Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 29 novembre 2009
Una rockstar è solo una combinazione vincente di talento e di fortuna: un po’ di merito personale ingigantito dalle circostanze. Un rocker autentico è uno che suona quello che vuole, senza preoccuparsi di come verrà accolto: il rocker si chiede se la sua musica sia all’altezza delle proprie speranze, più che delle aspettative del pubblico. Si chiede se i fan lo capiscano davvero. Perché ne sa abbastanza, sulla solitudine e sul tradimento, da non farsi troppe illusioni sul significato profondo degli applausi. È proprio quando sembra che vada tutto bene, che bisogna stare più attenti a non lasciarsi incantare. È quando gli altri urlano la propria verità, che la tua è maggiormente in pericolo. Sono loro che cantano con te, o sei tu che canti per loro?
«In un complesso rock – ha detto Roger Waters – ti trovi in una posizione molto invidiata e privilegiata . Apparentemente è la materia con cui sono fatti i sogni. Hai molto potere, guadagni molti soldi e c’è tutto il fascino falso. Diventi facilmente assuefatto a queste cose e quando lo fai preferisci dimenticare tutti gli elementi negativi. Diventi piacevolmente insensibile.»
Nel 1977 i Pink Floyd erano in tour, dopo l’uscita di Animals. La band si era imposta definitivamente quattro anni prima, con Dark Side of the Moon. Poi c’era stato un altro grande successo con Wish You Were Here. Animals stava andando bene, ma rispetto agli altri due l’impatto era minore. Del primo gli mancavano le sorprese incessanti. Del secondo il brano irresistibile alla Shine On You Crazy Diamond. L’album aveva i suoi meriti, ma nulla che lo rendesse memorabile. E nulla, soprattutto, che desse l’impressione di trovarsi di fronte a un capolavoro. La musica si snoda in modo un po’ troppo uniforme. L’esplicito richiamo a La fattoria degli animali finisce con l’essere più ingombrante che attraente, e benché i testi si tengano lontani dal racconto di Orwell, sia come situazioni che come tono, la celebrità del romanzo fa sì che il significato complessivo sia già noto a priori. I potenti sono i “pigs”, i maiali; i funzionari del potere, quand’anche pieni di buone intenzioni, sono i “dogs”, i cani; i cittadini qualsiasi sono le “sheeps”, le pecore. I Pink Floyd attualizzano tutto, e il linguaggio è molto più tagliente e aggressivo dell’originale, ma è pur sempre un modo diverso di esprimere concetti e allegorie preesistenti. Molta empatia. Nessuna rivelazione.
Quello che rende più interessante Animals non è il suo esito artistico. È la conferma del ruolo preponderante che sta assumendo Roger Waters, il bassista. Degli altri tre, l’unico che riesce ancora a ritagliarsi uno spazio significativo nell’elaborazione dei brani è David Gilmour, la cui chitarra solista è una componente essenziale del sound del gruppo, mentre il tastierista Richard Wright e il batterista Nick Mason sono ridotti a figure di contorno. Con Wright il problema è personale: Waters non lo sopporta più e infatti, di lì a un paio d’anni, riuscirà addirittura a estrometterlo; con Mason non c’è nessun dissidio particolare, ma il suo contributo si esaurisce nell’accompagnamento ritmico e, al di là di questo, non ha da fornire grandi idee né sul piano musicale né, tanto meno, su quello dei testi.
La verità che si profila, nel 1977, è che i Pink Floyd sono sempre meno una band nel senso vero e proprio del termine e sempre di più, invece, il marchio di fabbrica che viene messo al servizio di un progetto individuale, che è appunto quello di Roger Waters. La trasformazione è probabilmente inevitabile, vista l’obiettiva supremazia del bassista per quanto riguarda la stesura di nuovi brani, ma verrà pagata a caro prezzo, compromettendo per sempre il delicatissimo equilibrio su cui poggiava la loro produzione migliore. Le differenze reciproche potevano anche essere causa di fastidio e di malumori, ma assicuravano una varietà di approcci (di ipotesi) che si traduceva in una ricchezza di soluzioni. L’instabilità come antidoto alla ripetizione, quand’anche involontaria, e alla monotonia, quand’anche raffinata. Dove il singolo, per quanto brillante, non poteva essere altro che se stesso, l’interazione di tutti e quattro moltiplicava le chance di disegnare traiettorie imprevedibili, per andare dal punto di partenza di un accenno di canzone a quello di arrivo di un brano che fosse allo stesso tempo compiuto in se stesso e intimamente legato a qualcosa di molto più ampio. Squarci di panorama che rivelano un mondo. Se li osservi uno alla volta ti attraggono; se li consideri nel loro insieme ti conquistano. Se ti limiti ad accumulare immagini e sensazioni sei solo un turista. Se senti il bisogno di fermarti, e di saperne di più, e di provare a capire, sei un viaggiatore. Un esploratore al servizio di te stesso.
Ha detto Roger Waters: «Partii con l’idea della costruzione di un muro durante uno spettacolo. L’idea mi colpì subito. Del tutto distante dal suo significato personale, pensai che poteva essere un gran pezzo di rock teatrale. The Wall è parte del mio resoconto, la mia storia, ma io penso che i temi di base risuonino nelle altre persone. L’idea è che noi, come individui, troviamo necessario evitare o negare gli aspetti dolorosi della nostra esperienza, e infatti spesso li usi come mattoni di un muro dietro il quale qualche volta possiamo trovare rifugio, ma dietro il quale possiamo essere facilmente imprigionati emotivamente.»
È così. I più non lo vedono neanche, il muro che li circonda. Oppure credono che li protegga. Per quello che si ricordano è sempre stato lì, anche se ogni tanto, in effetti, qualche cambiamento c’è stato. Certe volte hanno ritoccato il colore. Certe altre la forma. Niente di grave. Niente di male. Al contrario: che vi siano delle modifiche è positivo. È segno che la società si aggiorna, si evolve, migliora. E non è mica che abbiano deciso tutto dall’alto, senza interpellare nessuno. Se ne è discusso, regolarmente. Tutti quanti hanno avuto la possibilità di partecipare alla scelta finale. Non proprio con un dibattito indiscriminato in cui ciascuno era libero di dire la sua. Questo sarebbe impossibile, quando si è così numerosi. Ma ognuno ha potuto indicare le persone di cui si fidava e alle quali voleva delegare il compito di rappresentarlo, nel processo di valutazione delle diverse ipotesi. E alla fine l’esito non deve essere stato così lontano dalla volontà generale, se la quasi totalità lo ha accettato di buon grado.
Il muro è molto grande. Diciamo pure che è immenso. Una miriade di mattoni che si sono aggiunti ad uno ad uno e che, ora, lo rendono così solido. Da lontano sembrano tutti uguali, i mattoni. Se ti avvicini, e osservi meglio, ti rendi conto che non lo sono affatto. Ci sono quelli più grandi e quelli più piccoli. Quelli grossi e squadrati che reggono l’intera struttura, come le regole fondamentali su cui si basa la società. Quelli di formato intermedio, come le consuetudini della maggioranza. Quelli minuti che ce ne vogliono a decine per riempire un piccolo spazio e che vengono sostituiti più spesso, proprio come accade con le preferenze individuali.
The Wall venne pubblicato il 30 novembre 1979. Un doppio album che avrebbe potuto essere ancora più lungo, se i limiti di durata dei 33 giri lo avessero consentito. Una vera e propria rock-opera che va assolutamente ascoltata dall’inizio alla fine – restituendo il superhit di Another Brick in the Wall (part II) alla sua funzione effettiva di singola scena “d’azione” all’interno di un dramma meravigliosamente cupo e introspettivo – e che tre anni dopo sarebbe stata trasformata in film da Alan Parker, con Bob Geldof nei panni del protagonista e una continua alternanza di attori in carne e ossa e di disegni animati. L’immaginazione fluttuante dei sogni, in cui tutto può cambiare nel giro di un istante. L’uccello bianco che si libra dolcemente in volo si trasforma in un rapace che volteggia in cerca di prede. Il rapace si trasforma in un aereo di guerra. Il sogno diventa incubo. La nevrosi come segnale d’allarme di un meccanismo che si sta inceppando. La follia come crisi di rigetto di un trapianto – di una serie di trapianti – che mai e poi mai si sarebbero dovuti effettuare. Organi artificiali al posto di quelli originari. Un cuore più piccolo. Un cervello più disciplinato. Un cuore che deve pompare sangue senza sbalzi, come un carburatore ben registrato. Un cervello che deve assorbire istruzioni, come un computer. La Natura sforna uomini altamente imperfetti, purtroppo. L’educazione supplisce a quelle carenze. Un bambino è un semilavorato in attesa di messa a punto. Un adulto è un dispositivo che è stato finalmente adattato alle esigenze della macchina sociale. E non crediate che sia un lavoro così semplice, anche dopo che lo hai fatto milioni di volte. Ci vuole pazienza. Ci vuole attenzione. Ci vuole la freddezza del tecnico che sa usare tutti i suoi strumenti e riconosce al colpo d’occhio un pezzo difettoso. È abbastanza normale, che ve ne siano. Se avanza un po’ di tempo si prova ad aggiustarli. Se no li si elimina. Mica per cattiveria. Per amore dell’efficienza, che tutti tutela e qualcuno sacrifica.
Il protagonista di The Wall è una rockstar che si chiama Pink. Un giovane inglese che è cresciuto nel Secondo dopoguerra. Madre iperprotettiva, e ottusa. Insegnanti rigidi, e ottusi. Due varianti della stessa sopraffazione. E dello stesso ricatto: il nostro apprezzamento dipende da te. Tu non sai nulla. Noi sappiamo tutto. Tu non sei in grado di valutare che cosa ti fa bene e cosa no. Noi sì che lo siamo. Pensa a quanti anni abbiamo, più di te. C’è un ordine da rispettare, piccolo. Non lo sai che la scuola prepara alla vita? Pink ha avuto successo. Il successo lo ha distratto, per un po’. Per un po’ lo ha tenuto impegnato e gli ha fatto fare un certo numero di cose normali. Si è sposato. Ha fatto dischi e concerti. Ha guadagnato denaro. Ha comprato oggetti. Ha soddisfatto desideri. O capricci. Quanto basta per rallegrarsi, se ti hanno condizionato a dovere. Se ti hanno convinto a rispecchiarti in quello che hai e a non prestare attenzione a quello che sei. L’avere è oggettivo, essendo misurabile. L’essere è sfuggente. Talmente sfuggente che è meglio non fidarsi. L’essere si oggettiva nell’azione. Nella capacità di fissare degli obiettivi e di conseguirli. Gli obiettivi raggiunti producono effetti reali. Gli effetti reali hanno quasi sempre un riscontro economico, diretto o indiretto. È questa la quadratura del cerchio: quello che hai dà la misura di quello che sei. Lo attesta. Lo certifica.
Ma Pink deve avere saltato alcune lezioni, lungo la strada. Forse non si è impegnato a sufficienza. O forse non era in grado di farcela. Forse, sotto la sua riuscita come artista, è ancora il ragazzino inquieto e immaturo che era all’inizio. Al diavolo. I pezzi più insidiosi sono quelli con un difetto ben nascosto. “Vizi occulti della cosa”, come dicono i giuristi. Pink guarda quello che gli sta intorno e non sa cosa farsene. Il lusso è solo una cornice: e lui non vede nessun quadro che meriti di essere incorniciato. Le persone che gli si avvicinano sono comparse di un copione che non gli interessa. Magari è stato davvero lui, a scrivere il soggetto iniziale. Ma poi deve averci messo le mani qualcun altro, visto che non ci si riconosce più per niente. Perché mai dovrebbe ostinarsi a correggerlo, allora? Perché mai, adesso che ha capito che in ogni caso sarà solo la premessa di un’ennesima messinscena?Il muro verrà distrutto, alla fine. Ma non ci sarà nessuna festa. Nessuna liberazione da celebrare e nessuna certezza su cui basarsi. Il muro è la risposta sbagliata al bisogno di sicurezza. Ma il bisogno di sicurezza rimane. La debolezza umana, rimane.
«In un complesso rock – ha detto Roger Waters – ti trovi in una posizione molto invidiata e privilegiata . Apparentemente è la materia con cui sono fatti i sogni. Hai molto potere, guadagni molti soldi e c’è tutto il fascino falso. Diventi facilmente assuefatto a queste cose e quando lo fai preferisci dimenticare tutti gli elementi negativi. Diventi piacevolmente insensibile.»
Nel 1977 i Pink Floyd erano in tour, dopo l’uscita di Animals. La band si era imposta definitivamente quattro anni prima, con Dark Side of the Moon. Poi c’era stato un altro grande successo con Wish You Were Here. Animals stava andando bene, ma rispetto agli altri due l’impatto era minore. Del primo gli mancavano le sorprese incessanti. Del secondo il brano irresistibile alla Shine On You Crazy Diamond. L’album aveva i suoi meriti, ma nulla che lo rendesse memorabile. E nulla, soprattutto, che desse l’impressione di trovarsi di fronte a un capolavoro. La musica si snoda in modo un po’ troppo uniforme. L’esplicito richiamo a La fattoria degli animali finisce con l’essere più ingombrante che attraente, e benché i testi si tengano lontani dal racconto di Orwell, sia come situazioni che come tono, la celebrità del romanzo fa sì che il significato complessivo sia già noto a priori. I potenti sono i “pigs”, i maiali; i funzionari del potere, quand’anche pieni di buone intenzioni, sono i “dogs”, i cani; i cittadini qualsiasi sono le “sheeps”, le pecore. I Pink Floyd attualizzano tutto, e il linguaggio è molto più tagliente e aggressivo dell’originale, ma è pur sempre un modo diverso di esprimere concetti e allegorie preesistenti. Molta empatia. Nessuna rivelazione.
Quello che rende più interessante Animals non è il suo esito artistico. È la conferma del ruolo preponderante che sta assumendo Roger Waters, il bassista. Degli altri tre, l’unico che riesce ancora a ritagliarsi uno spazio significativo nell’elaborazione dei brani è David Gilmour, la cui chitarra solista è una componente essenziale del sound del gruppo, mentre il tastierista Richard Wright e il batterista Nick Mason sono ridotti a figure di contorno. Con Wright il problema è personale: Waters non lo sopporta più e infatti, di lì a un paio d’anni, riuscirà addirittura a estrometterlo; con Mason non c’è nessun dissidio particolare, ma il suo contributo si esaurisce nell’accompagnamento ritmico e, al di là di questo, non ha da fornire grandi idee né sul piano musicale né, tanto meno, su quello dei testi.
La verità che si profila, nel 1977, è che i Pink Floyd sono sempre meno una band nel senso vero e proprio del termine e sempre di più, invece, il marchio di fabbrica che viene messo al servizio di un progetto individuale, che è appunto quello di Roger Waters. La trasformazione è probabilmente inevitabile, vista l’obiettiva supremazia del bassista per quanto riguarda la stesura di nuovi brani, ma verrà pagata a caro prezzo, compromettendo per sempre il delicatissimo equilibrio su cui poggiava la loro produzione migliore. Le differenze reciproche potevano anche essere causa di fastidio e di malumori, ma assicuravano una varietà di approcci (di ipotesi) che si traduceva in una ricchezza di soluzioni. L’instabilità come antidoto alla ripetizione, quand’anche involontaria, e alla monotonia, quand’anche raffinata. Dove il singolo, per quanto brillante, non poteva essere altro che se stesso, l’interazione di tutti e quattro moltiplicava le chance di disegnare traiettorie imprevedibili, per andare dal punto di partenza di un accenno di canzone a quello di arrivo di un brano che fosse allo stesso tempo compiuto in se stesso e intimamente legato a qualcosa di molto più ampio. Squarci di panorama che rivelano un mondo. Se li osservi uno alla volta ti attraggono; se li consideri nel loro insieme ti conquistano. Se ti limiti ad accumulare immagini e sensazioni sei solo un turista. Se senti il bisogno di fermarti, e di saperne di più, e di provare a capire, sei un viaggiatore. Un esploratore al servizio di te stesso.
Ha detto Roger Waters: «Partii con l’idea della costruzione di un muro durante uno spettacolo. L’idea mi colpì subito. Del tutto distante dal suo significato personale, pensai che poteva essere un gran pezzo di rock teatrale. The Wall è parte del mio resoconto, la mia storia, ma io penso che i temi di base risuonino nelle altre persone. L’idea è che noi, come individui, troviamo necessario evitare o negare gli aspetti dolorosi della nostra esperienza, e infatti spesso li usi come mattoni di un muro dietro il quale qualche volta possiamo trovare rifugio, ma dietro il quale possiamo essere facilmente imprigionati emotivamente.»
È così. I più non lo vedono neanche, il muro che li circonda. Oppure credono che li protegga. Per quello che si ricordano è sempre stato lì, anche se ogni tanto, in effetti, qualche cambiamento c’è stato. Certe volte hanno ritoccato il colore. Certe altre la forma. Niente di grave. Niente di male. Al contrario: che vi siano delle modifiche è positivo. È segno che la società si aggiorna, si evolve, migliora. E non è mica che abbiano deciso tutto dall’alto, senza interpellare nessuno. Se ne è discusso, regolarmente. Tutti quanti hanno avuto la possibilità di partecipare alla scelta finale. Non proprio con un dibattito indiscriminato in cui ciascuno era libero di dire la sua. Questo sarebbe impossibile, quando si è così numerosi. Ma ognuno ha potuto indicare le persone di cui si fidava e alle quali voleva delegare il compito di rappresentarlo, nel processo di valutazione delle diverse ipotesi. E alla fine l’esito non deve essere stato così lontano dalla volontà generale, se la quasi totalità lo ha accettato di buon grado.
Il muro è molto grande. Diciamo pure che è immenso. Una miriade di mattoni che si sono aggiunti ad uno ad uno e che, ora, lo rendono così solido. Da lontano sembrano tutti uguali, i mattoni. Se ti avvicini, e osservi meglio, ti rendi conto che non lo sono affatto. Ci sono quelli più grandi e quelli più piccoli. Quelli grossi e squadrati che reggono l’intera struttura, come le regole fondamentali su cui si basa la società. Quelli di formato intermedio, come le consuetudini della maggioranza. Quelli minuti che ce ne vogliono a decine per riempire un piccolo spazio e che vengono sostituiti più spesso, proprio come accade con le preferenze individuali.
The Wall venne pubblicato il 30 novembre 1979. Un doppio album che avrebbe potuto essere ancora più lungo, se i limiti di durata dei 33 giri lo avessero consentito. Una vera e propria rock-opera che va assolutamente ascoltata dall’inizio alla fine – restituendo il superhit di Another Brick in the Wall (part II) alla sua funzione effettiva di singola scena “d’azione” all’interno di un dramma meravigliosamente cupo e introspettivo – e che tre anni dopo sarebbe stata trasformata in film da Alan Parker, con Bob Geldof nei panni del protagonista e una continua alternanza di attori in carne e ossa e di disegni animati. L’immaginazione fluttuante dei sogni, in cui tutto può cambiare nel giro di un istante. L’uccello bianco che si libra dolcemente in volo si trasforma in un rapace che volteggia in cerca di prede. Il rapace si trasforma in un aereo di guerra. Il sogno diventa incubo. La nevrosi come segnale d’allarme di un meccanismo che si sta inceppando. La follia come crisi di rigetto di un trapianto – di una serie di trapianti – che mai e poi mai si sarebbero dovuti effettuare. Organi artificiali al posto di quelli originari. Un cuore più piccolo. Un cervello più disciplinato. Un cuore che deve pompare sangue senza sbalzi, come un carburatore ben registrato. Un cervello che deve assorbire istruzioni, come un computer. La Natura sforna uomini altamente imperfetti, purtroppo. L’educazione supplisce a quelle carenze. Un bambino è un semilavorato in attesa di messa a punto. Un adulto è un dispositivo che è stato finalmente adattato alle esigenze della macchina sociale. E non crediate che sia un lavoro così semplice, anche dopo che lo hai fatto milioni di volte. Ci vuole pazienza. Ci vuole attenzione. Ci vuole la freddezza del tecnico che sa usare tutti i suoi strumenti e riconosce al colpo d’occhio un pezzo difettoso. È abbastanza normale, che ve ne siano. Se avanza un po’ di tempo si prova ad aggiustarli. Se no li si elimina. Mica per cattiveria. Per amore dell’efficienza, che tutti tutela e qualcuno sacrifica.
Il protagonista di The Wall è una rockstar che si chiama Pink. Un giovane inglese che è cresciuto nel Secondo dopoguerra. Madre iperprotettiva, e ottusa. Insegnanti rigidi, e ottusi. Due varianti della stessa sopraffazione. E dello stesso ricatto: il nostro apprezzamento dipende da te. Tu non sai nulla. Noi sappiamo tutto. Tu non sei in grado di valutare che cosa ti fa bene e cosa no. Noi sì che lo siamo. Pensa a quanti anni abbiamo, più di te. C’è un ordine da rispettare, piccolo. Non lo sai che la scuola prepara alla vita? Pink ha avuto successo. Il successo lo ha distratto, per un po’. Per un po’ lo ha tenuto impegnato e gli ha fatto fare un certo numero di cose normali. Si è sposato. Ha fatto dischi e concerti. Ha guadagnato denaro. Ha comprato oggetti. Ha soddisfatto desideri. O capricci. Quanto basta per rallegrarsi, se ti hanno condizionato a dovere. Se ti hanno convinto a rispecchiarti in quello che hai e a non prestare attenzione a quello che sei. L’avere è oggettivo, essendo misurabile. L’essere è sfuggente. Talmente sfuggente che è meglio non fidarsi. L’essere si oggettiva nell’azione. Nella capacità di fissare degli obiettivi e di conseguirli. Gli obiettivi raggiunti producono effetti reali. Gli effetti reali hanno quasi sempre un riscontro economico, diretto o indiretto. È questa la quadratura del cerchio: quello che hai dà la misura di quello che sei. Lo attesta. Lo certifica.
Ma Pink deve avere saltato alcune lezioni, lungo la strada. Forse non si è impegnato a sufficienza. O forse non era in grado di farcela. Forse, sotto la sua riuscita come artista, è ancora il ragazzino inquieto e immaturo che era all’inizio. Al diavolo. I pezzi più insidiosi sono quelli con un difetto ben nascosto. “Vizi occulti della cosa”, come dicono i giuristi. Pink guarda quello che gli sta intorno e non sa cosa farsene. Il lusso è solo una cornice: e lui non vede nessun quadro che meriti di essere incorniciato. Le persone che gli si avvicinano sono comparse di un copione che non gli interessa. Magari è stato davvero lui, a scrivere il soggetto iniziale. Ma poi deve averci messo le mani qualcun altro, visto che non ci si riconosce più per niente. Perché mai dovrebbe ostinarsi a correggerlo, allora? Perché mai, adesso che ha capito che in ogni caso sarà solo la premessa di un’ennesima messinscena?Il muro verrà distrutto, alla fine. Ma non ci sarà nessuna festa. Nessuna liberazione da celebrare e nessuna certezza su cui basarsi. Il muro è la risposta sbagliata al bisogno di sicurezza. Ma il bisogno di sicurezza rimane. La debolezza umana, rimane.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000 su Ideazione.com. Attualmente, tra l’altro, cura la rubrica “Ad alto volume” sull’edizione domenicale del "Secolo d’Italia" e collabora al mensile “La voce del ribelle”, la rivista diretta da Massimo Fini.
2 commenti:
Ottimo pezzo, anche se bisogna dire che la questione "credits" dei Pink Floyd è un po' particolare. Waters ha sempre spinto perchè avesse importanza, Gilmour ha sempre ritenuto che dovessero fare una società: dividere per 4 e lavorare più in sintonia.
In particolare su "Animals", per esempio, "Sheep" è una composizione che a detta di Gilmour è 50% sua e 50% di Waters (che scrive ovviamente tutti i testi, molto violenti, ma si troppo empatici rispetto alla linea Orwell). E ci sono casi analoghi su "The Wall", che non sarebbe stato possibile senza la ricostruzione di Gilmour ed Ezrin (Waters non ha scritto una sola nota di pentagramma di nessun assolo di Gilmour, nemmeno quando ha firmato lui il suono: Money e Another Brick In The Wall sono 2 chiari esempi, firmati Waters, ma di pura inventiva dell'altro).
Personalmente ritengo The Wall troppo ambizioso per il tema, anche se efficace e con momenti di musica e liriche notevoli. Ma è poco floydiano nell'insieme, tranne qualche raro episodio ed è poco omogeneo, un po' come il White Album dei Beatles. Risente parecchio delle divisioni del gruppo e l'assenza di Wright si fa sentire.
Dei 4 album importanti dei '70 è quello che a mio avviso ha minor impatto, anche se è un grande successo commerciale. Preferisco di gran lunga la chitarra ruvida di Animals e gli slanci rock di Wish You Were Here che ha sezioni veramente memorabili (Have a Cigar, gran testo e grandi parti chitarristiche // le parti di chitarra e certi sintetizzatori di Shine On) e la compattezza sonora di Dark Side, che resta insuperabile nel panorama discografico di quel decennio.
saluti.
L'ho risentito recentemente, dopo anni e anni di rifiuto dei Pink Floyd.
Devo ammettere che il mio periodo "pink" è stato relativamente breve: dai 16 ai 18 anni, folgorato in realtà da un album molto più vecchio ("Atom Heart Mother"). In ogni caso, dei Pink Floyd mi sono stufato in fretta. "The Wall" all'epoca mi sembrava un grande album, anche per la sua magniloquenza (soprattutto sovrastrutturale, perché gli accordi della maggior parte della canzoni sono di una semplicità disarmante). Riascoltandolo l'ho trovato vecchio e pesante, artificioso, privo di genio. Barret aveva visto giusto sui suoi amici: "Loro sono degli studenti di architettura, non degli studenti d'arte come me".
In sostanza, quando riascolto i Pink Floyd li reggo a fatica. Certo, "The Wall" ha dei bei brani come "Hey you" o "Confortably numb", qualche sprizzo di industrial, ma nell'insieme è soprattutto la colonna sonora di un film che la band ha infilato dentro con suoni artificiali, bit e voci televisive. Come opera rock lascia il tempo come trova. Non ha la forza e la creatività di "Tommy", ad esempio. Ma posso anche essere condizionato dalla produzione successiva dei Pink, che ne accentuerà ancora di più l'artificiosità. Di loro, come opera d'arte, rimane solo "The piper of the gates of dawn" con Barret.
Quando sento i Pink Floyd avverto in parte la vecchiezza del suono (che eppure si voleva innovativo) e la loro obsolescenza. Trovo tuttora più innovativi i Led Zeppelin, i Deep Purple di "In Rock" o i Clash. La parola "dinosauro", per i Pink, è abbastanza attinente.
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