lunedì 5 ottobre 2009

Con Mark Knopfler la musica diventa paesaggio interiore (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 4 ottobre 2009
Il rock dei Dire Straits balzava all’occhio, gigantografia metropolitana che privilegiava il quadro d’insieme rispetto al singolo dettaglio. Colori brillanti e linee nitide. La complessità che resta implicita. La raffinatezza come optional. Ci passi davanti una volta e ti colpisce. Ci passi davanti per caso e ti si stampa in testa. Sultans of Swing: titolo strambo ma ritmo irresistibile. E quella chitarra così... così... Saltellante? Ammiccante? Trascinante?
La musica di Mark Knopfler da solo è una successione di piccoli quadri che tendono a passare inosservati, se non si ha il tempo e la voglia di guardarli davvero. Pennellate leggere che ritraggono paesaggi quieti, almeno a prima vista. Tinte soffuse e sfumature determinanti. Particolari selezionati a uno a uno, confidando in chi li saprà riconoscere con la stessa attenzione. Per fornire un’informazione basta un disegnino stilizzato. Per comunicare un’atmosfera, e introdurre al mondo che l’ha generata, ci vuole molto di più. Cura e tempo da parte di chi racconta. Cura e tempo da parte di chi ascolta. Se vai di fretta non ti perdi soltanto il meglio. Se vai di fretta ti perdi tutto.
“Prima del gas e della TV / prima che la gente avesse automobili / ci saremmo seduti attorno ai fuochi facendo girare una chitarra / ricordando canzoni / Seguivamo la corrente / Quando il tempo era bello / a volte andavamo a raccogliere rottami / Allora ci sedevamo attorno ai fuochi / passandoci una bottiglia di vino / e le storie della strada / per un tempo immemorabile / Se il paradiso è così / beh, mi sta bene”.
«Da bambino ho ascoltato tanta musica scozzese, faceva parte della mia cultura. Ho scoperto giovanissimo il suono della cornamusa. Tutto ciò che ho composto ha origini celtiche, il modo in cui collego le mie note è puramente scozzese. Quando ero adolescente la mia famiglia si è trasferita a Newcastle e lì sono diventato una vera spugna musicale. Ho assorbito tutto cominciando dai blues del Delta. Per me, tutto discende dal blues: è la musica delle nostre radici e ha sempre impregnato le mie composizioni. Non è musica pop. È un’altra cosa. È al di là.»
Il blues che non te lo dice mai in modo esplicito, ma che te lo fa capire in tutti i modi: non c’è mai niente di semplice, quando c’è di mezzo il cuore. Il cuore misterioso e implacabile di chi sente il richiamo del destino e lo segue anche se sa di non avere scampo, non il cuoricino palpitante e capriccioso degli innamorati che sorridono troppo quando va bene e piangono troppo quando va male e poi, oplà, si innamorano daccapo di qualcun altro. Il pop mischia le carte al casinò e ti promette che vincerai – e se anche non avrai vinto ti sarai divertito. Il blues ti mette davanti la sua mano di tarocchi e non ti promette un bel niente – a parte quel po’ di fratellanza tra chi è stato capace, almeno una volta, di andare fino in fondo alla propria gioia o al proprio dolore. Il pop è conveniente. Il blues è necessario. Il pop si esibisce e si vende anche quando sembra gratuito. Il blues si racconta e si dona anche quando ti chiede di pagare per un concerto o per un disco.
Mark Knopfler non suona blues quasi mai, nel senso stretto del termine. La stessa You Can't Beat The House inserita in questo nuovo album resta una divagazione occasionale. Il blues, nel suo caso, non è tanto un linguaggio di cui servirsi ma una prospettiva da condividere. Un impegno da rispettare. Una lezione appresa molto tempo fa e mai più dimenticata. La sacrosanta lezione che un musicista è davvero tale se suona innanzitutto per il bisogno interiore di farlo. Per dare modo a quel che ha dentro di emergere. Non per produrre una musica adatta agli altri ma per scoprire una musica nella quale rispecchiarsi. «Tantissime persone – ha sottolineato egli stesso in una vecchia intervista – suonano musica ma in realtà non l’ascoltano. Vi sono molti musicisti di grande effetto che tecnicamente sono molto più esperti di quanto non lo sia io, e che però la loro musica non la sentono: la fanno solo.»
Si potrebbe dire lo stesso del pubblico. Ascoltare profondamente la musica è cosa assai meno ovvia di quanto non si creda. Vuoi perché se ne sente troppa ed è diventato normale utilizzarla come un semplice sottofondo (ancorché “sparato” a tutto volume dalle casse dell’auto o dagli auricolari dell’I-Pod), vuoi perché ci si ferma sempre sullo stesso genere di proposte, preferendo la soddisfazione ripetitiva, ma garantita, di una continua riconferma delle proprie aspettative allo sforzo di inoltrarsi in territori inconsueti, che al primo impatto risultino troppo diversi da ciò cui si è avvezzi. Una volta ci si appoggiava alle identità. Oggi ci si appoggia alle abitudini. Le preferenze spicciole al posto delle categorie di giudizio: e molti, magari, sosterranno che è tanto di guadagnato. I luoghi comuni al posto delle tradizioni: e molti, probabilmente, sosterranno che non c’è alcuna differenza...
Get Lucky si mostra appunto abitudinario, nel suo rimandare a sonorità già note e collaudate. Ma non è mera routine. Sotto la superficie di quei suoi gesti familiari, o persino risaputi, si muove ancora un’ispirazione autentica. Ci sono stati raccolti migliori di questo, e probabilmente non ce ne saranno mai più di altrettanto buoni, ma il campo è ancora fertile. Gli alberi sono robusti. I frutti sono dolci. Ascoltandolo mentre canta e mentre suona (c’è differenza?), sembra che di tanto in tanto Mark si ricordi qualcosa: qualcosa che aveva già saputo in passato – mentre immaginava-definiva-incideva altri brani e altri album – ma che poi, chissà come, gli era sfuggito via senza trovare l’occasione di fermarsi, scivolando di nuovo in un angolo nascosto, e momentaneamente irraggiungibile, del cervello o dell’anima. Sembra che ogni tanto si dimentichi qualcosa: di aver già attraversato lo stesso pezzetto di immaginazione, con una traiettoria così simile a quella di oggi. Sembra che non se ne preoccupi affatto: questa è la sua dimora e questo è il suo bisogno di frequentarla; noi siamo solo degli invitati, pregati di seguirlo in silenzio e senza distrarlo. Liberi di allontanarci in qualsiasi momento. Ed eventualmente di tornare in seguito, quando avremo la mente meno satura di sciocchezze e il cuore meno ansioso di sorprese.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la neonata rivista diretta da Massimo Fini. Ogni lunedì sera, dalle 21 alle 23, conduce la trasmissione web “The Ghost of Tom Joad” su http://www.radioalzozero.net/.

Nessun commento: