Dal Secolo d'Italia di mercoledì 30 settembre 2009
«Il futuro è un’ipotesi / forse il prossimo alibi che vuoi / il futuro è una scusa per ripensarci poi». Così Enrico Ruggeri cantava nel 1985 e da allora il futuro è rimasto – per l’appunto – un’ipotesi. Lontana. Sfuggente. Forse un alibi. Sicuramente una scusa per crogiolarsi nel presente guardando al domani come a qualcosa che non ci appartiene. Gli unici che sembrano appassionarsi a fare previsioni sono i catastrofisti. Non c’è sciagura climatica su cui non ci abbiano tempestivamente avvisato, deliziandoci di dettagli. Sulla politica che sarà, invece, pochi si pronunciano. Persino per i più pessimisti, infatti, è difficile immaginare che possa andare peggio. Non per Sergio Sozi (Roma, 1965), scrittore dallo stile raffinato e originale, che nel suo ultimo romanzo – Il menù (Castelvecchi, pp. 106, € 13), in libreria da pochi giorni – ci catapulta in un 2050 tutt’altro che rassicurante. L’Italia non c’è più. Non come la conosciamo. E neanche gli italiani. Solo in quattro milioni non sono emigrati all’estero e rimangono nello Stivale, che ha preso il nome di Buruguay e dal 2025 è la trentesima provincia statunitense extracontinentale per via del Concordato di Sudditanza Indissolubile, maiuscole comprese. Giornalista culturale da qualche anno residente a Lubiana (Slovenia) e già autore di testi di poesia e narrativa – Oggetti volanti, Il maniaco ed altri racconti e Ginnastica d’epoca fredda – Sozi questa volta si cimenta in un personalissimo divertissement in cui mescola con lucida ironia realtà e fantasia.
La lingua ufficiale del Buruguay è l’angloitaliano. Le grandi città si sono spopolate fino a diventare villaggi: Roma ha preso il nome di New Miami e ospita cinquemila residenti. L’intero Sud Buruguay, del resto, conta appena mezzo milione di abitanti, pochi di più di quanti ne aveva, da sola, la “nostra” Firenze. Cosa può essere successo di così terribile per ridurre il nostro paese a una piccola e ininfluente provincia? Difficile dirlo per Lukin Philippucci – voce narrante, giovane ricercatore linguista (storici, filologi e poeti sono considerati mistificatori e come tali banditi dalla professione) – visto che non è permesso studiare la storia degli ultimi decenni. Rimane una memoria confusa, pressoché ignorata dalle nuove generazioni, a certificare un’abdicazione di coscienza collettiva la cui drammaticità non sembra essere colta dallo stesso Lukin, che osserva compiaciuto come «grazie al sublime accordo del richiamato Concordato ci è stata aperta la strada per l’attuale benessere commericale». Crisi economiche e tensioni sociali sono state “risolte” dagli Stati Uniti: «Un mondo a sé che sintetizza e rappresenta tutte le nazioni esistenti, esistite e future». Le diversità culturali e religiose hanno ceduto il passo all’identità unica: quella americoburuguaiana, sintesi perfetta delle culture originarie. Dei vecchi giornali, «infarciti di pettegolezzi culturali», non c’è più traccia. Ne rimangono tre di quattro pagine l’uno, essenziali e inequivoci. Il matrimonio, barbara istituzione vessatoria, è stato abolito e ognuno può circondarsi di tutte le amanti che vuole. Il che, ad alcuni, potrebbe sembrare una prospettiva allettante, tanto da rendere trascurabili le altre “trasformazioni”. Ma, prima di dirlo, è bene provare a ricostruire quel che ne è stato dell’Italia che conosciamo.
La prima scena del romanzo è tutta di Cesare Menicucci, classe 1920, giornalista di discreta fama al Roma, «tipo serio e un tantino flaccido, uno scapoletto biondosporco, abitudinario e di buona forchetta». E difatti nel ’84 lo troviamo da Santino, pizzeria napoletana nei quartieri spagnoli, intento a mangiare una pizza al piatto. Una delle ultime, perché di lì a poco tutte le pizzerie chiuderanno. Non perché la pizza venga vietata dalla legge ma semplicemente perché gli italiani, per qualche imponderabile motivo, non riescono più a cucinarla: la pasta si sbriciola e rimane immangiabile. Tanto che nel 2050 tutti sono convinti che si tratti di una specialità americana: «Abbiamo imparato a farla dai nostri connazionali d’oltreoceano», testimonia Lukin. Il 1984 farà del Menicucci “il poeta”: sopravvissuto al malore che lo coglie proprio lì, da Santino, verrà assalito da improvvise folgorazioni liriche dall’inquietante contenuto preveggente, quasi un menù che cambia continuamente. «Perché – spiega ’o poeta – ogni tre minuti l’Italia deve cambiare qualcosa di sé».
La situazione politica, però, inizierà a scricchiolare seriamente a metà anni Novanta. Nel ’96 crolla il primo edificio storico. A causa, si pensa, «di un frettoloso restauro con cemento farcito con sabbia impastata con acqua e sputo». Fino a quando i crolli diventeranno quotidiani e a venir giù saranno i Musei Vaticani. Il 2 dicembre del ’97, l’allora presidente del Consiglio, tal Romano della Morta, gettando acqua sul fuoco, dichiara che sono in corso meticolosi accertamenti a livello nazionale. E, fino a qui, ancora non siamo di fronte a nulla di irreparabile. Sarà la devastante epidemia che all’inizio del Duemila colpirà televisori e computer a segnare la fine della nostra civiltà, provocandone la sparizione. Chi passava la sua giornata davanti al pc, o ipnotizzato dal piccolo schermo, ne rimane inevitabilmente segnato, al punto di impazzire. «La comunità europea – titola una delle rarissime copie dei giornali dell’epoca – allarga le braccia e spegne i terminali». Una vera e propria pestilenza panmediatica, un’apocalisse comunicativa. I mass media sono quasi tutti inutilizzabili, in mezz’ora di telegiornale si riescono a cogliere solo un paio di frasi sensate. Ci si affida a piccioni viaggiatori e alla posta, ancora immune dal virus. Si ammalano anche i libri, trasformandosi in puzzle irrisolti e senza senso, «spesso con cassazioni e omissis, beffarde aggiunte e altri ritocchi alle parole, inesistenti negli originali». Chiudono persino le biblioteche, certificando l’assoluta illeggibilità di otto testi su dieci scritti nella nostra lingua dal 1200 a oggi. Il caos che ne consegue crea tensioni esplosive: «Litigi familiari causati da astinenza massmediatica, i genitori si annoiano terribilmente, senza telefonino, computer e televisore. Vorrebbero morire… e gli adolescenti li senti imprecare e bestemmiare per strada, soli e ringhianti come naufraghi atei privi anche del razzo per lanciare un SOS».
Di chi è la colpa di tutto questo? Nel 2003 viene incriminato proprio il Menicucci, «un poeta troppo edotto di certi stravolgimenti nazionali per non averne preso parte direttamente». Si sospetta un suo coinvolgimento nei disastri, di cui forse ne è addirittura il mandante. Le prove? Gli articoli da lui pubblicati sul Roma vent’anni prima, in cui annunciava distruzioni e blackout informatico-televisivo a venire. «Cosa aspettate a demolire a mani nude o con le bombe a mano la poca vera Italia che ci è rimasta – aveva esortato – prima che essa divenga un museo a cielo aperto circondato da galere chiamate quartieri moderni, altrimenti rinsavite e consideratevi parte integrante di quella illustre storia culturale, così smettendo di vomitare calcestruzzo e costruire imbambolate sequenze di edifici brutti e scomodi». E ancora: «Immaginate per un attimo se un bel giorno i mezzi tecnologici che l’uomo usa per comunicare qualsiasi cretinata gli passi per il cervello, prendessero vita propria e si ribellassero reinventandosi del tutto fuori dal nostro controllo». Come poteva prevedere accadimenti così incredibili? Chi è davvero Menicucci? Un delirante malato di mente o uno scaltro intellettuale estremista che operava da decenni nell’ombra al fianco di chissà quale organizzazione terroristica?
E soprattutto: perché il virus colpisce i libri, i mezzi di comunicazione, le opere murarie e culinarie ma non le opere straniere? «Il motivo di questa invulnerabilità è semplice e incomprensibile – ne deduce Lukin/Sozi studiando il prezioso diario del Menicucci – mentre i testi italiani sono stati creati e dunque vivono per recepire le influenze psicologiche dei lettori, le opere scritte in altre lingue hanno in sé una volontà di potenza che esprime il perpetuarsi degli interi popoli parlanti. Le opere italiane, invece, sono destinate a sparire perché i loro autori sono solo quattro decadenti che si atteggiano ad amatori dell’arte e delle lettere. Il cuore degli altri è distante. E questa distanza porterà gli italiani a diventare compiutamente ciò che già sono: degli insensibili. È un processo di calcificazione emotiva». Ed è questo, in fondo, il monito che ci lancia Sozi, sia pure stemperato da una narrazione satirica: non abiurare le origini, difendere e valorizzare la nostra cultura nazionale senza prendere per oro colato quella altrui e adeguarsi supinamente a ogni nuova moda. Vivere nella realtà, non in quella virtuale. E ogni tanto, almeno a scopo precauzionale, spegnere la televisione.
La lingua ufficiale del Buruguay è l’angloitaliano. Le grandi città si sono spopolate fino a diventare villaggi: Roma ha preso il nome di New Miami e ospita cinquemila residenti. L’intero Sud Buruguay, del resto, conta appena mezzo milione di abitanti, pochi di più di quanti ne aveva, da sola, la “nostra” Firenze. Cosa può essere successo di così terribile per ridurre il nostro paese a una piccola e ininfluente provincia? Difficile dirlo per Lukin Philippucci – voce narrante, giovane ricercatore linguista (storici, filologi e poeti sono considerati mistificatori e come tali banditi dalla professione) – visto che non è permesso studiare la storia degli ultimi decenni. Rimane una memoria confusa, pressoché ignorata dalle nuove generazioni, a certificare un’abdicazione di coscienza collettiva la cui drammaticità non sembra essere colta dallo stesso Lukin, che osserva compiaciuto come «grazie al sublime accordo del richiamato Concordato ci è stata aperta la strada per l’attuale benessere commericale». Crisi economiche e tensioni sociali sono state “risolte” dagli Stati Uniti: «Un mondo a sé che sintetizza e rappresenta tutte le nazioni esistenti, esistite e future». Le diversità culturali e religiose hanno ceduto il passo all’identità unica: quella americoburuguaiana, sintesi perfetta delle culture originarie. Dei vecchi giornali, «infarciti di pettegolezzi culturali», non c’è più traccia. Ne rimangono tre di quattro pagine l’uno, essenziali e inequivoci. Il matrimonio, barbara istituzione vessatoria, è stato abolito e ognuno può circondarsi di tutte le amanti che vuole. Il che, ad alcuni, potrebbe sembrare una prospettiva allettante, tanto da rendere trascurabili le altre “trasformazioni”. Ma, prima di dirlo, è bene provare a ricostruire quel che ne è stato dell’Italia che conosciamo.
La prima scena del romanzo è tutta di Cesare Menicucci, classe 1920, giornalista di discreta fama al Roma, «tipo serio e un tantino flaccido, uno scapoletto biondosporco, abitudinario e di buona forchetta». E difatti nel ’84 lo troviamo da Santino, pizzeria napoletana nei quartieri spagnoli, intento a mangiare una pizza al piatto. Una delle ultime, perché di lì a poco tutte le pizzerie chiuderanno. Non perché la pizza venga vietata dalla legge ma semplicemente perché gli italiani, per qualche imponderabile motivo, non riescono più a cucinarla: la pasta si sbriciola e rimane immangiabile. Tanto che nel 2050 tutti sono convinti che si tratti di una specialità americana: «Abbiamo imparato a farla dai nostri connazionali d’oltreoceano», testimonia Lukin. Il 1984 farà del Menicucci “il poeta”: sopravvissuto al malore che lo coglie proprio lì, da Santino, verrà assalito da improvvise folgorazioni liriche dall’inquietante contenuto preveggente, quasi un menù che cambia continuamente. «Perché – spiega ’o poeta – ogni tre minuti l’Italia deve cambiare qualcosa di sé».
La situazione politica, però, inizierà a scricchiolare seriamente a metà anni Novanta. Nel ’96 crolla il primo edificio storico. A causa, si pensa, «di un frettoloso restauro con cemento farcito con sabbia impastata con acqua e sputo». Fino a quando i crolli diventeranno quotidiani e a venir giù saranno i Musei Vaticani. Il 2 dicembre del ’97, l’allora presidente del Consiglio, tal Romano della Morta, gettando acqua sul fuoco, dichiara che sono in corso meticolosi accertamenti a livello nazionale. E, fino a qui, ancora non siamo di fronte a nulla di irreparabile. Sarà la devastante epidemia che all’inizio del Duemila colpirà televisori e computer a segnare la fine della nostra civiltà, provocandone la sparizione. Chi passava la sua giornata davanti al pc, o ipnotizzato dal piccolo schermo, ne rimane inevitabilmente segnato, al punto di impazzire. «La comunità europea – titola una delle rarissime copie dei giornali dell’epoca – allarga le braccia e spegne i terminali». Una vera e propria pestilenza panmediatica, un’apocalisse comunicativa. I mass media sono quasi tutti inutilizzabili, in mezz’ora di telegiornale si riescono a cogliere solo un paio di frasi sensate. Ci si affida a piccioni viaggiatori e alla posta, ancora immune dal virus. Si ammalano anche i libri, trasformandosi in puzzle irrisolti e senza senso, «spesso con cassazioni e omissis, beffarde aggiunte e altri ritocchi alle parole, inesistenti negli originali». Chiudono persino le biblioteche, certificando l’assoluta illeggibilità di otto testi su dieci scritti nella nostra lingua dal 1200 a oggi. Il caos che ne consegue crea tensioni esplosive: «Litigi familiari causati da astinenza massmediatica, i genitori si annoiano terribilmente, senza telefonino, computer e televisore. Vorrebbero morire… e gli adolescenti li senti imprecare e bestemmiare per strada, soli e ringhianti come naufraghi atei privi anche del razzo per lanciare un SOS».
Di chi è la colpa di tutto questo? Nel 2003 viene incriminato proprio il Menicucci, «un poeta troppo edotto di certi stravolgimenti nazionali per non averne preso parte direttamente». Si sospetta un suo coinvolgimento nei disastri, di cui forse ne è addirittura il mandante. Le prove? Gli articoli da lui pubblicati sul Roma vent’anni prima, in cui annunciava distruzioni e blackout informatico-televisivo a venire. «Cosa aspettate a demolire a mani nude o con le bombe a mano la poca vera Italia che ci è rimasta – aveva esortato – prima che essa divenga un museo a cielo aperto circondato da galere chiamate quartieri moderni, altrimenti rinsavite e consideratevi parte integrante di quella illustre storia culturale, così smettendo di vomitare calcestruzzo e costruire imbambolate sequenze di edifici brutti e scomodi». E ancora: «Immaginate per un attimo se un bel giorno i mezzi tecnologici che l’uomo usa per comunicare qualsiasi cretinata gli passi per il cervello, prendessero vita propria e si ribellassero reinventandosi del tutto fuori dal nostro controllo». Come poteva prevedere accadimenti così incredibili? Chi è davvero Menicucci? Un delirante malato di mente o uno scaltro intellettuale estremista che operava da decenni nell’ombra al fianco di chissà quale organizzazione terroristica?
E soprattutto: perché il virus colpisce i libri, i mezzi di comunicazione, le opere murarie e culinarie ma non le opere straniere? «Il motivo di questa invulnerabilità è semplice e incomprensibile – ne deduce Lukin/Sozi studiando il prezioso diario del Menicucci – mentre i testi italiani sono stati creati e dunque vivono per recepire le influenze psicologiche dei lettori, le opere scritte in altre lingue hanno in sé una volontà di potenza che esprime il perpetuarsi degli interi popoli parlanti. Le opere italiane, invece, sono destinate a sparire perché i loro autori sono solo quattro decadenti che si atteggiano ad amatori dell’arte e delle lettere. Il cuore degli altri è distante. E questa distanza porterà gli italiani a diventare compiutamente ciò che già sono: degli insensibili. È un processo di calcificazione emotiva». Ed è questo, in fondo, il monito che ci lancia Sozi, sia pure stemperato da una narrazione satirica: non abiurare le origini, difendere e valorizzare la nostra cultura nazionale senza prendere per oro colato quella altrui e adeguarsi supinamente a ogni nuova moda. Vivere nella realtà, non in quella virtuale. E ogni tanto, almeno a scopo precauzionale, spegnere la televisione.
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