Dal Secolo d'Italia di martedì 24 novembre 2009
Palermo-Catania da tre anni viene giocata senza la curva degli etnei
Articolo di Giovanni Tarantino
Tre anni non sono bastati. Il derby tra Palermo e Catania - che, peraltro, ha anche portato all'esonero di Walter Zenga da parte di Maurizio Zamparini, sempre più "mangia allenatori" - poteva essere un'occasione per ragionare sull'efficienza dei provvedimenti repressivi che non hanno consentito ai tifosi etnei di assistere alla partita.
Articolo di Giovanni Tarantino
Tre anni non sono bastati. Il derby tra Palermo e Catania - che, peraltro, ha anche portato all'esonero di Walter Zenga da parte di Maurizio Zamparini, sempre più "mangia allenatori" - poteva essere un'occasione per ragionare sull'efficienza dei provvedimenti repressivi che non hanno consentito ai tifosi etnei di assistere alla partita.
Dopo i tragici fatti del 2 febbraio 2007 ancora una volta in Sicilia il derby si gioca senza i tifosi ospiti, con un vuoto nel settore a essi dedicato: un "buco" all'interno dello stadio "Renzo Barbera" che persino ai supporter rosanero aveva fatto mormorare: «Ma senza rivali che derby è?». Nei ricordi di molti, oltre ai tragici eventi della notte del 2 febbraio - quella in cui morì l'ispettore Filippo Raciti a seguito degli scontri tra facinorosi e forze dell'ordine nel piazzale antistante lo stadio "Massimino" di Catania (ex "Cibali") - anche i momenti di panico vissuti nell'ultimo Palermo-Catania, giocato nel capoluogo siciliano, in cui i tafferugli si trasferirono all'interno dello stadio. Si tratta degli ultimi episodi di violenza che si siano verificati dentro un impianto sportivo: era il 20 settembre del 2006.
A poco più di tre anni di distanza da quegli eventi lo stesso presidente del Palermo Maurizio Zamparini si è interrogato sulla necessità dei provvedimenti repressivi predisposti dall'Osservatorio, considerando «vergognosa una tale limitazione di libertà. Penso di vivere in un Paese strano e stupido. Quando sono venuto a conoscenza di questa disposizione dell'Osservatorio, ho pensato subito a tali provvedimenti come una vera piaga per l'Italia. Penso che noi tutti non meritiamo queste attenzioni da stato poliziesco». Zamparini, che è anche vicepresidente della Lega calcio, ha aggiunto: «Non penso che questi restrizioni siano figlie di quanto accaduto il 2 febbraio 2007, ma anche se fosse sarebbero stupide ugualmente. Quando uno Stato in nome della sicurezza toglie anche un briciolo di libertà, non solo non la otterrà mai, ma perderà presto anche la libertà. Lo ha detto Benjamin Franklin nel 1954. Non si può fare il coprifuoco penalizzando quelli che non commettono nulla di male per punire i delinquenti». Il proibizionismo non paga. E neppure spiega, verrebbe da dire. E andando a scavare sulle ragioni storiche di una rivalità calcistica si scoprono scenari irriducibili a un provvedimento tanto restrittivo.
«Ma che derby è Palermo-Catania?» è anche la domanda che in tal senso si è posto il sociologo e scrittore Pippo Russo, da sempre attento ai processi di trasformazione in atto nel mondo del calcio. Già con L'invasione dell'ultracalcio lo studioso, agrigentino di nascita e toscano di adozione, analizzava i caratteri che rendevano il calcio moderno sempre più surrogato del vero football per come lo avevamo conosciuto e apprezzato per tanti anni. Proprio in merito alla particolarità della rivalità siciliana, Russo afferma: «Palermo-Catania non può essere collocato dentro alcuno dei tipi possibili di derby inscenati in altre zone d'Italia, dove la contrapposizione calcistica dei localismi assume declinazioni ben precise e riconoscibili. In qualche caso il derby mette in scena sul campo verde le fratture tradizionali delle comunità locali. In altri contesti geografici italiani è l'ultimo campo in cui le tribù a stento pedagogizzate dal verbo municipalista possono tornare a mostrarsi per ciò che sono: gruppi ai quali la presenza di una contro-identità fornisce alimento e senso di persistenza. Più spesso i derby ricalcano le contrapposizioni locali strutturate lungo le dorsali urbane dei territori policentrici regionali. Ma Palermo-Catania? Quale derby, fra le squadre di due città con vocazione da capitali di viceregno, incastonate dentro una regione culturalmente complessa come un continente? Queste domande bisognerebbe rivolgerle a coloro che questo appuntamento del calendario annuale l'hanno rovinato per lunghi anni a venire - forse per sempre - portando la violenza e poi la morte dentro un campo che fino al principio degli anni Ottanta era dominato soltanto dalla rivalità sportiva».
Riflessione che induce inevitabilmente a una sana presa di coscienza anche e soprattutto da parte del popolo delle curve. Evitare il proibizionismo è possibile, riaprire i settori ospiti anche. È una battaglia propedeutica a quella per un maggiore riconoscimento delle libertà individuali e collettive in Italia, e che deve essere combattuta con le armi della non violenza per dimostrare effimere le soluzioni proposte dall'Osservatorio.
La manifestazione pacifica indetta dal cosiddetto movimento ultras tenutasi a Roma una settimana fa per dire «No alla tessera del tifoso», ad esempio, è riuscita nell'intento: non si sono registrate intemperanze d'alcun genere. E il progetto tessera è slittato almeno fino alla prossima estate: che anche gli ideatori si siano resi conto che trascurare il parere dei tifosi - i fruitori per eccellenza del "prodotto" calcio - sia un danno?
Un ulteriore spunto di riflessione, tuttavia, ancora una volta potrebbe giungere da una lettura. Le vicende di un capo ultras e quelle di un agente di polizia sono al centro di Epopea ultrà (Limina), ultimo lavoro di Giuseppe Manfridi, dove le vite di un capo tifoso e quelle di un poliziotto si intrecciano fatalmente. Sottoporre la cultura ultras a un sano processo di revisionismo dei propri limiti, oltre che di contestazione di quelli altrui: un percorso educativo possibile e al tempo stesso necessario per un Paese civile. Perché non si giochino più derby senza tifosi.
Da Totti a Del Piero a Gillet: l'insostenibile leggerezza dell'essere (capitano in campo)
Articolo di Michele De Feudis
Da Totti a Del Piero a Gillet: l'insostenibile leggerezza dell'essere (capitano in campo)
Articolo di Michele De Feudis
Le imprese più ardue nel calcio toccano sempre a chi porta al braccio la fascia di capitano. E l'ultima domenica di Serie A suggella tre sequenze memorabili, affreschi di delicata bellezza che annichilirebbero qualsiasi profeta del business applicato al pallone di cuoio. All'Olimpico di Roma. Tre lampi, tre gioielli, tre missili. Firmati: il Capitano. Al termine di una settimana nella quale il calcio sembrava una succursale della politica soggiogata dall'economia, sono bastati i colpi d'artista di Francesco Totti per riaffermare la centralità dello sport. Il gesto atletico e la perfezione balistica hanno messo finalmente in sordina la complessa querelle tra la famiglia Sensi, proprietaria del club, l'Italpetroli e Unicredit. Bando alle polemiche sul suo rinnovo milionario, per una volta i criticoni hanno dovuto bere l'amaro calice della sua classe e rassegnarsi al silenzio.
Il Pupone ha riaffermato il diritto dei tifosi della Roma e degli appassionati di calcio a gustare gol prelibati al posto di cronache piene di intrighi. Tornava in campo dopo 49 giorni di stop per un infortunio e doveva dimostrare che i malanni erano alle spalle. C'era una Roma dall'identità smarrita da risollevare. E non se l'è fatto dire due volte. La voce di Carlo Zampa, nell'annunciarne l'ingresso in campo, aveva rinnovato il patto alchemico tra il numero dieci e il popolo giallorosso. L'ovazione di rito, il saluto alla curva sud. Pronti-via e come impugnando una bacchetta magica ha iniziato a disegnare le geometrie che hanno messo alle corde il Bari. Nel giro di pochi minuti ha estasiato l'intero stadio: un rigore calciato magistralmente, una punizione-bomba, un sinistro da cineteca e un bacio al piccolo Cristian in tribuna con la mamma Ilary. Al 90' Claudio Ranieri lo ha sostituito per fargli sentire il calore e l'affetto dei venticinquemila giallorossi, che lo hanno applaudito a lungo in piedi.
Onori ed oneri dei capitani. Sullo stesso palcoscenico, all'Olimpico, una tifoseria sfavillante ha dato prova che la passione per i propri colori non c'è bisogno di andarla a studiare sulle tribune degli stadi inglesi. Dodicimila sostenitori del Bari, dopo aver dato vita alla mobilitazione di tifo più numerosa della stagione, hanno cantato e applaudito per novanta minuti i loro beniamini. Anche dopo le tre sberle sonore di Totti. La domenica nella Capitale è stata così una festa pura, un pomeriggio d'orgoglio per una città che ha da poco ritrovato il salotto del calcio che conta. Al termine dei cinque minuti di recupero il capitano del Bari, la bandiera biancorossa Jean Francois Gillet, si è avvicinato alla curva nord e battendosi la mano sul petto ha chiesto pubblicamente scusa per la peggiore prestazione della stagione, ricevendo dalle gradinate generosi incoraggiamenti.
All'Olimpico di Torino. Anche qui c'è un guerriero che cade e si rialza. Sempre. Alex Del Piero, dopo 56 giorni di stop ha rispolverato il suo pennello da Pinturicchio. Era in panchina, appena si è tolto la tuta per riscaldarsi l'intero stadio ha iniziato a intonare un solo coro: «Un capitano / c'è solo un capitano». Un tripudio di potenza sonora pari a quella riservata al gol di Grosso. Un tributo a un pezzo di storia del Juventus.
Le gesta dei capitani - di calcio e non solo - hanno colpito sempre l'immaginario di musicisti (Antonello Venditti scrisse per Agostino Di Bartolomei, il capitano della Roma tricolore nel 1982-83 tragicamente scomparso, la struggente "Tradimento e perdono"), scrittori e sociologi. Il campione livornese Armando Picchi è stato immortalato da Nando Dalla Chiesa nella raffinata biografia Capitano, mio capitano, edizioni Limina. Il sociologo francesce Michel Maffesoli ha dedicato proprio l'ultima voce del suo Icone d'oggi (Sellerio), libro cult per i ragazzi della Giovane Italia come per i militanti di Casa Pound, a Zinedine Zidane, leggendario capitano della nazionale transalpina. «I miti - spiega il professore alla Sorbonne - si cristallizzano intorno a immagini in cui tutti possono riconoscersi: totem aggreganti o con le parole di Durkheim, "figure emblematiche". Essi garantiscono la solidità della coesione sociale e si esprimono in quelle emozioni sportive che qualcuno considera insignificanti, se non frivole. Come avviene per molte star (nel campo della musica, del cinema, del teatro e della televisione, basta vedere l'isteria che egli (Zidane ndr) suscita per capire in che senso intorno a lui si cristallizzi tutta una serie di sogni di desideri e di piacere che fanno parte del patrimonio comune dell'umanità». Un piacere intenso e tutto sportivo che hanno provato le migliaia di tifosi negli stadi di Torino e Roma per Totti, Gillet e Del Piero.
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