé, la seduzione è ancora più facile, essendo meno legata ai codici di partenza, e di appartenenza: non c’è bisogno di amare i Metallica per lasciarsi catturare da Nothing Else Matters; non c’è bisogno di amare i Pearl Jam per cedere al fascino della succitata Just Breathe e della conclusiva The End: basta il loro incedere limpido e commovente, con quella semplicità di arrangiamento che evoca la confessione tra amanti, o tra amici veri, e che fa bene al cuore.
Backspacer non è un capolavoro assoluto – come ha sottolineato John Vignola sul Mucchio, “non lascia margini allo stupore, sentimento importante per volare davvero” – ma è un album come dovrebbero uscirne assai di più di quanto accada. Una manciata di perle (non una “marmellata”, come recita il nome del gruppo) che rotolano con leggerezza dalle mani dei musicisti e si spandono tutt’intorno. Bello vederle saltellare, o scivolare fino a fermarsi. Bello raccoglierle tutte insieme e rovesciarle daccapo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

Nessun commento: