Articolo di Errico Passaro
Dal Secolo d'Italia del 4 novembre 2009
Una delle critiche mosse più di frequente ai critici è quella indirizzata a chi ama gli sconfinamenti dai generi, la rottura degli schemi, le letture incrociate, il ricorso agli strumenti interpretativi provenienti da altre discipline. In particolare, esiste un radicato pregiudizio contro ogni passaggio dallo studio della letteratura fantastica a quello della letteratura realistica, come se, alla fine, pur nella diversità delle fonti, non si trattasse sempre e comunque di "arte del raccontare". Noi, restii a ogni forma di costrizione intellettuale, amiamo misurarci, oltre che con gli scenari spettacolari della fantascienza, del fantastico, dell'horror e del surreale, anche con le ambientazioni minime e rarefatte del mainstream.
Non troviamo contraddizione nell'occuparci di guerre stellari come di conflitti terrestri, di uomini che amano alieni come di uomini che amano donne, di mutanti, elfi o vampiri come di extracomunitari, criminali o adolescenti in calore. Per questo motivo, possiamo dedicare le nostre riflessioni odierne - speriamo senza scandalo di nessuno - all'ultima opera del romanziere turco Orhan Pamuk, Il museo dell'innocenza (Einaudi, pp. 585, euro 24, traduzione di Barbara La Rosa Salim), accostandoci all'autore con il riguardo e la prudenza che si devono a un Premio Nobel per la letteratura. Il romanzo narra il colpo di fulmine tra Kemal, già promesso alla fidanzata Sibel, e la giovane e seducente Fusul. Kemal ha «la fortuna di poter vivere una relazione profonda e segreta con una donna affascinante e selvaggia, e contemporaneamente godere, con tutti i piaceri che ne conseguono, di una felice vita famigliare insieme ad una donna bella, assennata, colta e istruita». Quando Fusul sparisce, il nostro Kemal soffre un mal d'amore, anche fisico, che lo porta a far saltare tutti i programmi di matrimonio e a trascurare gli affari. Fusul finisce per riapparire nell'orizzonte degli eventi di Kemal, ma il loro rapporto non è più quello di prima: per otto interminabili anni, l'uomo si estenuerà in un vano corteggiamento, raccogliendo tutti i "memorabilia" dell'amata, fino ad una nuova dolorosa svolta.
Grazie al credito acquisito con capolavori come Il mio nome è rosso, oggi Pamuk può imbarcarsi in un'impresa a suo modo geniale: raccontare nella finzione del romanzo la storia dell'amore fra un uomo e una donna attraverso gli oggetti che li circondano, mentre nella realtà di tutti i giorni ricerca, fa riprodurre da artigiani ed espone quegli stessi oggetti in un autentico museo di Istanbul vecchia. Espediente commerciale? Trovata pubblicitaria? O, come crediamo, complice gioco di specchi fra arte e vita? Vi riferiamo le impressioni di lettura in ordine sparso, riprendendo gli appunti volanti presi in treno, in salotto, sulla spiaggia, ovunque ci siamo trovati ad aprire il volume. Una delle prime annotazioni è, appunto, "religione delle cose". La finzione nella finzione, tutta metaletteraria, è quella con la quale il narratore-protagonista espone di volta in volta al lettore gli oggetti di scena, come un avvocato che presenti al giudice, alla giuria, alle parti i reperti a discarico del proprio assistito. Il romanzo si fonda letteralmente sulla «potenza consolatoria delle cose»: che siano queste pezzi di antiquariato, arredi, giocattoli, gli oggetti confortano il protagonista, lo salvano dalla sensazione di transitorietà e fallacità prodotta dagli sviluppi inattesi della sua vicenda sentimentale, lo illudono di poter conservare una parte dell'amata attraverso i ricordi che essi ispirano. Le cose sono, proustianamente, custodie del passato, depositi della memoria, ricettacoli magici da cui evocare le emozioni dei momenti passati insieme. L'affezione per i ricordi assume, alla fine, contorni morbosi, patologici, di pari passo con la deriva umana del protagonista. Un'altra annotazione, vergata con caratteri incerti su un ritaglio di carta, suona come "città protagonista". La città in questione è Istanbul, crocevia di civiltà, simbolo della Turchia come ponte fra Oriente e Occidente. Per Pamuk essa non è un esotico fondale da cartolina contro il quale inscenare i languori levantini dei suoi personaggi, ma è la rappresentazione della borghesia cittadina, nel guado fra tradizione e modernizzazione, attraverso i luoghi di frequentazione sociale: gli alberghi, le case private, le spiagge, le piazze e i luoghi di culto, i circoli e i negozi.
Un ulteriore appunto si legge proprio come "personaggi". Il romanzo è incentrato sulla coppia Kemal-Fusun, ma non mancano gustosi momenti corali, come quello del ricevimento per il fidanzamento di Kemal e Sibel: qui troviamo una lunga scena di ballo, che non si può fare a meno di rapportare a quelle memorabili di Tolstoi - la Turchia del XX secolo come la Russia del XIX? Perché no? - per la finezza della definizione psicologica dei personaggi, anche quelli minori, e la sapienza con cui persino l'autore riesce ad assumere il ruolo di comparsa all'interno della sua stessa opera senza che ciò appaia una forzatura. Questa abilità è esercitata, in particolare, nei ritratti di famiglia, in cui spicca il senso di coesione della comunità parentale e l'indissolubilità del legame di sangue, a dispetto delle differenze caratteriali degli individui. L'ultima parola appuntata è "amore". Il romanzo è infatti tutto giocato sulle schermaglie e i tormenti d'amore di Kemal e Fusun, sulle spine della gelosia, sul tempo sospeso dell'attesa di un loro incontro, di una parola fatale, di un ritorno. In tempi in cui anche il privato diventa pubblico attraverso i meccanismi perversi del gossip, del dossieraggio politico, del reality show, si assiste qui ad una rivincita della sfera intima, in cui il silenzio - simile ad un film a cui sia tolto l'audio - pesa come e più delle parole. Anche nel descrivere come Kemal si innamora perdutamente di Fusun, mandando a rotoli la sua esistenza agiata e ordinaria, il Premio Nobel adotta un registro di discrezione e di pudore che molti letterati e giornalisti del nostro tempo non sanno più usare.
Ecco, la nostra recensione è davvero finita. Ogni recensione, in genere, è un invito alla lettura, ma, per una volta, ci piacerebbe che le nostre parole potessero raggiungere chi sta già leggendo il libro di Pamuk o addirittura chi l'ha già finito, in un ideale dialogo a distanza con la vasta platea dei lettori.
Errico Passaro. Ufficiale dell'Aeronautica Militare, dottore in giurisprudenza, è giornalista pubblicista. Ha pubblicato su testate e collane professionali un saggio in volume, oltre 100 racconti e cinque romanzi: "Il delirio", Solfanelli; "Nel solstizio del tempo", Keltia; "Gli anni dell'aquila", Settimo Sigillo; "Le maschere del potere", Nord; "Inferni", Secolo d'Italia. Dal 12 maggio è in libreria il romanzo fantasy (scritto con Gabriele Marconi) "Il Regno Nascosto" (Dario Flaccovio Editore).
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